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22 febbraio 2012 3 22 /02 /febbraio /2012 08:52

Fiaba dell’Africa Nera

 

Il re e il genio del lago”

 

 

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C’era tanto tempo fa un re, che si vantava d’essere l’uomo più felice della terra.

Egli aveva vinto tutti i reami confinanti ed annesso molti paesi che pagavano tasse salate.

Tutto il mondo lo temeva, perché poteva contare su un esercito formidabile di terribili guerrieri.

Si credeva il signore dell’universo, il numero uno, perché, oltre a un potere sconfinato, aveva per moglie la donna più bella della terra e un figlio maschio che non era secondo a nessuno per intelligenza.

Ad ogni piè sospinto, egli ripeteva di non conoscere il significato della parola dolore.

Ora avvenne che il figlio un giorno cadde malato, restando immobile, come paralizzato in ogni parte del corpo.

Il re consultò i luminari della medicina, che visitarono il principe senza trovare un rimedio alla sua infermità.

Allora il sovrano convocò tutte le streghe del regno, ma nessun sortilegio ottenne la guarigione del fanciullo.

Tutto il popolo fu mobilitato per pregare il cielo di aiutare il principe: riti religiosi si svolsero nei boschi sacri, furono invocati gli spiriti degli antenati.

Il re decise infine di fare il giro del mondo in compagnia di uomini sapienti, nella speranza di incontrare qualcuno che potesse aiutarlo.

Spese una fortuna in queste ricerche. Perse l’appetito e il sonno: per la prima volta in vita sua seppe cosa vuol dire soffrire. Non rideva più, preferiva la solitudine, si disinteressava di tutto e di tutti.

Quanto alla regina, non usciva più dalle sue stanze e non ascoltava più i concerti quotidiani dei cantori del palazzo, che sempre le avevano procurato gran piacere con le loro meravigliose melodie.

La regina restava ore e ore al capezzale del figlio, raccontandogli storie, con la speranza di procurargli sollievo e farlo sorridere.

Così la vita di corte era divenuta triste e lugubre.

Una sera, a buio, una vecchia si presentò alla porta del palazzo reale, dicendo: “Sono venuta perché so chi può far guarire il principe cadetto”.

Ebbe immediata udienza dal re a cui confidò: “Nelle notti di plenilunio, un uomo che non appartiene né alla terra, né al cielo si tuffa nelle acque del lago che si trova nel parco della reggia”.

Costui è un Genio! Non è un mio suddito e non posso impartirgli ordini” esclamò affranto il re.

La vecchia suggerì: “Nel tuo regno si produce un ottimo miele. Fallo fermentare e diventerà una forte grappa che, versata nell’acqua del lago, lo trasformerà in un inebriante idromele. Il Genio lo inalerà dal naso e si addormenterà. Al suo risveglio i soldati lo inviteranno a venire a corte, per offrire i suoi consigli.”

Detto fatto, il re ordinò a tre suoi soldati fidati di preparare un nascondiglio sulla riva del lago e di mettersi di posta.

La notte di plenilunio, il Genio si tuffò e scoprì nell’acqua un sapore dolce che non aveva mai sentito. Chiuse gli occhi e sorbì questa bevanda squisita, finchè non si addormentò profondamente.

Alle prime luce del mattino il Genio si sveglio, trovandosi circondato da tre grandi guerrieri.

“Niente paura” lo rassicurarono gli uomini armati “Il nostro re ha bisogno di te: il suo unico figlio si è ammalato e solo la tua sapienza può indicare la via giusta per salvarlo.”

Il Genio scoppiò a ridere, tuttavia seguì quei guerrieri senza far motto.

Cammin facendo, incontrarono un uomo appoggiato al tronco di un albero, che prediceva la fortuna a chi gli dava una moneta d’elemosina.

A quella vista il Genio proruppe in una grande risata.

Arrivati che furono al Palazzo, il Genio fu ricevuto dal re nella camera dove giaceva il figlio ammalato.

Anche stavolta il Genio non potè trattenere una fragorosa risata, ma poi, assunta un’aria seria, dichiarò al sovrano: “Sono pronto a guarire il ragazzo, a patto che il primo ministro, la Regina e tu stesso, abbiate il coraggio di confessare una verità nascosta nel vostro cuore, che in pubblico non potrebbe mai essere detta.” Il re fece venire il primo ministro il quale, informato di quel che doveva fare, dopo un attimo di esitazione, rese noto un suo recondito pensiero: “Maestà, sotto sotto ho desiderato  che vostro figlio restasse infermo per sempre, al fine di mantenere il potere che ho oggi e di succedervi un domani.”

“Ah, è proprio vero che il sogni di tutti i secondi è quello di diventare primi!” sospirò il Genio. “Per questo sono pronti a tutto”.

Era la volta della Regina.

La Regine si volse verso il marito e gli disse: “Tu mi regali collane e pietre preziose, certamente cerchi di compiacermi, ma le tue poche forze non bastano a rendermi felice. La verità è che io non sono innamorata di te.”

“Una confessione così dolorosa e profonda, non me l’aspettavo” pensò il genio turbato.

Ma ciò che dichiarò il re fu ancora più devastante: “Genio, io avevo un fratello maggiore che non sapeva nuotare. Un giorno l’ho affogato nel lago e ho fatto accusare degli innocenti. In tal modo restai l’unico erede del regno di mio padre”.

Il Genio riflettè che questa ammissione di colpa non poteva certo essere resa nota davanti a nessuno.

“Ora che avete liberato il vostro cuore da codesti pesanti fardelli, io posso guarire il principino!” annunciò il Genio.

E subito ordinò di tirare il collo ad una gallina nera che zampettava proprio nella camera del ragazzo ammalato e di fargliela mangiare.

Appena l’ordine del Genio fu soddisfatto, il piccolo infermo riprese l’uso delle mani e dei piedi.

Fu allora organizzata una grande festa e il Genio fu pubblicamente ringraziato e onorato.

Mentre lo riaccompagnavano fuori dal palazzo, i soldati della scorta chiesero al Genio il motivo di quelle tre risate, a cui lui si era lasciato andare.

Ed egli rispose così: “Quando sono uscito dal lago, mi sono divertito a pensare che gli uomini ritengono che ci siano alcuni, come i Geni, che sanno tutto. Invece, io non mi sono nemmeno accorto della grappa che mi ha inebetito: altrimenti avrei rinunciato a quel bagno. Dopodichè, lungo la strada, ho trovato l’uomo che prediceva ai passanti il modo di arricchirsi e non sapeva che proprio sotto i suoi piedi c’è nascosto uno scrigno pieno di monete d’oro. Risi perciò al pensiero che c’è chi parla di cose di cui non sa nulla. Infine, appena entrato nella camera del principe, ho visto la gallina nera rimpiattarsi sotto il letto.

Il vostro re ha speso una fortuna per salvare il figlio, mentre il rimedio l’aveva proprio a portata di mano. Ho riso dunque della gente che cerca  lontano la felicità, senza rendersi conto che ce l’ha in casa”:

Intanto erano arrivati sulla riva del lago. Il genio si tuffò e prima di scomparire alla vista, intonò questa canzone:

 

Colui che sa qualcosa, deve farla conoscere

Colui che sa di non sapere, avrà l’occasione di sapere.

Colui che non sa di sapere, deve essere incoraggiato, perché non ha fiducia in se stesso.

Colui che non sa che non sa, io non so che farci ……

 

 

 

 

Brevi Riflessioni

Di Sabrina Costantini

 

Questa fiaba appartenente ad un’altra cultura, si svela nella sua diversità fin dall’inizio. La prima cosa di cui si vanta il re infatti, non è il potere o la ricchezza, bensì la felicità: è l’uomo più felice della terra.

L’aspetto materiale viene annoverato di seguito, fra i motivi della sua grande felicità, insieme al possesso di una moglie bellissima e di un figlio intelligentissimo.

Ora la paralisi del figlio interrompe questa condizione beata. Sembra proprio che non vi sia rimedio, almeno fino al comparire del Genio. Il re gira in lungo e largo la terra per trovare un rimedio, ma non c’è, non all’esterno almeno.

Il Genio non è tale perché possiede poteri sconfinati, in realtà è genio perché sa guardare e leggere le cose. Ciò che lo fa ridere rivela tre grandi verità: di un presunto sapere da parte di chi non sa, di un’ignoranza di qualcosa che in realtà si conosce, di un’ignoranza di qualcosa che in verità non si conosce.

L’intervento del Genio si articola unicamente nel mostrare al re che ha già la causa e la soluzione del dilemma. L’immobilità è dovuta alle forze nascoste del proprio essere, che non mostrano la motivazione in tutte le sue componenti.

Il secondo non vuole altro che diventare primo, non accetta di essere tale ed è disposto a tutto. Non a caso il primo ministro in cuor suo gioiva della mancata guarigione del figlio e ciò che il primo ministro mostra nei pensieri, il re lo ha dimostrato nei fatti, pur di possedere tutto ciò che ha, si è macchiato del delitto del fratello.

La regina invece non riesce ad essere felice perché sente di non avere abbastanza tempo ed energia dal re e comunque qualunque suo sforzo ulteriore non cambierebbe il suo stato interno, il suo non amore per lui.

Adesso dunque dovevano decidere se mettere un altro, questo bambino, di fronte a tutto, compreso loro stessi e ai loro interessi. Confessare le loro verità nascoste, dure, dolorose e inconfessabili è stato il banco di prova, che tutti hanno superato brillantemente, hanno condiviso qualcosa di veramente truce e vergognoso.

E la gallina nera che girava nella stanza ha assolto il ruolo di agnello sacrificale, ha materializzato un nutrimento partito dall’anima e dalla volontà dei tre, delle tre figure intorno a cui girava il destino del principino. La gallina nera, rappresentava ciò che si nascondeva e teneva inchiodato al letto il bambino, l’ultima generazione, quella che avrebbe dovuto volare grazie alle radici fornite dal proprio ambiente.

E così il principe ha ripreso l’uso degli arti e così tutto è tornato a scorrere secondo natura. Ed il genio, quest’essere che si tuffa nelle notte di luna piena, quando tutto è visibile, quando le condizioni sono tenebrose e veritiere, è solo un cantore della verità nascosta, è solo il mezzo per sapere del proprio sapere o della propria ignoranza, per esibire ciò che si nasconde nel fondo di noi.

Ma è la volontà di ciascuno che fa la differenza. Chi non vuol sapere di non sapere non ha chance, non può che rimanere dov’è.

Torniamo al messaggio di molte fiabe occidentali che iniziano con “Quando desiderare serviva ancora a qualcosa”. Si ritorna alla dimensione del volere, del desiderare, l’unica forza che conduce alla riuscita di qualcosa che non sta lontano, non sta nei medici, nei sapienti, nelle pozioni magiche, ma solo dentro di noi ed è lì pronto per essere riscoperto!

E’ altrettanto interessante notare che il re si rammarica di non poter comandare niente al Genio in quanto genio e non un normale suddito del suo regno. Ci suggerisce che per accattivarsi le forze dell’inconscio non serve ordinare, spadroneggiare, controllare, non serve né la forza né la ricchezza, ma è necessario se-durre, portare a sé appunto, inebriare per poi chiedere. Siamo in un'altra dimensione, quella della luna piena, quella della dolcezza e dell’inebriamento, siamo nella stravaganza e nell’irrazionale!

Ed è proprio là, nel chiarore lunare che possiamo guardare alle nostre motivazioni, ai nostri sentimenti, ai fardelli nascosti. Là la vita riprenderà a scorrere per come le compete.

 

 

 

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15 febbraio 2012 3 15 /02 /febbraio /2012 09:47

Scusi ho sbagliato!

Dott.sa Sabrina Costantini

 

Psicologia dubbio autostima[1]

 

Fare le scuse a qualcun altro ormai sembra una moda in disuso, un’educazione sorpassata, non si fa più, è un atto ormai ritenuto scontato, ma alla fine denota una sorta di barriera fra noi e gli altri.

Sembra quasi che chiedere scusa rappresenti un peso, un’onta, una vergogna, un cedere qualcosa e non si sa bene cosa.

Non si chiede più scusa neanche di fronte a visibili errori, neanche di fronte ad un’atroce sofferenza, al disorientamento e al dubbio, quasi che la non intenzionalità di un dato effetto ci sottraesse dalle nostre responsabilità, dagli effetti dei nostri atti, che seppur involontari possono essere comunque nocivi e lesivi nei confronti degli altri.

Al di là del fatto che ciò che ci spinge non sono le motivazioni coscienti ma quelle inconsce, è bene ricordare che nonostante i nostri sforzi e le nostre buone intenzioni, c’è sempre la possibilità di poter ferire gli altri, se non altro per la realtà della nostra individualità. Ciò che a noi può sembrare innocente e innocuo, può ferire profondamente la sensibilità di un’altra persona, che ha una storia diversa dalla nostra e un modo tutto suo di vivere, percepire ed interpretare gli eventi.

Facciamo il banale esempio dell’insegnante elementare che chiede agli alunni di scrivere un tema, sull’importanza del padre nella  propria vita. L’intenzione e le parole pronunciate non contengono elementi irrispettosi, violenti, svalutanti o altro, eppure può essere che quella richiesta ferisca uno degli allievi, in quanto orfano di padre.

Di fronte al dolore dell’altro, fisico o psichico che sia, ritengo sia profondamente umano dire “Mi spiace”, come segno di reale comprensione dello stato dell’altro, segno di interesse verso l’altro, pur sconosciuto che sia. Naturalmente non è sufficiente pronunciare una formula vuota, ma è comunque necessaria una reale comprensione e compartecipazione al sentire di chi ci sta di fronte.

Aggiungere poi “Scusi ho sbagliato” diventa un gesto altamente riparativo, che pure spesso ci rifiutiamo di assumere. Siamo talmente trincerati dietro la forza della nostra motivazione conscia, dietro il fatto di aver ragione, di non aver voluto nuocere a nessuno, che ci dimentichiamo le vie sotterranee della nostra responsabilità, la vastità dell’effetto di ciascuna delle nostre azioni. Ci fermiamo al piano esterno dell’avere ragione, della competizione e della contesa, tralasciando quanto realmente è accaduto, le emozioni in ballo e le persone che ci sono sotto.

Dietro questa condotta, s’innesca una profonda sofferenza, solitudine, una vita all’insegna della vendetta e della giustizia a tutti i costi. Chi soffre spesso nasconde il dolore sotto la rabbia, sotto una richiesta di risarcimento (emotivo, morale, giuridico, economico, ecc.), che può durare tutta la vita, all’insegna della rincorsa con qualcosa che non appagherà mai, non sanerà mai la vera origine della sofferenza. Tutto per una parola mancata, che rappresenta un atto mentale, una risposta riparativa e risanante, che riconosce l’altro, gli riconosce la propria posizione e il diritto all’offesa, all’umiliazione, alla sofferenza.

Nonostante questo, nonostante l’enorme importanza dello stare di fronte al nostro interlocutore, di dare peso al suo e al nostro mondo, molto spesso nel nostro immaginario chi chiede scusa viene identificato con colui che realmente ha torto, con un debole, uno che si fa mettere i piedi in testa da tutti. E allora, è bene non abbassarsi troppo, non far credere di essere dispiaciuti, disponibili, che si hanno buoni sentimenti, altrimenti qualcuno se ne approfitterà. Si crea una sovrapposizione di piani, un conto è chiedere scusa, essere in contatto con l’emotività e la visione dell’altro, un conto è non permettere che ciò porti all’approfitto. Anche ci fosse stato un errore, questo non dà comunque diritto di surclassare l’altro e i suoi diritti. E’ giusto chiedere scusa, non di meno l’errore non fornisce il potere all’altro di uno sconto o di un approfitto.

Lo stesso vale per la parola “Grazie”, spesso associata ad una persona debole, indifesa, inconsapevole e può condurre ad arrogare dei diritti o a comportarsi come maestri o padroni della situazione.

Facciamo un altro esempio del concetto di colpa, questa volta prendiamo dell’automobilista che si trova coinvolto in un incidente, in cui una persona perderà la vita. Naturalmente non era sua intenzione fare del male ed in base a com’è andata la dinamica dell’incidente, non si sente minimamente responsabile di quanto accaduto. Ammettiamo che la persona in questione abbia effettivamente ragione e non abbia alcuna forma di responsabilità neanche indiretta, anche in questo caso rimane vero che una persona è morta. Ora se il nostro automobilista, forte della mancata responsabilità, desidera solo il risarcimento del danno materiale per poter cancellare l’evento dalla sua vita, agisce senza tener conto che un essere umano ha cessato di esistere e che ci sono delle persone che lo amavano che non hanno più possibilità, che non possono riportarlo in vita, soffrono immensamente per una perdita subita improvvisamente. Pur avendo ragione, non tenendo conto di tutto questo, ignorando la sofferenza dei parenti, si pone in un atto di profondo egoismo ed isolamento.

Dal punto di vista dei familiari il loro caro è morto e di chiunque sia la colpa, di fatto non c’è più e non ci sono alternative. Nel vedere l’automobilista indifferente, che non rivolge loro neanche una parola, s’indignano, si offendono, si arrabbiano senza posa. A loro volta, chiedono giustizia!

Ma l’automobilista che c’entra? Non ha fatto nulla, è lui la vittima dello scontro ed è stato fortunato ad essere ancora vivo! E non è certo per questa “fortuna” che deve qualcosa a qualcuno.

Di fatto è così però, ammesso che si possa veramente stabilire che la responsabilità sia tutta da una parte, è poi così importante? E’ poi così deresponsabilizzante, a livello morale? Ci autorizza a fregarcene, come se avessimo solo dato un calcio ad un sasso incontrato per strada?

Pur avendo ragione, perché ci costa tanto dire “Mi spiace!” ancor prima che “Mi scusi”? Cosa mai perderemo di noi, in queste poche parole?

Sicuramente l’automobilista non deve nulla, non di meno la mancanza di quest’atto lo porta a una condizione di assoluta cecità, di avarizia.

In una cultura come la nostra, veloce, materialista, virtuale, estetica, esibizionista, parcellizzata, ogni cosa deve stare al suo perfetto posto e in nessun altro, non ci si può fermare ad ascoltare, a sentire con qualcun altro, a valutare il peso emotivo su quanto ci sta capitando, ancor prima di valutare l’entità del danno, da pretendere legalmente.

Giustizia, abbiamo tutti bisogno di giustizia, vogliamo sapere che la ragione è dalla nostra, non abbiamo niente da dare a nessuno, come se l’attribuzione di una qualche responsabilità comportasse chissà quale dovere, chissà quale coinvolgimento ed impegno, chissà quale privazione. Infatti, non sappiamo più affrontare le questioni della vita quotidiana, se non litigando, se non ricorrendo ad un legale, alla denuncia, alla minaccia, allo scontro bruto, di parole, di atti, di usurpazioni, di violenza, di colpi intellettuali, di cavilli legali. Non sappiamo più venirci incontro, confrontarci, scontrarci, andando al centro della relazione stessa.

Qualunque errore o difetto, costituisce un’occasione per chiedere uno sconto, un potere, un favore, una posizione di comodo. Quasi dovessimo a tutti i costi stabilire un suddito ed un dominatore, non sappiamo più neanche competere in modo onesto e rispettoso.

Penso che se ci disponessimo ad ascoltare maggiormente noi e gli altri, se riuscissimo ad empatizzare con il sentire di chi ci sta di fronte, anziché lanciarci in supposizioni, articolare giustificazioni, motivazioni che ci discolpano, allora forse ci sentiremo tutti meno incompresi e soli, forse i tribunali non sarebbero così carichi di cause civili e penali.

Ancor di più, quest’atto di profonda umiltà, assume un valore incommensurabile quando siamo di fronte ad una relazione asimmetrica, come quella del genitore-bambino, insegnante-alunno, medico-paziente, terapeuta-paziente, datore di lavoro-dipendente, ecc. Le scuse di chi sta nel polo favorito dell’asimmetria sono assai rare, più che mai interpretate come atto di debolezza, perdita di posizione. In realtà, le scuse, l’avvicinamento emotivo all’altro polo della relazione, non fa perdere posizione o potere, ma aggiunge alla relazione “professionale” o comunque alla relazione dettata dal ruolo, una relazione, una dimensione umana, che sta sotto quella definita socialmente.

Chi sta al “potere” non perde la responsabilità ed il ruolo di decidere, di avere un peso sulla progettazione (di vita, professionale, scolastica, ecc.), ma tiene conto dell’altro come persona che ha delle proprie emozioni ed un proprio pensiero, ma tiene conto anche di sé, non unicamente come di chi deve assolvere un compito, ma come persona totale.

Pensate alla rabbia, al disorientamento, al senso di annullamento che vive la persona che si trova nel polo più debole della relazione. Riflettiamo per esempio sulla relazione genitore-bambino, è inevitabile che il genitore sbagli, sarebbe anomalo il contrario e dunque se è così perché non riconoscerlo? E’ un controsenso, è contro educativo, è una negazione della realtà.

Probabilmente sotto questo mancato riconoscimento dell’adulto, risiede il tentativo di non perdere la credibilità agli occhi del figlio. Non di meno è un controsenso appunto, perché la credibilità non risiede nella perfezione, ma nella coerenza fra ciò che si dice e ciò che si agisce. Ad esempio se si desidera insegnare che per imparare a fare le cose è necessario avere la pazienza di fare esperienza, la costanza di esercitarci in ciò che non ci riesce, la voglia di capire e di cambiare, il genitore per primo deve applicare su sé questa regola. In fin dei conti, anche se è un adulto, il ruolo di genitore è qualcosa di nuovo per lui, che deve gradualmente imparare a fare e a migliorare. In questo, sono compresi gli errori ed i cambiamenti di rotta. Non accettare anche per sé stessi questa realtà, insegna che a parole si dicono delle cose ma a fatti nessuno vuol sbagliare, nessuno vuol riconoscere gli errori e vuol veramente capire gli effetti dei propri errori, su sé e sugli altri. Il più grande insegnamento che un genitore può passare ad un figlio è proprio l’esempio diretto di errori, visti, riconosciuti, trasformati, mostrare quindi che gli errori sono occasione di cambiamento e di relazione umanamente alla pari. I figli così, impareranno che è veramente naturale sbagliare, che si deve tenerne conto, usandolo per incontrare noi stessi e gli altri in modo più ottimale.

Poniamo ad esempio il genitore che voglia insegnare ai figli la tolleranza e la non violenza, ma che di fronte alla disobbedienza del figlio, per rimettere a posto i ruoli, usi le mani. Se l’adulto dopo tale reazione, comincia a giustificarsi, trovando dei buoni motivi per il suo atto, es. che il figlio è veramente difficile, indomabile, incontenibile, toglie la pazienza a chiunque, ecc., allora quello che insegna è che se si ha un buon motivo, la violenza va bene e nelle situazioni difficili diventa un’arma efficace. Se invece l’adulto comprende che ciò che ha fatto non va bene, che non è riuscito ad utilizzare altre risorse, perché lui non crede di averne ed è ricorso all’unica modalità che ha subito come bambino, allora forse rifletterà sul fatto che non sa quali siano le alternative ma sa che ci sono e desidera impegnarsi per trovarle, esattamente come vuole insegnare al proprio figlio.

Parimenti, una situazione analoga può accadere fra docente e discente. Poniamo il caso del docente che voglia insegnare all’allievo, non solo un contenuto specifico (italiano, storia, matematica, ecc.) ma voglia anche fargli comprendere che l’apprendimento necessita di una condizione di curiosità ma anche di umiltà e riconoscimento della propria ignoranza, in modo da disporsi a vedere ciò che deve essere colmato con motivazione ed interesse. Il messaggio più importante che può passargli è che imparare è bello, stimolante, eccitante, perché con le nuove conoscenze ci si sente più vivi, più padroni di noi e del mondo, più consapevoli del contesto in cui viviamo (fisico, relazionale, ecc.) e via via. Mettiamo che il docente non sia a conoscenza di una nozione richiestagli o che sbagli nel dire un concetto, anche in questo caso, può arrogarsi il diritto di non essere contestato nella propria posizione e difendere una risposta errata e congettata lì per lì, oppure può semplicemente riconoscere l’errore, la mancanza e mostrare in modo diretto che non si finisce mai di imparare e che ignorare qualcosa non è vergognoso ma umano, lo stimolo per andare a cercare ciò che non si sa.

Se l’insegnante non riconosce il proprio errore o mancanza, insegnerà agli alunni che ciò che conta non è ciò che impariamo e come sappiamo usarlo, ma ciò che conta veramente è la capacità di far finta di sapere e la posizione di potere, necessaria per essere nella condizione di intoccabilità. Ecco allora che con l’intenzione facciamo una cosa ma poi coi fatti ne facciamo un’altra ed i risultati ce lo mostrano. Risulta ancor più duro e disorientante se, chi ha prodotto questo risultato non ne riconosce la paternità e inveisce contro gli altri, contro le nuove generazioni, i giovani, gli studenti, i figli, i dipendenti, ecc.

Possiamo proseguire con gli esempi e includere il rapporto medico-paziente, terapeuta-paziente. Partiamo dal forte sbilancio che caratterizza la relazione, sia in termini di sapere sullo specifico ambito, sia in termini emotivi. Il paziente si trova in un profondo stato di sofferenza ed il medico/terapeuta per formazione, competenza, esperienza, può lenire, può intervenire, quindi viene ancor più innalzato fino ad essere talvolta idealizzato, possedendo un ascendente fuori misura sul paziente. Ma se guardiamo la cura (medica, psicologica, sociale, logopedia, ecc.) nel nuovo panorama concettuale, essa s’inquadra in una crescente presa di responsabilità del paziente rispetto a sé, in un’ottica di prevenzione (primaria, secondaria e terziaria), di riabilitazione e cura. Se svalutiamo qualunque sensazione, ipotesi o autonomia del paziente, imponendo sempre e comunque la propria idea di cura, di proposta diagnostica e terapeutica, misconoscendo l’importanza delle informazioni che giungono dalla persona in questione e negando qualunque fraintendimento, non comprensione o errore, allora remiamo contro l’impostazione teorica e l’obiettivo che ci siamo prefissati. Rafforziamo prepotentemente l’idea che il paziente deve accettare passivamente qualunque ipotesi, qualunque accertamento e cura proposta, senza mettersi nei propri panni, cercando di comprendere il proprio vissuto ed esperienza a quanto gli viene proposto.

Anche in questo caso si rafforza a tutti i costi l’idea di uno dei due della relazione, in primo piano rispetto all’altro in termini di conoscenza, potere, decisività. A parole si privilegia la relazione, lo scambio, la reciproca responsabilità, nei fatti si pretende un’accettazione incondizionata di quanto proponiamo, giusto o sbagliato che sia per quella specifica persona.

Si tratta della profonda negazione della presenza dell’altro, in quanto essere pensante con uguali diritti e doveri, ma anche negazione di noi stessi, dei nostri errori, della nostra fragilità e del nostro bisogno di crescere, confrontandoci con gli altri.

A questo proposito potremmo ricordare l’interessante film “La macchia umana”. L’inizio si presenta col la scena di un incidente stradale capitato al protagonista, ormai in età avanzata, e alla giovane donna dalla vita travagliata, con cui intrattiene una relazione amorosa. La sua storia viene raccontata da uno scrittore amico di lei.  Narra il suo enorme impegno e dedizione all’insegnamento, praticato tutta la vita. Proprio quest’investimento, ad un certo punto lo porta alla più grande delusione mai provata, ad un dolore ed una rabbia mai estinta, neanche dopo tanti anni. Quello stesso dolore che ha fatto morire la moglie, che non è riuscita ad accettare la situazione.

Il protagonista, impersonato da Antony Hopkins, è stato uno stimato docente di letteratura al New England College, che in una delle sue tante lezioni, adirato per l’assenza di un alunno di colore, inveisce contro con “quello zulù”. Da qui scatta il caso, polemiche, denuncie, fino ad arrivare al tribunale scolastico, dove il corpo decenti capeggiato dal preside della scuola, lo condanna inesorabilmente per un atteggiamento razzista nei confronti dell’allievo e quindi lo caccia dalla scuola.

Andando indietro nella sua storia, emerge che quest’intellettuale ebreo, in realtà è un negro che ha interrotto da anni la relazione con la sua famiglia. Pur essendo di pelle bianca, diversamente dal resto della famiglia, è negro e fin da giovanissimo ha lottato per cancellare questa macchia dalla sua pelle, le sue origini tanto deplorevoli, di cui ha dissolto le tracce, efficacemente anche alla moglie.

Fino alla fine, l’insegnane deplora la propria presunta innocenza antisemita, ma alla fine è il più colpevole dei colpevoli. La sua macchia arriva dall’aver voluto cancellare dalla propria vita ciò che era, la propria famiglia, le radici, volendosi trasformare in qualcosa di totalmente diverso: un intellettuale ebreo. Guarda caso sceglie di fare la vittima della violenza altrui, ma non nei panni di nero, i suoi veri panni, ma in quelli di una minoranza maggiormente riconosciuta, accettata e considerata “superiore”. Non vuole più essere fra gli ultimi, fra gli inferiori, gli zulù!

Proprio questo misconoscimento di sé gli impedisce di riconoscere il suo razzismo ed il suo errore nel chiamare zulù, l’allievo. Per quanto cerchi di difendersi, di giustificarsi, andando all’origine etimologica del termine, con quest’affermazione esprime proprio ciò che pensa dello studente, esattamente ciò che pensa della propria famiglia e quindi di sé: i neri sono zulù, ignoranti. Dato questa profonda convinzione, per elevarsi ha dovuto rinnegare tutto questo, costruendosi un’identità totalmente diversa.

Ha sofferto molti anni della sua vita, pensando di aver subito una grande ingiustizia dal comitato scolastico, ha dedicato tanto impegno e amore all’insegnamento, da non aspettarsi di essere ricompensato così. Non si è reso conto che ciò che è successo è stato solo frutto del proprio operato. Probabilmente se avesse riconosciuto sé, la propria origine, il proprio errore, avrebbe impiegato tutta quell’energia per cambiare piuttosto che per macerarsi nella frustrazione e nel dolore.

Questa storia ci mostra anche palesemente che se non ci sono i presupposti, le fondamenta, tanto sforzo modifica solo la superficie della persona, non nella profondità. Il docente, per quanto si fosse sforzato di diventare un’intellettuale, non poteva realmente vivere l’identità d’intellettuale ebreo, perché sotto c’era una voragine incolmata. Ha realizzato questa meta non per ottenere un obiettivo costruttivo, ma solo come mezzo di fuga, non aveva il sapere profondo della condizione che gli avrebbe permesso di utilizzare quanto realmente raggiunto. E la vita l’ha riportato esattamente là, dove era fuggito e lo ha messo di fronte ad un grande bivio, o continuare a negare la propria negazione originaria, il proprio razzismo di fondo, il rifiuto di sé stesso o riconoscere il proprio errore e chiedere scusa allo studente, che comportava chiedere scusa alla propria famiglia, alla propria origine ma anche a sé stesso e riprendere in mano la propria esistenza da dove era stata interrotta, a favore di panni non propri.

Il docente ha scelto la prima alternativa, quella apparentemente più facile e indolore, che però ha comportato la perdita di quanto faticosamente raggiunto dopo tanto lavoro. Ciò ha condotto anche alla morte della moglie, che non ha compreso né accettato quanto capitato e alla sua dannazione, fatta di rabbia, rancore, incomprensione, di scivolamento di agiti incongruenti con la vita condotta fino ad allora.

Vediamo quindi che un semplice gesto mancato, il rifiuto di pronunciare una parola “scusa” con il seguito o il prodromo “mi dispiace”, rappresenti molto più di quanto mostri in apparenza. Non sono le motivazioni esplicite che fanno la differenza, ma quelle implicite e inconsapevoli, che conducono al rifiuto e alla negazione della propria responsabilità, posizione, emozione, condivisione, ecc.

Del resto, ogni azione e mancata azione possiede un’importanza relativa, rispetto a quanto si muove sotto, alle ragione di quel fare, alle emozioni, alle pulsioni, ai desideri sottostanti, che esplicitano molto di più di quella persona e della sua storia.

E’ importante fermarci a riflettere su noi e sul nostro comportamento, come fonte di conoscenza e sui fili del nostro mondo interno, che governano tutta la nostra esistenza. Ciò ci permetterà di vedere più chiaro su ciò che siamo e su come lo esplichiamo, disvelandoci a noi stessi, mostrando che non siamo così difficili e incomprensibili, ma solo mossi da motivazioni plurime.

“Scusi, ho sbagliato, mi dispiace” dunque, ci permetterà di incontrare noi stessi e gli altri. Parimenti la parola “Grazie” ha lo stesso peso e lo stesso andamento.

Non c’è nulla da vergognarci nel dire Grazie, non c’è debolezza né sudditanza, ma semplicemente abbondanza e riconoscimento all’altro per la sua presenza e per la relazione.

Ritengo di estrema importanza fermarci a riflettere sulle nostre piccole grandi cose di tutti i giorni, sulle parole, sugli sguardi, sulle carezze, sugli atti e su ciò che gli altri ci rimandano facendoci da specchio.

In fin dei conti è bello pensare di essere ancora così giovani (di qualunque età siamo) e flessibili da poter sempre leggere noi stessi, in visione di un cambiamento e di un miglioramento del nostro stare.

 

 

FILMOGRAFIA

Robert Benton “La macchia umana”. Attori protagonisti: Antony Hopkins, Nicole Kidman, Ed Harris, Gary Sinise. Gen. Drammatico, 2003 Usa.

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8 febbraio 2012 3 08 /02 /febbraio /2012 11:42

CAPITOLO VIII

 

Abbandoni

 

 

Si fa tanto clamore su certe sorti terribilmente avverse, su eventi che sembrano incredibili, azioni deprecabili che diventano inesorabilmente e tristemente notizie di cronaca, come nel caso di genitori che dimenticano in auto i propri figli sotto il sole.

Non ci si può proprio credere! Ma come? Ma com’è possibile? Come si può mai, un’atrocità del genere? Come può un genitore, arrivare a tanto?

Qualcuno, ha detto che non sono certo i primi né gli ultimi bambini lasciati sotto il sole: ha proprio ragione! Quante ne sono successe.

Tu piccolo lo sai, lo sai bene che è vero. Ti è capitato di essere lasciato in auto, com’è successo a tanti altri bambini, magari per ore, magari in compagnia dei fratelli e delle sorelle, così che non si sentissero troppo soli.

Tutto questo accade unicamente perché in certi posti, i bambini non possono entrare, in certi posti è bene che non entrino, come in ospedale per esempio, si spaventerebbero troppo, rimarrebbero shoccati e questo non deve proprio avvenire. In certi luoghi i bambini si annoiano, come negli uffici, alla posta, in banca. Allora è meglio che stiano ad aspettare in auto, tutti insieme, chiusi dentro, così sono al sicuro, in fin dei conti è una salvaguardia della loro salute. Poi così, il genitore fa prima, più agilmente, più tranquillamente, capisce tutto ed è più facile per ciascuno. Certe cose, d’altra parte devono essere compiute, non si può fare altrimenti. E’ la vita.

A te quel giorno, è toccato di aspettare da solo in auto, pur avendo molti fratelli e sorelle, in quell’occasione eri da solo ed eri molto piccolo, non andavi ancora a scuola.

Non ricordi neanche se il papà ti ha detto cosa andava a fare, dove andava e quanto ci metteva, ti sei girato, rigirato e ti sei visto solo, in quell’auto, ti giravi, guardavi, osservavi ogni angolo, ma di lui neanche l’ombra. Hai tentato di fare l’uomo, almeno l’ometto, come ti dicevano i tuoi. Hai provato a fare il duro, ad aspettare impassibile ed in silenzio.

Tuo padre ci tiene tanto che tu mostri le palle, esattamente come lui, proprio come lui, suo padre prima di lui, i suoi fratelli e i tuoi fratelli più grandi. Questa è una famiglia di uomini con le palle, non te lo dimenticare. Insomma, non avevi molta scelta, dovevi mostrarti degno di appartenere a questa famiglia di tori, di essere veramente forte e di saper far fronte alle situazioni, ma, ma, ma nonostante questo, nella tua testa tutto si era annebbiato, non vedevi nessuno punto e basta, non c’erano palle in giro e in quel momento, le tue non sapevi neanche dove fossero.

Ti sei sforzato fino al midollo, contraendoti invisibilmente nel tuo corpo, ogni muscolo rattrappito si stringeva in sé, tutto per resistere, per non sbottare, per non sentire, per non pensare ………… tutto quello sforzo non è servito, non ce l’hai fatta, la pressione era troppa, proprio come una pentola a pressione sei esploso in un pianto dirompente, non c’erano argini né confini, sei proprio esploso. Le lacrime e le urla uscivano senza ritegno, senza misura, senza palle. Era solo una grande esplosione incontenibile. Non c’erano alternative, non c’erano ragionamenti possibili, né rassicurazioni, non c’erano palle, no, non c’erano! E dov’erano mai? E cos’erano mai?

In mezzo a quelle lacrime tristi, angosciosanti, clamorose, qualcuno ti ha sentito e si è avvicinato, una signora preoccupata, poi un’altra e forse un’altra ancora, quelle urla strazianti non potevano esser ignorate. Erano lì intorno a te, per capire cosa ti fosse successo, ti hanno preso e ti hanno fatto uscire dall’auto, era anche aperta dunque. Erano lì intorno a te, cercavano di tranquillizzarti, consolarti, ti chiedevano cosa fosse capitato, dove fosse tuo padre e tua madre, ma tu di fronte a tutto questo eri anche più smarrito. Chi erano quelle persone, non le conoscevi, non sapevi chi erano e cosa volevano da te. Che fare?

Le lacrime si erano bloccate, non perché tu fossi più tranquillo, ma perché a tutto quello spavento si era aggiunta un’incognita, l’incertezza, l’imbarazzo, forse quella situazione sarebbe diventata vergogna estrema, vergogna di te e di tutta la tua famiglia, se non fosse sopraggiunto tuo padre a toglierti dai guai. Sì, perché non avevi diritto a chiedere, a piangere, a pretendere, ad urlare. Come dovevi comportarti allora, di fronte a quelle persone che ti facevano intravedere qualcosa che suonava come un imbroglio, una dura prova, un test, che non eri pronto ad affrontare e che non avresti mai superato?

Arrivato il papà tutto si è risolto. Finito il dilemma e iniziato un nuovo sconquasso. Sì, quel padre così tanto duro ed esigente, impermeabile a qualunque emozione, quell’uomo con le palle si era premurato di mostrare preoccupazione e affettuosità verso il piccolo in lacrime. Il suo, piccolo in lacrime, per essere stato da lui, lasciato solo! Abbracci e parole dolci, dolci fino a diventare intollerabilmente caramellate, appiccicose e false. Tutta una scena, un teatrino schifosamente avvizzito, non vedevi l’ora che finisse!

E chissà, cosa sarebbe capitato dopo!

Stavolta non piangevi più davvero, non perché fossi rassicurato, ma eri congelato in ogni minima reazione. Che fare? Sicuramente, senza nessunissima ombra di dubbio, dovevi tenere la parte! Dovevi fingere di essere figlio di un padre attento e premuroso, che si sente amato e consolato dalla preoccupazione di un padre, che ti ha lasciato ingenuamente e quasi inavvertitamente per un brevissimo attimo in auto da solo.

Ma, cosa avresti dovuto veramente provare? Quale l’emozione giusta? Quale il comportamento appropriato? Quale la risposta?

Tu non lo sapevi, non l’avevi mai saputo, non potevi neanche chiedertelo, non ti era dato. Ecco, la soluzione era semplice, a portata di mano, fare l’uomo con le palle! In fin dei conti, te l’hanno sempre detto!

E allora eri lì, con quegli occhietti interroganti, con il corpo ancora contrito e costretto in una morsa di paura. Eri tutto un blocco, povero piccolo, senza espressioni di alcun che, almeno così eri al riparo, non potevi sbagliare. Eri inintelligibile, così non avrebbero potuto dirti niente, se non decifravano non potevano lamentarsi.

Hai imparato bene e l’hai fatto per tutta la vita, non mostrare mai un moto, una reazione, non lasciarti sfuggire nulla con quell’espressione da alieno bambino, presentandoti alla vita con un corpo unipezzo, senza articolazione né segmenti, con una faccia immobile, senza opinioni evidenti, senza tradimenti, né cedimenti, così che, se mai avessi provato una minima emozione nessuno se ne sarebbe certo accorto e tu non eri obbligato a capire cosa dover esprimere, come reagire, cosa volere, cosa si aspettavano gli altri, la giusta condotta.

E chissà se ha funzionato davvero, se ti ha salvato la vita o se ti ha condannato in trame invischianti e oscure. Chissà se tuo padre si è accorto che rifiutavi di avere le sue palle, chissà se si è mai accorto che un giorno adulto, hai scelto come tuoi compagni, uomini che le avevano loro, le palle! E poi …. tu non l’hai mai avute, quindi non poteva che essere così.

Ma i bambini non vengono lasciati soli soltanto in auto, anche in casa o al cinema. Tu lo sai bene, vero pulcino, occhi di laghetto?

Ho ancora i brividi ripensando al tuo racconto, costantemente misurato e commentato dall’espressione attonita di quegli occhi di laghetto, che non traboccavano mai.

Quel ricordo era ritornato quando ormai eri grande, quando ormai non te l’aspettavi più, quando ne subivi solo le conseguenze senza saperne l’origine. Da quel giorno, quel ricordo non ti ha più lasciato, stravolgendoti l’esistenza più di prima.

Eri al cinema con tuo fratello, da soli, lui tre e tu sei anni circa, non ricordi neanche a vedere cosa, non è più importante da quel giorno ormai, tutto è passato in secondo piano. Come spesso capita, non solo nei racconti o nelle raccomandazioni profuse dagli adulti, ma anche nella realtà vera, si sono spente le luci, buio in sala, inizia la proiezione e sotto l’inconsapevolezza o l’indifferenza dei presenti, vi ha avvicinato un uomo, garbato, con modi seduttivi. Come spesso capita, vi ha comprato caramelle, gelati, era a disposizione, è stato gentile veramente.

Tu sapevi, occhi di laghetto che non c’era da fidarsi, ma non sai perché, non sai come, non riuscivi a fare nulla, eri bloccato e non sei riuscito a dire neanche una parola. Da bravo pulcino biondo, educato, proprio come ti hanno insegnato, hai ringraziato per tutte quelle gentilezze rivolte a te e al tuo fratellino, non potevi essere scortese, così ti hanno insegnato.

Non sai perché, non sai per come, ma ricordi di esserti trovato nel bagno con quell’uomo così gentile, non sai perché, ma sai che tu l’hai fatto per lui, per il tuo fratellino, per proteggerlo, per paura che capitasse qualcosa a lui, a lui che era più piccolo e che te lo avevano caldamente affidato.

Assurdo no? Ma tu non avevi armi, non avevi strumenti per difenderti, per difenderlo, se non immolarti, farti avanti forse, chissà, non si sa come sono andate le cose, cosa mai sia successo. Tu non ricordi, occhi di laghetto.

Questo ti ha dilaniato per anni occhi di laghetto e continua a dilaniarti, tu non sai cos’è successo in quel bagno di quel cinema con quell’uomo gentile. Hai solo un flash, un’immagine fissa nella tua mente. Non lo sai, non lo ricordi e forse non lo saprai mai. Non lo sai perché non lo ricordi, non lo sai perché hai una paura angosciosa di saperlo, non sai cosa potresti scoprire, non sai cosa ti è successo, non sai cosa ti succederebbe se venissi a scoprirlo!

Cosa ne sarà di te? Cosa ne è stato di te? Che angoscia!

Ma non basta, per incrementare la vergogna, la colpa, all’uscita di quello spettacolo, il tuo papà è venuto a prendervi e tuo fratello subito ha rivelato la novità, un signore gentile vi ha offerto le caramelle e tante cose buone. Chi, chi è stato? Chi è? Cos’è successo? Chi, chi, chi!

Come un treno, tuo padre andava a diritto e ti tartassava di interrogazioni, occhi di laghetto. E tu, sì tu, eri vicino a quell’uomo, l’hai guardato, ti ha guardato, c’è stato uno sguardo d’intesa forse e hai taciuto. Hai taciuto! Hai taciuto! Non rispondevi, non lo sapevi.

Eri confuso, come sei stato confuso e stordito tutta la vita, occhi di laghetto! Hai fatto di tutto per dormire il resto della tua vita. Per non sentire, per non pensare, per non vedere, per non ricordare cosa sia veramente successo.

Non sai perché hai taciuto. Non lo sai perché. Quale patto hai rispettato? Che paura avevi? Chi non volevi tradire? Chi hai tradito?

Avevi paura che tuo padre lo aggredisse, gli andasse addosso e tu temevi tutto questo? Perché? Dannatamente perché? Forse perché ti sentivi responsabile, ti sentivi complice, ti sentivi sporco, di qualcosa che non sai neanche cosa sia!

Eri responsabile di aver dovuto proteggere tuo fratello e di non esserne stato in grado, se non immolandoti per risparmiarlo. Sì, perché ti avevano raccomandato lui, che era il più piccolo e dovevi proteggerlo, dando per scontato che tu saresti stato in grado di cavartela, eri grande del resto. Ma, in quest’implicito, in questo pesante fardello, passava il messaggio che le sue sorti erano più importanti delle tue e che lui era da proteggere. Tu, poco contava cosa ti poteva succedere. Temevi fortemente, che ti avessero dato anche dello stupido e dell’incapace! Che ti avessero accusato di non averlo protetto, come dovevi.

Non ti preoccupavi minimamente dei loro timore per te?  Perché? Perché tu non eri nella tua mente? Perché, nella tua mente non eri nella loro mente?

E cosa vuoi, tuo padre era grande e grosso, era bravo lui ad urlare “Chi è stato?” Lui avrebbe ammazzato tutti, tu invece eri piccolo e incapace! Lui sì che era bravo! Tu temevi proprio che in quel cinema sarebbe scoppiato un vero caos, ti prefiguravi urla, strattoni, botte e chissà cos’altro. Ti vedevi al centro di tutto questo e non ce la facevi proprio, non potevi tollerare lo sguardo inquisitore di tutta quella gente, le domande, i dubbi, i mormorii, la vergogna più totale.

I tuoi non hanno mai capito questo tuo dramma, non l’hanno mai capito e non lo capiranno forse. Tanti figli da tirare su, i pensieri per sfamare tutti e farvi crescere nei migliori dei modi. Ogni tanto vi permettevano anche il cinema, era per darvi anche questo, ma costava troppo e loro non potevano accompagnarvi. Ma tanto, tu ormai eri grande! Lo avevano già fatto anche i tuoi fratelli più grandi, anche tu saresti stato ben in grado di farlo, esattamente come loro lo avevano fatto prima di te! Non era difficile, vi accompagnavano e vi riprendevano.

Non era difficile! C’era solo da stare lì, a godersi lo spettacolo!

Chissà mai, se ti perdonerai, chissà se un giorno ce la farai occhi di laghetto! Chissà, se riuscirai mai a dare ad ognuno la sua colpa, ad essere arrabbiato con loro.

Chissà se un giorno quel piccolo pulcino biondo, che piange solo per procura, tornerà a pigolare allegramente di vita! Chissà, se occhi di laghetto tracimerà mai lacrime proprie, per lasciare spazio ad altro! Chissà ….chissà.

C’è stato poi un destino veramente terribile, che è spettato a te povera piccola! Avevi sei anni, ma forse di più, ma forse no. Ne avevi sei, in verità è così difficile accettare il fatto che tu ne avessi solo sei, una parte di me non ci crede e si vuol convincere che ne avevi di più, almeno due o tre in più.

Ricominciamo dall’inizio, avevi sei anni, solo sei anni e sovente ti lasciavano a casa ad accudire tuo fratello, che ne aveva circa tre. In una famiglia si deve collaborare, che diamine, la mamma doveva andare a fare tante commissioni, la spesa, la banca, la posta, la spesa e poi la banca, insomma capitava che per sbrigarsela alla meglio, vi lasciava a casa.

Del resto, poverina era sola, come doveva fare? Senza nessuno che ti aiuti, è veramente difficile con due bimbi piccoli! Veramente difficile!

Era una delle tante volte in cui eravate lì insieme da soli e tu, che avevi sei anni, ma eri pur sempre la grande, avevi l’incarico di vegliare su lui che era piccolo e indifeso. Tanto la mamma avrebbe fatto presto e poi ormai tu sapevi cosa si fa e cosa non si fa, cosa si tocca e cosa no, cosa fa arrabbiare la mamma e cosa no. Insomma, tutto semplice, si trattava solo di stare a casa a giocare, come se niente fosse, come se tutto andasse bene così! Come tante altre volte era già successo.

Avevate anche un piccolo giardinetto davanti casa, in estate era bello stare lì con il sole a strappare un po’ di erbacce ma anche qualche fiore, a far girare la trottola, a fare il bagno alle bambole e poi farle asciugare al sole. Lui, si divertiva con la palla, con il triciclo e stava lì, a volte un po’ dispettoso ti rubava le tue piccine, a volte litigava col gatto e il tempo passava. In effetti, ce la faceva a passare, a volte più sonnolosamente lento, altre più rapido e lesto. Così era.

Quel giorno, che sembrava come tanti altri, il tempo sembrava più pigro e lungo del solito, non so se era il caldo, la noia, la stanchezza o la mamma che ritardava più di sempre. Uff! E’ capitato che anche il gatto si annoiava e ha deciso così di fare qualche piccolo dispetto, con un balzo è saltato giù dall’albero, ha fatto i suoi bisogni davanti alla porta di casa ed scivolato rapidamente dentro. E tu piccolina,  preoccupata che combinasse qualche guaio, che poi sarebbe ricaduto sulla tua testa e sulla tua responsabilità, ti apprestasti come un fulmine dietro di lui, urlandogli di tornare indietro, che lo avresti ammazzato di botte e via alla ricerca affannosa di quel tuo micio così insolentemente imprevedibile e dispettoso.

E ….. mentre tu cercavi di evitare l’evitabile, non si sa perché, forse per noia, per stanchezza, per andare chissà dove, per fare un dispetto anche lui, per l’inaspettato momento di totale liberà, il piccino aprì quel cancellino, lesto lesto montò sul triciclo e s’intrufolò fuori, oltrepassò il cancello prendendo il via con la discesina e piombando come un missile nel centro della strada. Fu la fine, lì si è fermata la tua vita, la sua ed insieme la tua vita. Una vita che non ripartirà mai più fino alla morte.

Quel tuo fratello, che aveva solo tre anni, si trovò davanti una macchina, che vide solo per un brevissimo istante, ma sentì fortemente sul proprio essere in un impatto che lo spazzò via per sempre. Per sempre!

Chissà cos’ha provato in quel momento. Cosa ha sentito in quell’istante eterno. Non ci fu replica per lui, non ci fu salvezza. Non ci fu replica per te, non ci fu salvezza.

Vostra madre, ti accusò violentemente di averlo fatto morire, di non averlo guardato, di odiarlo così tanto da aver fatto in modo che lui sparisse. Quelle parole, ripetute in ogni buona occasione, nel tempo lasciarono spazio ad un silenzio eloquente e pesante, che odorava di minacce e rancore. E gli anni della crescita sono diventati interminabili, tutti uguali, indifferenziati. Tutto è morto dentro di te.

E’ così che sei andata avanti, con un fardello che ti ha schiacciata giorno dopo giorno, inesorabilmente e ineluttabilmente. Ed è così che sei diventata grande, fuggendo dalla realtà, da questa orrenda realtà, ora con i sogni, ora con fantasie deliranti, ora con farmaci, ora con droghe. Qualunque cosa pur di non pensare, pur di non ricordare chi non c’è più. Pur di non ricordare di essere la responsabile di quell’assenza. Pur di non doversi chiedere quanto detestassi realmente quel fratellino morto, quanto desiderassi veramente la sua fine. Pur di non sentire un odio furibondo, verso chi ti aveva dato la vita e te l’aveva tolta, quasi fosse il padrone di tutto!

Forse tu, cara piccola, vittima innocente, non ne uscirai più! La via della realtà sarebbe solo una via di solitudine e di delitto, o te o lei, qualcuno deve perire.

Il piccolo non c’entrava, non era lui che odiavi, non era lui che doveva perdere qualcosa, non era lui a dover pagare! Ma nessuno ti ha mai dato il diritto di pensarlo, di sentirlo, di urlarlo al mondo, di urlarlo stramaledettamente a quella tua madre di gomma! A quella madre che ha lanciato il sasso e poi ha ritirato la mano.

Che dio la maledica!

Tu eri responsabile di quella fine, tu e la tua colpa, appesantita giorno dopo giorno, potevate solo tacere ed espiare, espiare per quel dolore, per quella perdita inflitta a quei poveri cari genitori. Che sorte è toccata loro!

E della tua nessuno si occupa, della tua vita nessuno s’interessa. Non capiscono che loro, per propria mano, hanno perso due figli in un colpo solo! Loro poveri, cari genitori.

Che Dio li maledica!

Un abbandono insensato e clamoroso, è toccato a te piccolo fantasma della vita. Avevi vissuto una vita dimenticata, fra casa di tua madre, affidamenti vari, istituti. Una vita difficile e dimenticata da tutto e da tutti, almeno fino a che qualcuno non ha cercato di sbattertela davanti per restituirtela, fino a che non si è cercato vanamente di tessere un filo che la mettesse insieme.

Non hai mai saputo cosa veramente apparteneva alla tua esistenza, al tuo passato e cosa era pura invenzione e delirio, quello che tua madre ti aveva raccontato era che tu appartenevi ad una famiglia mafiosa del sud, che tuo padre era venuto al nord molti anni or sono per portare avanti un progetto di vita onesto. Era un poliziotto bravo e rispettabile, ma un giorno, proprio il giorno della tua nascita, lui è morto per un colpo di arma da fuoco, un colpo inferto durante una sparatoria nel corso di una rapina.

Tu sei nato e lui è morto. Tu non l’hai mai potuto conoscere, tu sei cresciuto senza di lui, senza la sua forza, il suo sostegno, la sua onestà, il suo appoggio, il suo denaro, sei cresciuto senza la sua verità. Tu hai dovuto capirci qualcosa, senza capirci qualcosa. Tua madre quando era ubriaca, sempre che non fosse rincasata con qualcuno, ti riempiva di racconti e di dettagli. Ma spesso questi racconti non tornavano con quelli della sera prima. E tu raccoglievi solo ciò che potevi comprendere, ciò che potevi accettare, quei dettagli che ti facevano sognare e immaginare di avere anche tu una storia, una famiglia, qualcosa di buono e meno buono da raccontare.

Ma lei era bella, era tua madre, con quei capelli neri lunghissimi, con quello sguardo lucente, ti amava, si occupava di te. Quando usciva di casa per ore, si preoccupava di lasciarti apparecchiato e la cena sui fornelli, almeno per un po’ d’anni. E’ vero, non era molto presente, ma tu eri libero di fare come meglio credevi, avevi tante cose intorno a te, per dire il vero non ricordi bene quali, ma sai che avevi tante cose, così ti ha raccontato e rimproverato.

Poi degli istituti, delle famiglie affidatarie tu non sai nulla, non ricordi proprio nulla. Qualcuno ti ha chiesto di questo quando eri grande, ma non hai ricordo. Tu rammenti solo di essere stato per un po’ a casa di parenti, tua madre era malata e non poteva occuparsi di te, quindi loro erano stati così gentili da ospitarti, ma tu eri stato un po’ birichino e loro non erano stati molto contenti, forse sei anche fuggito e così ti hanno rimandato al mittente.

Ma tu, non potevi che esserne contento, era con lei che volevi stare, con la tua mamma, con quella bellissima e amata mamma. La tua unica mamma.

Sopra ogni cosa in questa tua grande libertà, ricordi quelle tue girate in bicicletta, interminabili e spensierate, nelle pinete d’inverno ma soprattutto d’estate col sole. Andavi con passione, volavi via come un uccellino senza posa, il mondo era nelle tue mani, semplicemente nelle tue mani e si dispiegava con un solo battito d’ali. E in quelle pinete di mare hai conosciuto molte cose, hai imparato ad andare, hai conosciuto amicizie interessate, hai imparato a vendere il tuo corpo per raggranellare qualche soldino, hai sperimentato la marijuana e qualcosa di più, per stordirti ed essere più felice.

Mio piccino, tu fantasma della bicicletta e della vita, andavi, giravi, non t’importava di nulla, riuscivi a dimenticare tutti i dispiaceri, le frustrazioni, le mancanze, non le mettevi neanche in conto, per te non esistevano. Non avevi metri di paragone, non sapevi come avrebbe dovuto essere davvero.

Non sapevi cos’era una vera mamma.

Poi un giorno, quando ormai la legge diceva che eri grande e adulto, tua madre ha cominciato a lamentarsi di te, sempre di più, sempre di più, ha chiamato i servizi per denunciare il tuo uso di sostanze.

Lei era disperata, non sapeva proprio più come prenderti e per una donna sola che lavora dalla mattina alla sera, più che altro la sera, è veramente dura, dura, non sapeva più che pesci prendere.

Di lì a poco ti ha allontanato, ti ha cacciato di casa, accusandoti di non essere un bravo figlio, di non comportarti bene, non poteva più reggere quel peso, non sapeva che fare. Dovevi cambiare, dovevi impegnarti, non c’erano vie d’uscita.

Così i servizi hanno dovuto occuparsi di te e ti hanno trovato una nuova casa, una struttura che si sarebbe fatta carico di te e della tua supposta dipendenza da sostanze. E tu hai vissuto lì, per un bel po’ di tempo, faticando ad adattarti ad un posto isolato, lontano dalle pinete, a nuove regole, a regole, ad impegni, alla presenza di autorità e di coetanei. Una gran fatica, un gran dolore.

Ma il dolore più immenso era quello di pensare a questa madre che non ti voleva, ti aveva cacciato, ti rifiutava. Tu piccino, avevi già provato e riprovato a suonarle ancora alla porta, a cercarla, a chiamarla, ma nulla, lei ti aveva risposto che finché non cambiavi non ti avrebbe più ripreso. Dopo un po’ non rispondeva neanche più, riattaccava il telefono in faccia, non apriva la porta, spiava silenziosamente dalla finestra e niente altro.

Là eri relegato, non avevi libertà, non avevi foto con te, neanche ricordi, né una visita, una telefonata, nessuno che si ricordasse di te a Natale o a Pasqua. Quelli erano momenti veramente tristi, i più tristi, dove verificavi il tuo effettivo e più totale abbandono. Eri solo e in quei giorni andavi in letargo, ti negavi totalmente.

Questo era il tuo più grande dolore. Ma tu ti difendevi vivendo obnubilato da te stesso e dal mondo, dormendo all’infinito, fuggendo ogni possibile contatto, ogni impegno, ogni attività. Dormivi e ti annebbiavi di farmaci per la depressione, per l’ansia, per le allucinazioni, per dormire, per stare sveglio ….. dormivi e t’imbottivi. Tutto per non vivere, per trapassare in questa vita come un fantasma a tutti gli effetti.

Poi l’incontro con una persona e con te stesso ti aveva risvegliato alla vita, ti faceva essere di più, partecipare, pensare. E lì cominciavano i guai. Tornava a galla tutta la forza del dolore e della rabbia, l’incomprensione e l’inaccettabilità di quella madre che ti aveva freddamente messo alla porta. Tornavano alcuni ricordi, i pensieri, il senso di colpa per la morte di tuo padre, avvenuta proprio il giorno della tua nascita, la vergogna di una madre che viveva prostituendosi.

Ma tu piccolo caro, la amavi lo stesso, la volevi lo stesso e avevi ricominciato a scriverle. Tutti i giorni scrivevi una lettera per lei, in cui le decantavi la sua bellezza, l’amore e l’importanza che aveva per te, per la tua vita, la lusingavi, l’adoravi senza mezze misure. Lettere che spedivi, spedivi e immancabilmente non aveva risposta alcuna, non c’era deroga. Quella donna non voleva saperne, non voleva e non poteva riprenderti.

Hai quindi smesso di spedirle e poi ha smesso di scriverle.

Il tuo desiderio di droga è ritornato forte e imperterrito, giusto per ritrovare un vecchio torpore, un antico sapore che acquietava la tua smania non si sa bene di cosa.

E un bel giorno poi, anche quel luogo ha deciso che non poteva più prendersi cura di te ed è arrivata una nuova casa, una nuova sistemazione, con un lavoro, impegni da adulto, una nuova bicicletta. All’inizio, per gestire il passaggio, il rinnovato abbandono, raccontavi inorgoglito il tuo nuovo destino, il passaggio importante, i meriti, gli impegni, il ritorno alla pineta, ma poi in breve tempo la tua vita è crollata, caduta ancora più in basso, con eventi che si sono succeduti giorno dopo giorno, fino a portarti non si sa come e perché, in meandri sconosciuti e distruttivi, fino a condurti nel posto più buio e solo che tu potessi scoprire: il carcere.

Anche lì, con la tua tenerezza, la semplicità, la disperazione, hai saputo trovare delle mamme che si prendessero cura di te, ma niente bastava, niente era sufficiente per tornare indietro, per farti recuperare ciò che avevi perso, per darti ciò che non avevi mai avuto. Eri pieno di tatuaggi, di delusioni, amarezze, abbandoni, la luce dei tuoi occhi s’era affievolita, opacizzata ed il tuo corpo s’era ammalato, tremava all’impazzata, si sbatteva da ogni parte, perdevi coscienza delle cose e tu varie volte avevi cercato di mettere fine alla tua vita, senza riuscirci. Sono stati momenti duri, bui, sempre più bui, senza via d’uscita, senza posa.

Hai ricominciato a scrivere lettere, scrivevi ad una seconda mamma, scrivevi e scrivevi, questa volta avevi risposta, ma niente era sufficiente a ridarti ciò che la vita non aveva voluto generosamente donarti. Questa volta sei tu ad aver smesso di scrivere, hai diradato fino ad interrompere senza proferir ragione.

Non si sa che ne sia stato di te, abbiamo perso le tue tracce, sei sparito come un fantasma, non si sa se nel regno dei vivi o quello dei morti!

Chissà quale mamma e quale casa ti ha accolto, chissà se in terra o in cielo.

Poi c’eri tu, che in fin dei conti non ti mancava proprio nulla, un padre, una madre, un fratello, dei nonni, i parenti di rito, la casa e tutto quanto. C’erano le vacanze stagionali, la domenica al mare, c’erano stimoli intellettuali in famiglia e quant’altro potesse servirti. Veramente, non c’era di che lamentarsi!

Non navigavate nell’oro, ma stavate bene, la mamma insegnante, il babbo un professionista, non si sa bene in cosa, ma un professionista, lui in effetti si occupava di varie cose. Insomma, tutto andava come dovrebbe andare per un bambino. Veramente, non c’era di che lamentarsi.

Peccato che un giorno tuo padre è sparito, scomparso improvvisamente, senza dire una parola. Per molto tempo è scomparso e nessuno ha mai saputo cosa fosse successo, dove fosse andato. Almeno, questo è quello che sai tu!

Sai solo che è sparito e si è portato con sé tutti i soldi, i risparmi della famiglia, ma non solo, con la sua assenza sono venuti alla luce gli imbrogli, le truffe, i falsi appellativi che si attribuiva, si spacciava per ingegnere. E con tutto ciò, sono arrivati i debiti, sì vi siete trovati la casa ipotecata, l’inizio di un lungo tunnel scuro.

Il nonno, una persona rispettabilissima, ha messo tutto il suo impegno per tappare le falle, ma non è stato sufficiente e così avete rischiato di ritrovarvi al freddo e senza un tetto.

Da grande poi, saresti stato proprio tu a riscattare la casa di famiglia. Quanta strada hai dovuto fare! Quanto impegno! Quanti bocconi amari.

La cosa più folle però, non è stato l’aver perso tutti quei soldi non si sa in cosa, ma il fatto che lui ti avesse abbandonato, che ti avesse lasciato solo con quella madre. Sì con lei.

Ma cosa ti faceva? Ti picchiava? Ti torturava? Ti faceva mancare qualcosa?

No, in effetti no, proprio no, niente di tutto questo. C’era quello che serviva e tutto il resto, eppure quella donna ti aveva travolto la vita, molto più di quel padre che se n’era andato e forse se n’era andato proprio per salvare se stesso, da quella donna. Ma non aveva salvato te, non ti aveva donato un’altra via d’uscita, una speranza. Tuo padre ti aveva mostrato l’esistenza di due uniche possibilità: la prigionia o la fuga, o si soccombe o si scappa.

Lui era fuggito e aveva lasciato te prigioniero di quella piovra dall’aspetto bonario.

Tu non sai bene descrivere cosa ti abbia fatto tua madre, è indescrivibile, impalpabile, indecifrabile, eppure tu lo vivevi sulla tua pelle, ne sentivi le conseguenze, una condizione permanente di assenza. Assenza di emotività, di affetto, di comprensione, di libertà, di democraticità, di schiettezza e per completare il quadro, una valanga di ansietà sopperiva alle innumerevole mancanze. Tu hai vissuto deprivato, in un mondo dorato, in un vuoto mai definibile né colmabile. Ti sentivi come una viola mammola, senza consistenza, senza valore, una sorta di nullità, di essere senza spina dorsale. La viola mammola non è un simbolo di gran virilità, anzi e forse proprio questo, lei voleva da te: un mezzo uomo, un altro uomo da controllare, manovrare, comandare.

Apparentemente la tua vita era migliore di altre, ma in realtà era caratterizzata dalla costante privazione, dal ricatto, dal baratto, dalla fatica, dalla noia più assoluta. La gabbia più grande era proprio la ripetizione, la noia, l’impossibilità di cambiamento. Sembrava che quella via non ci fosse, non fosse possibile per te e tutto era stato duro, la routine quotidiana, la domenica con la solita girata di rito, gli esami universitari, la strada giornaliera per andare a scuola e via dicendo.

Poi c’erano tutti quei sottili ricatti che ti propinava quotidianamente. Ricordi che per avere la vespa come tutti gli altri ragazzi, hai dovuto accettare di farti fare la permanente. Ma si può vedere una cosa del genere?

In quegli anni, non era neanche usuale per gli uomini. Che voleva da te? Perché ti ha chiesto questo? Perché l’ha preteso? Voleva una figlia femmina, al posto di un maschio? O semplicemente voleva un bambolotto bello, tondo e con i riccioli d’oro? Un ciccio bello!

E tu, pur di avere una minima parvenza di normalità, di parità con gli altri, hai dovuto venderti, barattare la tua dignità, la tua mascolinità. Non c’era scampo, non c’erano vie d’uscita. Di questi piccoli grandi episodi se ne potrebbe raccontare tanti, vero piccolo? Ma non servirebbe a spiegare oltre. Non c’è niente di spiegabile.

Lei ti voleva come diceva lei, come ne aveva bisogno, ti doveva avere sempre accanto, come lei desiderava, senza neanche una virgola fuori posto. Non a caso tuo padre è scappato da questa morsa!

Un’altra bella favola che ti raccontava fin da piccolo, era che per te non bastava una ragazza, ci voleva assolutamente una principessa! Che bel destino. Guarda caso eri designato a rimanere solo, perché nessuna avrebbe mai potuto essere una vera principessa, nessuna sarebbe mai stata degna di te, all’altezza di tutto il tuo splendore, riccioli d’oro.

E tuo fratello è cresciuto alle tue spalle, dietro la tua ombra, non si sa se è stato un bene o un male, questo proprio non si sa. Non si sa chi dei due ha perso di più, chi ha più dimenticato se stesso.

Sì perché sei cresciuto senza sapere chi eri, ti sforzavi, facevi molte cose, sperimentavi, cercavi a tutti costi di fare cambiamenti, di improvvisare, per sentire, per cogliere il pur minimo sussulto della tua anima, per capire da che parte eri nascosto, ma non ci riuscivi, ormai avevi smarrito la strada, lei  te ne aveva fatto perdere le tracce, avevi perso anche la tua ombra.

E da grande, quando ormai tuo padre era tornato da tempo, tu l’hai anche reintegrato, l’hai redento come si fa con i carcerati, gli hai fornito un lavoro. Avevi così tanto bisogno di lui, così tanto bisogno di te, di un’altra possibilità che l’hai ripreso con te, l’hai perdonato, forse. Hai cercato di sottrarlo alle dicerie, alla vergogna, al nascondimento, alle grinfie totali di tua madre. Lui non l’ha fatto con te, ma forse tu potevi farlo con lui e anche con te stesso.

Sì perché tu c’hai messo tanto a ritrovare te stesso, hai girato, vagato, farfugliato, imbrogliato, hai stravolto la tua immagine, le tue abitudini, hai comprato auto, ne hai cambiate tante, hai cercato l’amore, l’amicizia, hai cercato di farti una famiglia, di trovare una donna che fosse una principessa, hai scavato nel fondo di te stesso, sempre più nel fondo, fino a chiederti quasi ossessivamente cosa ci fosse di sbagliato in te, cosa non andesse bene, cosa doveva ancora essere modificato, limato, trasformato, plasmato, ribaltato. Continuavi a chiedertelo e a cercare risposte, a darti da fare in ogni dove, fino a che un giorno qualcuno ti ha detto che dovevi fermarti lì, dovevi imparare ad accettarti e amarti per ciò che sei, né più né meno, per ciò che sei, non per ciò che gli altri vogliono da te! Dovevi amarti riccioli d’oro, senza condizioni!

Tu non l’hai capita, non potevi capirlo, non c’eri abituato. Non eri abituato a ricevere senza per forza dover essere altro, senza fare altro,senza fare fatica. E forse, ti sei sentito rifiutato, abbandonato, ma non era così.

Non lo potevi capire. Almeno non subito, ma forse un giorno ……. Chissà se poi alla fine, sei arrivato in quel porto sicuro!

E tu piccola dai capelli color del grano, non avevi avuto certo una sorte migliore. Vivevi in una famiglia di altri tempi, con un suo rigore, una grande rispettabilità, un’educazione e un saper fare fuori dagli schemi.

Non a caso la tua famiglia possedeva il cinema del paese da generazioni, per cui conoscevi una realtà preclusa a tanti, un benessere precluso ai più.

Era una famiglia un po’ speciale. Forse per questo che non tutti provavano totale simpatia per voi, diciamo pure che forse c’era una sorta d’invidia nei vostri confronti, di pretesa sotterranea mai detta, un conto aperto. Un ramo della vostra parentela in particolare, che non era del tutto benestante, emanava questo sottile livore, ben celato ma pur sempre presente, questa indegna attesa che la vita pareggiasse le sorti.

Un personaggio spiccava fra questi, un cugino di secondo o terzo grado, che aveva libero accesso alla vostra casa e al cinema, era un bel po’ più grande di te, una quindicina d’anni o più. Tu l’avevi sempre visto fin da piccolissima, provavi un misto di attrazione, curiosità, interesse e anche un po’ di diffidenza, a cui non sapevi dare un significato. Era un polo attrattivo per te e la tua famiglia lo lasciava interagire liberamente con te e tua sorella, entrava e usciva senza difficoltà da quella casa.

Un giorno come tanti altri lui era lì che gironzolava, tu eri poco più che una bambina, avevi un delizioso vestitino color petalo di rosa, ornato con farfalline e cuori, ti ha chiamato furtivamente e con un’occhiata d’intesa segreta ti ha fatto cenno di seguirlo. Tu piccola dai capelli color del grano, eri stupita, sconcertata, ma oltremodo eccitata da quel possibile segreto, dalla sorpresa che ti attendeva, da questo gioco a cui lui alludeva misteriosamente, a cui ti invitava.

Così, ti ha condotta in una stanzina ormai in disuso, una di quelle stanze accanto al palco, che servivano per dare la voce allo spettacolo, al film quando ancora era muto. Era una piccola stanza, lontana da quelle più frequentate e abitate, quasi dimenticata. Tu fiduciosa l’hai seguito e lì all’ombra della polvere e dello stantio, senza remore, senza chiederti il permesso, senza darti spiegazioni, quel giovane uomo con la bava libidinosa alla bocca, ha insozzato per sempre il tuo bel vestitino d’infanzia color petalo di rosa, ti ha fatta sua per sempre, ti ha marchiata come sua proprietà esclusiva.

Adesso lui prendeva con diritto una cosa di quella famiglia, che tanto era generosa con lui, ma che lui invidiava e odiava mortalmente. E le tue farfalline non volarono più ed i cuoricini sanguinavano inesorabilmente spezzati.

In quella stanza, da quella stanza, nessuno dava voce a te, al tuo dolore.

Così, si consumava la sua vendetta. Una vendetta cieca e stolta, che non si rifaceva sul denaro o sulla proprietà, bensì su una persona, una bambina, ignara e inconsapevole ancora, delle cose dei grandi. Tu piccola dai capelli color del grano, hai pagato per tutti, hai pagato per la tua famiglia, per la loro abbondanza, per la loro generosità, per la loro inconsapevolezza, per la loro mancanza di possesso che diventava stupidamente mancanza di confini e di protezione, delle persone più fragili e care.

E tu hai pagato per questa logica indifferenziata della famiglia allargata, che non ha consapevolezza della misura e del merito, del diritto e del rispetto. Una famiglia che, ingiustamente pone tutti sullo stesso piano, distribuisce averi e saperi, senza tener conto del merito, del forte e del fragile, senza sapersi prendere cura dei più piccoli, senza occuparsi, ma delegando semplicemente.

E tu piccola dai capelli color del grano, hai vissuto tutto questo con stupore, incredulità, dolore, con scoperta, una scoperta incommensurabile, impensabile, devastante. L’hai vissuto e hai taciuto, esattamente come ti ha detto lui, come ha bisbigliato sobillosamente nelle tue orecchie dopo essersi impossessato di te, in quella stanza buia.

Hai taciuto e non hai osato farti giustizia, non potevi, non rientrava in quei canoni. Non era contemplato.

E poi tu, farti giustizia? Di cosa? Di quale diritto?

Non c’erano individui, c’era l’entità famiglia, almeno finché faceva comodo così, quindi non c’erano diritti personali. Quando sei nata tuo nonno, questo grande uomo di questa grande famiglia, era lì che si apprestava ad accendere e consumare finalmente il sigaro della festa, al primo colpo era andata male, ma ora sicuramente non poteva andare ancora così, ora sarebbe finalmente arrivato il maschio tanto desiderato. Ma no, sei arrivata tu, una femmina a sciupare la festa ed il sigaro è rimasto ancora spento ed il povero nonno a bocca asciutta.

E tu guastafeste, cosa potevi pretendere? Niente certo.

Poi non si può dire che ti trattavano male, sempre curata, ben vestita, molto amata, ti hanno anche fatto studiare, tu sei stata una delle poche a fare l’università, come tua sorella del resto. In più avevi anche due mamme, tua sorella era sufficientemente grande da fare da seconda e lei era sempre ligia al dovere.

Che fortuna! Non si può volere niente di più.

Allora, quel gesto così inatteso, incomprensibile e violento non aveva ragione di essere accusato. Quella grande famiglia ti aveva dato e ora aveva preso, aveva preteso qualcosa da te!

Che c’era di strano? Ti avevano chiesto di risarcire un conto, una colpa, che tu non sapevi neanche esistesse, ma era in conto a tutto quel clan e tu ne facevi parte.

Certo, avevi fatto qualcosa che non si fa e tu temevi proprio questo, che ti accusassero che era stata colpa tua, che avevi fatto qualcosa di riprovevole, che non eri una brava ragazza. Ma tu che ne sapevi, che ne potevi sapere di certe cose?

Ma forse se lui ti aveva insultata carnalmente e moralmente, qualcosa l’avevi pur fatto, forse una qualche responsabilità ce l’avevi. Non dovevi seguirlo in quel posto, è possibile che non sai certe cose? Le donne, sanno sempre certe cose, le donne sanno come far fare le cose agli uomini! Loro lo sanno.

Tu lo sapevi, dunque era colpa tua. Sì d’accordo lui era più grande, ma era pur sempre uno di famiglia e poi le donne crescono molto in fretta, molto più in fretta di quanto si pensi. Stava a te, preservare la tua innocenza, la purezza, la tua dignità di donna.

Tu non hai detto nulla, per timore di essere accusata ma tu per prima ti accusavi, tu ti sei accusata silenziosamente per tutta la vita, annullandoti in ogni tua possibilità, in ogni diritto di libertà vera.

E crudeltà delle crudeltà, la scena si è ripetuta una seconda volta. Ancora una volta, un po’ di tempo dopo quell’uomo ti ha condotta in quella stessa stanza buia e dimenticata, ancora senza chiederti il permesso ha fatto ciò che desiderava fare senza ritegno.

Questo più che mai ti ha tappato la bocca, la seconda volta sanciva definitivamente la tua responsabilità, non c’erano alternative. Se per la seconda volta, gli hai permesso di fare di te quello che voleva, se non hai urlato, non hai strillato, non hai fiatato, se non hai mosso capello, allora vuol dire che segretamente è colpa tua, lo desideravi quanto lui. Tu lo desideravi, silenziosamente.

Così hai tenuto dentro di te, nascosto e quieto questo evento, questo sconquasso, la violenza che s’era impressa indelebilmente sul tuo corpo per sempre, per sempre.

A tuo marito hai raccontato a metà, solo a metà per molti anni, per timore che lui pensasse proprio questo, sospettasse che tu lo avevi voluto, indotto, istigato, che tu avessi osato perdere la tua verginità, fuori dai canoni consentiti, fuori da una promessa eterna.

Lui non l’ha pensato, ma tu sì. Senza neanche saperlo, senza potertelo dire, tu credi ancora dopo tanti anni dentro di te, in un piccolo angolo nascosto di te, di essere stata responsabile di quell’atto impuro, di quello scempio sul tuo corpo. Tu ti incolpi misteriosamente senza saperlo, senza pietà, senza darti secondi appelli.

Non sai di questa condanna, ma ne subisci le conseguenze da una vita. Per quanto ti sei lambicata, non hai mai capito, non hai mai voluto capire il perché di certe cose. Hai aperto solo l’anticamera della tua casa, tu sei sempre stata come un fortino ben difeso agli altri e prima ancora, a te stessa. Tu non hai mai aperto completamente la porta alla vita e alle mille possibilità.

Tu, sei rimasta sempre desolata e sola. Hai accettato e subito di tutto da tutti. Hai lavorato fino allo sfinimento per marito, figli, nipoti, per la tua famiglia, per la famiglia di tuo marito e hai ingoiato silenziosamente ogni tipo di rospo. Ed insieme ai rospi hai ingoiato una grande quantità di cibo, senza riuscire più a controllarti, senza riuscire ad avere comprensione e accettazione di te.

Ti sei dannata, accusata, denigrata per questa tua incapacità e per questo tuo aspetto non così fiero e asciutto, tipico della tua famiglia. Ancora guardi le foto di tua madre, bella, altera e magra, magrissima. Non capisci proprio perché, non capisci come tu non riesca a tornare come un tempo, magra e assottigliata come loro, come loro ti volevano.

Ma tu piccola dai capelli color del grano non sei come loro, non lo sei mai stata e ancor di più ne hai avuto certezza quel giorno, in cui grande e con famiglia, hai osato dire a loro, hai osato presentare un piccolo conticino di quanto avevi subito, di quanto non ti avessero vista, rispettata e tua sorella, che si era immolata per la famiglia, ha risposto per tutti: Tu ci hai pugnalato alle spalle.

Ti ha congelata, ti ha tolto ogni diritto di replica.

Indignata se n’è andata con loro, ha voltato le spalle e ha chiuso senza possibilità di replica, portando via tutto l’impegno e la dedizione rivolta alla vostra famiglia, che era rimasta la sua unica famiglia, rivolta anche alla tua famiglia, l’impegno come mamma dei tuoi figli, mai richiestole, l’impegno a dare indicazioni morali, consigli di vita, a fare da esempio.

Che dio ce ne scampi e liberi, piccola dai capelli color del grano! Tu non devi niente a nessuno, tu non hai debiti, tu non hai colpe, tu non sei una donnaccia, tu non hai sobillato nessuno.

Anzi, sei tu che hai un conto sospeso con la vita, che hai dei crediti attivi. Prenditi tutto ciò che ti spetta. Amati e rispettati, rivolgi a te, tutte le tue cure ed il tuo amore. Perdonati, per la tua fragilità. Prendi per mano quella piccola bambina dai capelli color del grano.

Perdonati per la fragilità della tua infanzia e della tua innocenza!

Poi c’eri tu, nata da altri tempi, piccola che beveva solo latte. Fino a sei anni, hai bevuto solo latte e solo dalle mani di tua madre. Avevi tante sorelle e fratelli, più di quanti ne riuscivi a vedere e a contare, piccola!

Era una famiglia molto attenta alla forma, all’educazione, alle maniere gentili, alla generosità, alla rispettabilità.

Che parola la rispettabilità! Purtroppo solo una parola! Per altro, una di quelle parole di cui ci si riempie la bocca, usata unicamente per farne un canone di vita, una regola ferrea, una linea guida.

Tua madre ci teneva molto e si sforzava che non si mancasse, che non si uscisse dai canoni, dalla rispettabilità, che non si mostrasse, che non si facesse parlare e sparlare, ma poi lei per prima a suo tempo era uscita dagli schemi, ma quella era un’altra storia, una di quelle che non si può conoscere, quelle sepolte nel dimenticatoio e nel silenzio.

Lei teneva ben nascosta la sua verità, la sua realtà e tu a tua volta, quando l’hai conosciuta l’hai portata segretamente con te, fino alla tomba, senza mai rivelarla a nessuno, guai! Ne sarebbe andato del buon nome, del rispetto di quella famiglia, di tua madre soprattutto.  Quella madre infaticabile, instancabile solo per voi. Lei faceva di tutto e tutto da sola, si toglieva anche il pane di bocca per voi. Tutto da sola, col sudore della fronte ed il lavoro delle sue uniche braccia, senza dire una parola, ma nutrendo segretamente un odio e un rancore crescente per quell’uomo, che è diventato suo marito solo molti anni dopo e ha seppellito molto presto.

Vostro padre tornava ogni tanto, per farsi vedere, ma poi ripartiva in men che non si dica, senza contribuire alla famiglia e ai figli, se non depredandola. Aveva sì un nome importante, una famiglia importante e possedimenti, ma voi non ne avete mai visti, non ne avete mai potuto godere di tutto questo sfarzo, presente solo nelle parole e nei racconti.

Non per niente lo chiamavate Babbo Natale!

Compariva una volta all’anno coi suoi bei doni e i racconti fantastici, ma in breve era già andato a fare il Babbo Natale, da un’altra parte del mondo.

Tuo padre non aveva fatto certo di meglio, in termini di correttezza e rispettabilità, anzi, lui sì che ne aveva fatte! Aveva girato per lungo e largo e in ogni luogo aveva messo su un nido, con moglie e figli annessi e connessi, ma anche questo, per quanto hai potuto l’hai taciuto, a chi veniva dopo di te, almeno! Certo, a chi viveva accanto a te, al vicinato, al piccolo paese era quasi impossibile nascondere, le voci corrono veloci, c’è sempre qualcuno che vede, che interpreta un dettaglio, una frase, un’azione ….. e poi al bar, sotto i fumi dell’alcool e dell’illusoria vanagloria si narrano molte cose indicibili.

Di cose se ne sapeva e ne giravano, di parole, dicerie, allusioni, frasi troncate ma la famiglia è la cosa più importante, deve essere salvaguardata a tutti i costi, anche a costo dell’amore e della vita. A tutti i santi costi, non dimenticarlo piccola!

Un giorno, molti anni dopo, ti sei lasciata sfuggire che quando andavi a scuola i tuoi compagni ti hanno rincorso e preso a sassate. Non si sa bene perché l’hai raccontato e con quale finalità. Quando ti è stato chiesto perché, tu hai risposto “Perché avevo la cartella di cartone. Non potevo permettermi altro!”

Ma tu, c’avrai veramente creduto a quello che stavi dicendo? Ci credevi davvero?

Perché per quanto i bambini possono essere crudeli, forse i motivi erano altri. Lo sai piccola, che erano altri. Dentro di te, lo sai molto bene. Ma è sicuramente più lieve pensare che loro erano così crudeli, verso una compagna più sfortuna, più povera di loro, insensatamente crudeli.

E sicuramente tu non ti difendevi, non ti opponevi, non presentavi nessuna rimostranza. Non facevi nulla perché i motivi erano altri. Ameno i motivi di cui vergognarsi.

Non era certo la povertà o la cartella di cartone, ciò di cui ti vergognavi mia piccola, ma il disonore della famiglia, le mille vicende impossibili da nascondere, l’origine della tua nascita, dei tuoi fratelli e sorelle.

Tu lo sapevi, ma presa da quel tuo mutismo, da quel grande rispetto, da quel patto mortifero non hai mai aggiunto altro. Quel patto con tua madre e i tuoi fratelli conviventi, era così forte che ti saresti buttata anche nel fuoco pur di non rivelare, pur di non mettere a nudo, pur di non svelare. C’era un’omertà insensata e rischiosa che tu non hai mai infranto, come se l’origine fosse molto più importante di tutto ciò che viene dopo, di te stessa, dei frutti del tuo coltivare, sentire, amare, fare.

Tu, hai abbandonato te stessa da sempre!

Non si sa bene perché, ma quel legame con tua madre era così forte, inespugnabile, ma anche deleterio e insano. Ti aveva insegnato che ci si può fidare solo della famiglia, che il mondo è pericoloso, che i panni sporchi si lavano assolutamente in casa, che il legame con i genitori è indissolubile, oltre la vita e la morte stessa.

Avevi creduto e portato avanti questo patto oltre ogni ragionevole senso. Anche quando lei ti ha abbandonato e tradito, sì ti ha tradito nella tua decisione di vita più importante, imponendoti la sua scelta, pena il perderla per sempre, tu avevi dolorosamente ceduto. Tu piccola, non hai osato andarle contro, contraddirla, dire sì a te e alla vita, hai ceduto per sempre il tuo destino, per un amore incastrante, imprigionante, che ti nutriva solo di latte, ormai annacquato da tempo.

E così hai proceduto per tutta la vita, sottomessa e ubbidiente, repressa ma anche depressa e piena di rimpianti, sogni nascosti. Da lì in poi hai fuggito costantemente il presente, non hai vissuto, né goduto dei piccini che ti sei regalata. Sei fuggita sempre.

Alla fine, senza saperlo li hai traditi, esattamente come lei aveva tradito te. Non ti sei donata pienamente e hai passato loro il tuo pacchetto, il tuo destino, esattamente come lei ha fatto con te!

Col silenzio ha mantenuto una catena forte e resistente, hai portato quei segreti con te nella tomba e loro portano sulla loro schiena un peso di molte persone, di molte sofferenze, di tanti destini infausti, di persone non viste né riconosciute nel loro diritto.

Ti hanno tolto la vita, piccola che beve solo latte dalla mamma. Hai mantenuto un silenzio che non aveva senso di essere, perché la realtà non cambia comunque. Quel patto tacito non ha reso onesto chi non lo era, non ha restituito dignità ad una famiglia che non l’aveva, non ha prodigato calore e presenza a chi non lo riceveva. La parola però, poteva cambiare la tua sorte e quella della tua famiglia, la verità poteva fornirti altre strade e tu c’hai rinunciato.

Tu sei stata abbandonata, ti sei abbandonata e hai abbandonato a tua volta! Era un destino segnato, che nessuno ha osato scalfire, contraddire e così è andata.

C’era una bambina molto coraggiosa, che era sempre contro tutto e tutti, lei andava per la sua strada imperterrita, era la pecora nera in casa e fuori casa, era bollata qualunque cosa facesse, non aveva più molto scampo, ormai da nessuna parte.

Aveva uno specchio nella sua camera e talvolta ci si guardava, capitava  di riconoscersi in quello specchio, ma ancora più spesso capitava di non sapere chi fosse! Talvolta, quell’immagine le suonava estranea, interrogante, incerta, dubbia, rabbiosa, si chiedeva perché senza trovar risposta.

Era il periodo di Natale quanto tu, allegro canarino, che amavi cantare facevi parte del coro della parrocchia. Ti avevano dato da studiare alcune canzoni in inglese, quelle in italiano non avevano bisogno di essere studiate, le imparavi alla perfezione in un attimo. Per quelle in inglese occorreva un po’ più d’impegno, eri ancora piccola e quelle parole erano estranee ed incomprensibili. E’ arrivata la tua cara mamma e ti ha chiesto, si fa per dire chiesto:

“Cosa stai facendo?”

Naturalmente, senza aspettare la risposta, che non le interessava.

“Invece di perdere tempo con le sciocchezze, perché non studi?”, il contraccolpo dissacrante.

E tu, hai smesso, hai messo via per sempre quelle carte. Non per ubbidirle, non per accontentarla, del resto tu eri l’oppositiva per definizione, le hai messe via per desolazione, delusione, per sfinimento, come se rappresentasse l’ultimo barlume di piacere, che ti veniva inesorabilmente tolto.

Non ne hai diritto, cara mia! Devi piegarti, fare ciò che ti dicono, ciò che è giusto fare, ciò che fanno tutti. Le sciocchezze le devi lasciar perdere, non ti danno il pane! Non si può sempre giocare.

Ma ….. penso proprio che non ti sia dimenticata, cos’è successo quando al momento del coro, tu cantavi solo le canzoni italiane. Hai sentito una voce a fianco a te “Hai visto? Gli altri cantano anche in inglese, tu no! Hai visto come sono bravi, loro?”

Lo specchio ha rimandato un’immagine che non ti apparteneva. Non la riconoscevi più. E non si sa quale fosse vera e quale no. Desolazione.

E’ mai possibile che non si ricordasse cosa aveva detto? Possibile che non si rendesse conto?

No, in effetti non si rendeva conto, lei non aveva aspettato la risposta, lei non l’aveva neanche fatta la domanda, lei non voleva effettivamente sapere cosa stavi facendo, cosa fossero quelle carte.

Così, s’è rinnovato il senso di svilimento, di deprivazione, d’incomprensione, di solitudine più profonda, inesorabile, ineluttabile, l’abbandono. Ti sei presa quel rimprovero e non hai mosso ciglio, hai ingoiato e sei sprofondata un altro po’, ti sei inchiodata al suolo ancora un altro po’.

E, tu con te stessa hai imparato a fare esattamente la stessa cosa, mia cara piccina. Ti sei sempre lasciata sola! Ti sei abbandonata. Ti sei tagliata le gambe, ti sei inchiodata e appesantita. Non ti sei riconosciuta nello specchio, per molti molti anni. Non hai coltivato te stessa ed il tuo animo che aveva tanta musica dentro.

In mille e mille occasioni hai trascinato la tua stessa vita con solitudine e sofferenza.

Forse per estraniarti, forse per ritrovarti, per sfidarti o non si sa perché, amavi andare sulle montagne russe fin da piccola, ma quella volta, che non sembrava diversa da tutte le altre, quella volta tu sei salita e hai chiuso gli occhi, ti sei lasciata sola, profondamente sola anche lì!

E’ stata l’angoscia più totale. Non c’era scampo. Hai tremato di spavento e ti sei rintanata dentro di te, fino allo spasmo, fino quasi a scomparire, a scoppiare di spavento. Ti sei aggrappata fortemente a quell’asta, fino alla fine, senza più riuscire ad aprire lo sguardo sul mondo, senza più guardarti in uno specchio diverso dal tuo.

Nascondendoti la vista del mondo che si muove vorticosamente, hai nascosto anche la vista di te stessa, di una te che può muoversi insieme al mondo. Hai subito tutto, tutte le strapazzate, tutte le sterzate, tutte le accelerazioni, le salite e le discese vorticose da sola, senza risorse, senza confine. Inesorabilmente.

E così è stato, da lì in poi hai compiuto il tuo destino, sei scomparsa agli occhi del mondo, hai vissuto tutto da invisibile, da persona insignificante, che si nasconde agli occhi di tutti, che teme ogni minima cosa e guarda per prendere, per capire, imparare silenziosamente, per succhiare e nutrirsi, nascondendo quel mostro che si celava dentro di te, nascondendo l’immagine dietro lo specchio.

Continuavi a guardarti allo specchio, continuavi a non riconoscerti. Ti eri nascosta davanti alla vita, ti eri vergognata di te, annullando ogni tua risorsa, annullando il potere degli occhi per guardare, della voce per farti sentire, dell’imposizione del corpo per farti vedere! Sei salita e scesa da quelle montagne russe, senza guardare cosa ti stava succedendo, senza poter scegliere di esserci e così hai fatto per tanta parte della tua vita.

Hai perso la vita e nessun rimpianto ti farà tornare indietro.

Alla fine, per non continuare a rincorrerla vanamente hai dovuto rinunciare a lei, hai dovuto lasciarla andare, permetterti di perderla, l’ultima cosa che volevi. O te o lei! Hai dovuto scegliere per la cosa più dolorosa, che potesse capitarti!

Hai rinunciato a quella madre tanto importante e inafferrabile, quella grande donna che non aveva saputo trovare sé stessa e aveva trovato il suo posto, unicamente come mamma. Ormai eravate tutti grandi e lei un po’ faceva notare fra le righe della libertà, che non vi vedeva poi così tanto, che non chiamavate, sì che in fin dei conti non avevate più bisogno di lei. Come dire che c’era una scelta da compiere, bisognava andare da una parte o dall’altra.

Lei sentiva questa scelta.

Erano parole misteriose e confuse, che echeggiavano sotto lievi gesti d’amore e di rimprovero. E così un giorno, l’ultimo giorno in cui l’hai vista mia piccina, lei con una frase sibillina, di avvertimento ti ha detto “se mi dovesse succedere qualcosa, la collana che ti spetta la trovi là, i libretti sono là e ……”

Ma tu, non l’hai neanche ascoltata, hai preso quella frase come una delle tante raccomandazioni, una delle infinite preoccupazioni e ansie inutili, te ne sei andata senza ascoltare, ridendo e un po’ deridendola. “Non ridere” ti ha detto. Queste parole ti hanno un po’ inquietato, ma non potevi che continuare ad andare e ignorarle.

Era già un po’ che se n’era andata, aveva cominciato a ritirarsi dal mondo, a sentirsi male, ad avvicinarvi agli ospedali, come per prepararvi, come per ammonirvi, come per ricordarvi della sua presenza e della sua partenza. C’era qualcosa che non ti tornava, che suonava come un contrappunto, ma non osavi indagare, rifletterci, non osavi, non potevi, altrimenti non saresti più andata davvero e sarebbe stata la morte per te.

Certo, avresti potuto darle un bambino, qualcuno da farle accudire, il suo nuovo impegno, molte cose da fare, di cui occuparsi, l’avresti fatta sentire nuovamente utile, importante, indispensabile.

In questo modo si sarebbe rinnovato e rinsaldato il rapporto. Ma tu non volevi creare un altro bambino-ostaggio, tu non eri pronta per avere un bambino, tu eri ancora una bambina spaventata e disorientata, non avevi ancora trovato la strada! Non potevi, non ce la facevi. In fondo a te, lo desideravi tanto, tantissimo, ma non potevi, non era ancora arrivato tempo per questo. Volevi finalmente vederti con lo sguardo del mondo e sul mondo.

Non avevi ancora cominciato a vivere, stavi timidamente riaprendo gli occhi, per vedere cosa succedeva su quella giostra e non ce la facevi proprio a caricare un altro passeggero.

Se avessi avuto un bambino, sicuramente lei non se ne sarebbe andata, si sarebbe sentita nuovamente chiamata alla vita, al ruolo, all’amore da dare e ricevere, ma tu non saresti più tornata e il bambino-ostaggio forse non te l’avrebbe mai perdonata!

E così, come preannunciato lei se n’è andata, è stata portata via con gran violenza, da un momento con l’altro, ma lei è riuscita ad andare con classe anche questa volta, compiendo l’ultimo gesto di grande amore e generosità.

Mia piccola bambina, a questa e a tante altre cose hai rinunciato! Quanta sofferenza, quanto dolore, quanta umiliazione, quanta desolazione hai sofferto! Sei sola, sola, completamente sola!

Sei cresciuta sola e abbandonata, dovevi solo stare zitta, non farti vedere, né sentire, non essere punto e basta. Dovevi solo ubbidire e piegarti, niente più! Rigare dritta come un soldatino, occuparti dei fratelli più piccoli, essere riconoscente, fare, studiare, guarire …….

Questa era la tua sorte. Stare rinchiusa in uno scantinato, in un baule e non disturbare chi sapeva il fatto suo! Lasciar fare a chi era grande e capace, lasciare il posto alla razionalità, al raziocinio e al duro impegno quotidiano, senta tanti grilli in testa.

Ti abbiamo sepolta piccola, sotterrata, depredata, offesa, bistrattata, ma tu non sei morta. Neppure questo ti ha ucciso! Per fortuna!

Ancora oggi sei viva e straviva! Non ti sei mai arresa, vivi nell’ombra oppressa e soppressa, ma ci sei, scavi nel buio, ti aggiri furtiva, senza diritti ma ci sei, niente si è acquietato in te!

E’ un mistero da dove arrivi tanta energia, tanta vitalità, tanta forza e capacità di vivere.

C’è ancora la rabbia, la tristezza, il dolore più profondo, c’è paura. Una paura inesorabile. Non hai diritti, non hai diritto a nulla, ma tu non ti arrendi, non ti puoi arrendere, non ce la fai.

Tu sei viva!

Hai rinunciato a tante cose, a tutto, alla dignità, al posto che ti spettava, all’attenzione, alla realizzazione, alla tua ingenuità, alla genuinità, a mille persone, cose, occasioni, giochi, eventi, alle canzoni in inglese, ai riconoscimenti, ma non hai mai rinunciato alla vita. Poteva essere una povera vita, misera, depauperata, rattristata, rancorosa, ma tu non c’hai rinunciato, mai!

In fin dei conti, hai un unico grande bisogno: essere amata! Hai tanto amore da dare e vuoi solo essere amata!

E allora credo proprio che ti spetti piccola Gruffalina. Sì ti spetta giustamente. E’ giusto che tu venga amata, che tu abbia ciò che chiedi.

 

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1 febbraio 2012 3 01 /02 /febbraio /2012 14:53

CAPITOLO VII

 

Legami per la vita

 

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Non si possono dimenticare neanche le tue lettere d’amore. Eri solo una ragazzina, vivevi sola e isolata in quella casa che tanto odiavi. La noia e la solitudine più totale, più invadente, più infinita che tu abbia mai sentito e conosciuto. Che angoscia, le giornate sempre uguali, sudate di monotonia e polvere.

Per fortuna che c’era la scuola!

Ma ve lo immaginate, la scuola che rappresenta una fortuna?

Eppure era una via d’uscita, una novità, l’ambiente sociale per eccellenza, il luogo che ti era permesso con libero accesso. Là dove non venivi controllata e forzata, almeno in apparenza.

E proprio lì che sei uscita dalla noia e dal controllo, ti sei innamorata, hai preso una di quelle cotte micidiali, che solo a quell’età possono essere così potenti e magiche, che portano via, via lontano da qualunque posto ci si trovi.

Era una cotta, una cotta da ragazzi, per te la prima, era fantastica, stratosferica, era la rinascita, ma in fin dei conti una cotta fra ragazzi, innocente e ingenua. Che ne sapevi tu del mondo? Che ne sapevi di malizia?

Volevi solo amare ed essere amata. Solo banalmente questo!

Tuo padre non la vedeva così, ti avrebbe voluto controllare in tutto e per tutto, spaventato fino allo spasmo di chissà cosa potesse innescare tutto ciò, di dove si sarebbe andati a finire. Il fatto è che era lui il primo ad essere malizioso e metteva malizia da ogni parte, temeva inaccettabili eventualità.

Osò rufolare nelle tue cose e gettarti via le lettere d’amore e i piccoli doni, così delicatamente, timidamente scambiati e conservati! Si arraffò prepotentemente questo diritto, senza chiedere il permesso, senza proferire parola, come un saggio che sa e ha diritto sul mondo. Pensando poi che toglierti tutto ciò, potesse cambiare quello che sentivi e quello che eri.

Come ha potuto farlo? Come ha potuto osare? Senza dire, senza informarsi, senza conoscere, senza pronunciare una parola, senza chiedere il permesso! Per lui era tutto legittimo. Lo poteva fare, anzi lo doveva fare per il bene tuo e di tutta la famiglia. Lui era un onesto e responsabile padre di famiglia, un infaticabile lavoratore e doveva proteggerti dalle insidie della vita e degli uomini, a te ancora sconosciute!

Solo per il tuo bene! Solo per amore! Tu non lo capivi, perché non capivi come va il mondo, ma un giorno lo avresti saputo e lo avresti ringraziato! Un giorno, quando sarai genitore vedrai! Allora sì, che capirai. Allora mi ringrazierai. Sì, mi ringrazierai sicuramente!

Tu però, eri infuriata e lo eri lì in quel momento, non un giorno, non quando saresti stata grande, non quando saresti stata un genitore. Venivi calpestata, ignorata, bistrattata, trattata come un oggetto ed eri orlandamente furiosa, furibonda, fuori di te, avresti potuto qualsiasi cosa con quegli occhi fuori dalle orbite!

Ma niente, non importava a nessuno, tu non ne avevi diritto di essere arrabbiata e basta, senza fare tante storie. Un giorno avresti capito e basta, dovevi fidarti.

Dopo tutto questo inutile divampare, dopo la furia più sconcertante e incontenibile, scattava lo sconcerto, la tristezza e ancor di più il dolore profondo, quel dolore che ti colpisce direttamente al cuore, senza remora alcuna, per passarlo da parte a parte dissanguandolo lentamente, lasciandoti anemica e pallida.

Come può accadere tutto questo? Perché la mamma glielo permette? Perché non ho diritto a questa gioia, a questa euforia? E’ davvero sbagliato tutto quanto? Io sono sbagliata? Devo ancora rimanere in questa gabbia? Per quanto ancora, dovrò stare in questa gabbia dorata?

Tutte quelle parole che volavano leggere e soavi come il tuo cuore, che ti riscaldavano pur vibrando frescamente, tintinnando come campanelle curiose, erano spazzate via con un soffio, con un gesto di rottura, un gelo devastante, una bruttura che si prendeva gioco di te, ti annientava fino allo sfinimento. Ti sfibrava ora dopo ora, giorno dopo giorno, divieto dopo divieto.

Dov’erano ora tutte quelle sensazioni? Dove se n’erano andate? Dove erano svanite le emozioni più lievi? I sogni, dov’erano?

Non c’era più posto per loro. Quelle emozioni, lasciavano spazio solo alla rabbia bruciante. E la rabbia era sconcertante, ma almeno per un po’ anche quella fa sentire vivi, allontana la noia ed il vuoto. Anche la rabbia, è pur sempre qualcosa da maneggiare, qualcosa di cui occuparsi. Triste …. Eppure è proprio così.

Ma anche il fuoco più ardente, che tanto ci riscalda, alla fine si sopisce e poi si spenge definitivamente. Quando non c’è più nulla da ardere, anche il fuoco più intenso lascia solo cenere, che vola via con il vento. Così, inesorabilmente è stato per la tua rabbia.

E così, ancora sepolta in quel deserto di sale per molti anni ancora, per molte tristezze ancora, per un’infinita quantità di sbadigli, per un’infinita serie di rospi amaramente ingoiati, hai trascorso molte primavere e molte estati, molti gelidi inverni, in quella infinitesima lunga, insensata noia.

Quando poi è arrivato il momento di partire, di andare, di prendere finalmente la tua strada, di andare per la tua formazione, si è ripetuta la scena. Incredibile ma vero. Nulla era cambiato. Tu non potevi andare.

Cosa ci andavi a fare? Non conosci il mondo, non sai quante insidie si celano dietro l’angolo. Tu sei un tenero e fresco fiorellino di campagna, coltivato con cura e non sai cosa succede nelle fioriere di città! Che diamine, è possibile che non lo capisci? Oppure sei tu che ti vai a cercare qualcosa di male? Sei forse una poco di buono? Vuoi fare la puttana?

Come una mannaia, queste parole ti hanno risuonato tanto quanto colpi d’accetta sulle spalle, sulla testa, sulle braccia, sulle gambe, sul cuore. Così che alla fine dei conti, non saresti più stata in grado di andare da nessuna parte, non avevi più gambe per camminare, braccia per accogliere, spalle per sostenere, mani per prendere, testa per pensare, cuore per amare. Non c’era più da andare da nessuna parte, dopo quel flagello! Ormai tutto era annullato, annientato. Un deserto! Tutto fatto in pezzi.

Ma questo, è quello che credevano loro, quello che chiunque potrebbe credere. Tu invece, tirando fuori la rabbia che ancora bruciava sotto le ceneri, la vitalità che ancora ardeva nascosta in un angolo, hai trovato un compromesso e sei andata, questa volta sei andata e non ti sei fatta fermare.

Certo sei andata un po’ zoppa, faticando molto, perdendo la leggerezza dell’essere, ma ti sei creata la via di fuga, la via per il mondo, che hai pagato caro, caro varie e varie volte, ma almeno potevi sperare ora!

Ora potevi udire tutte le parole del mondo, potevi leggerle, dirle, potevi camminare, fuori da quella noiosa prigione, da quel buco depressivo, dal vuoto totale. Che sollievo!

Oh, finalmente. Si riparte. E stavolta tu piccola …… puoi trovare una via, un percorso dentro e fuori di te!

Non si può certo dimenticare quando così piccola, ancora incapace di sapere di poter nuotare, tremavi ogni volta che scoppiava un temporale. Non erano i bagliori che ti spaventavano, non erano i rombanti rumori che ti squassavano le orecchie e il petto, ma l’acqua che cadeva, che veniva rinnovatamente annunciata con forza, ancora più forza, ad ogni lampo, ad ogni tuono, ad ogni goccia che si aggiungeva alla precedente tu tremavi, tremavi di paura. Nessuno capiva che tremavi perché temevi che l’acqua salisse, salisse fino a farti affogare. Sì, temevi di affogare, perché non sapevi nuotare. Non era la solita paura dei temporali, ma la paura di affogare, perché tu eri incapace, non sapevi fare il pesciolino e non avresti avuto via di scampo.

Già eri stata tanto derisa proprio per questo, dalle suore. Ogni volta che ti portavano al mare e tu stavi guardinga a distanza dalle onde, venivi pubblicamente sbeffeggiata e derisa. Guardatela lì, torna indietro, scappa via. Ah, ah! Ma che paura hai? Che pericolo c’è in mezzo centimetro d’acqua? Ah, guardatela, bambini! Guardatela! E tu,vieni qui, fifona!

Quanta umiliazione e vergogna! Lì, non c’era proprio nessuno a difenderti, eri proprio sola e indifesa, piccola, piccola, incapace di far fronte a tanta derisione, a tanta ignoranza, a tanto odio.

Ma adesso sei qui, in casa tua, con i tuoi cari genitori, non con sconosciuti, non con sadiche suore frustrate. Fuori imperversa uno dei tanti temporali che tanto ti terrorizzano e tu pensi che non ci sono mezzi, non ci sono vie d’uscita.

Che fare?

Andavi in camera dei tuoi, ma nel letto non ti ci volevano, allora ti accampavi sul tappeto di tuo padre, lì vicino al letto, portavi anche coperta e cuscino. Ma anche di lì ti cacciavano, non era il posto adatto per te! I bambini non devono stare in terra. Allora tentavi un’altra carta: provavi con il bagno. Portavi tutto l’occorrente, ancora coperta e cuscino nella vasca, almeno lì saresti stata al sicuro da un’eventuale inondazione.

Finalmente eri salva, era la soluzione, proprio la soluzione giusta, ah …. Che sollievo!

Eppure neanche lì, andava bene! Scocciati di questo tuo comportamento assai bizzarro e stolto, ti riportavano in camera tua! Che diamine!

Ormai non c’era più un posto dove potersi rinfrancare, nessuna tana dove nascondersi dal mostro, nessun papà Gruffalò a proteggerti e a tenerti stretto a sè, non c’era angolo che poteva salvarti.

E, proprio come la chiocciolina marina, anche per te non rimaneva che farti coraggio e rintanarti dentro il tuo mondo!

In quella immensa solitudine, in quel terrore devastante, tu stavi rannicchiata lì, al tuo interno, sentivi tutta la paura del mondo, il terrore di annegare, l’impotenza di non saper nuotare, di non avere soluzioni, la grande solitudine di non avere nessuno alle spalle, nessuno che ti proteggesse, che ti tendesse quella mano salvifica.

Ma, quando tutto sembrava perso, quando non c’erano più speranze, tiravi fuori dal cilindro una gran magia. Tu eri la tua unica risorsa, tu eri sola ed eri piccola, incapace di far fronte ad una marea, ad un’inondazione, ma tu usavi te stessa e le ricchezze presenti in te, usavi la tua stessa paura. Immaginavi di stare sul ring a boxare col temporale, un pugno di qua, uno di là e …… eri così abile e astuta che vincevi l’incontro ed il sonno vinceva su te, finalmente potevi rilassarti e riposare.

Che genialità! Che astuzia! Brava chiocciolina marina.

Buona notte, piccola cucciola indifesa!

E tu donna che corre con le stagioni, eri stata tanto una bambina persa. Dopo molti giorni e notti, trascorsi a piangere da sola, a sentire che non c’era possibilità di essere compresi e visti, hai imparato a fare, a fare, a darti da fare, disegnavi, cantavi, giocavi a giochi senza frontiere, sì proprio come facevano in televisione. Andavi, correvi, scorrazzavi, ti divertivi, sognavi, ridevi, cantavi, facevi tutto da sola, ma almeno eri piena. T’inventavi le storie più avventurose e incredibili possibili, facevi in modo che le tue bambole venissero trattate giustamente e amorevolmente, non erano mai sole, le accudivi con grande attenzione, le pettinavi, le vestivi, le lavavi, correggevi i loro compiti errati senza essere dura, senza umiliarle. Stavi con loro!

Fra quelle tue tante divagazioni mentali fantastiche e fantasiose, sognavi di essere stata adottata, che quella non era la tua vera famiglia, ma di appartenere a un altro nucleo originale. Ecco perché ti trattavano così, semplicemente perché non eri realmente una di loro, appartenevi a qualcun altro, eri di un altro posto, di un altro gruppo. Non eri tu, a essere quella sbagliata!

Svelato l’arcano. Adesso si trattava solo di aspettare che la tua vera famiglia, che tanto ti amava e ti desiderava, ti sarebbe venuta a riprendere, tutto sarebbe stato perfetto allora. Non più fatica, non più sofferenza, non più dolore, non più incomprensione. Non più diversità. Dovevi solo aspettare.

E così sei cresciuta, sei andata avanti, ti sei fatta forza, aggrappandoti ora all’una ora all’altra fantasia, ma soprattutto facendo, impegnandosi in mille attività, nella scuola, negli hobbies più strani, fare marmellate con i fiori, sculture con la plastica, gli sport e il movimento a tutte le ore.

Non a caso, eri poco più che una bambina e nelle ore vuote della domenica, dell’estate, prendevi il tuo cavallo a due ruote e andavi pedalando all’infinito, senza meta, per fuggire alla tristezza, alla desertificazione dell’anima, sperando di lasciare per strada tutto quel fardello.

E andando andando, quella desolazione svaniva quasi per incanto, per strada pedalavi e pensavi, pedalavi, pensavi, rimuginavi, fantasticavi, poi quasi improvvisamente senza neanche accorgertene, sulla strada del ritorno ti assennavi che i pensieri si erano perduti davvero per strada e arrivavi a casa più sollevata.

Niente era cambiato intorno a te, ma qualcosa si era mosso dentro di te. Quante e quante volte hai ripetuto questo processo, sei andata pesante e grave, sei tornata leggera e soave. Non allegra, no, questo è troppo, non c’era di che essere allegra, tanto meno felice. Ma lieve e fiduciosa di avere qualche forma di soluzione a questo stato, così tanto annientante e non era cosa da poco.

Nessuno ti chiedeva dove fossi stata, nessuno si preoccupava, né si occupava di te, ma non ci facevi molto caso, era la norma. Forse, anzi quasi sicuramente, qualche volta tua madre ti ha chiesto dove fossi stata, ma era come se non lo avesse fatto, era una richiesta di rassicurazione, la possibilità di essere a conoscenza, quindi di essere tranquillizzata, ma nessuno si chiedeva perché, cosa stesse succedendo a te!

Forse, non era neanche mancanza totale di interesse nei tuoi riguardi, ma paura della risposta o della mancata risposta, terrore di entrare in un tunnel dove lei per prima, non avrebbe saputo muoversi. Allora era meglio non scoperchiare troppe pentole!

La bici, si alternava alla corsa, con lo stesso meccanismo, le enormità del cuore che cercavano una strada del ritorno. Qui lo sforzo e la fatica, senza dubbio maggiore, ti permettevano di alleggerirti prima e ancor di più. I pensieri rimbalzavano come fardello insostenibile alle prime battute, ma poi dovevano essere velocemente scaricati, pena l’incedere rovinoso. Tornavi stremata ma rigenerata, rinnovata.

E poi comunque, da brava formichina avevi imparato a serbare un po’ di te, ti fermavi sempre prima di sfinirti, come una saggia quercia, come una chiocciolina di terra che sa di dover andare lontano e di avere molta strada da percorrere. Tenevi da parte un po’ di riserve per gli imprevisti, per gli sprint, per le battaglie inevitabili della vita, quelle che potevano far cadavere di te.

Ormai grande, avevi conservato proprio la corsa come tua unica alleata, fuga neanche tanto consentita, ma concessati da te medesima senza deroghe. Correvi a tutte le ore, in tutte le stagioni, al mattino presto, sotto il sole cocente, dopo pranzo, sotto la pioggerellina fine, sotto la pioggia battente, non potevi farne a meno, non potevi rimandare. Non potevi fermarti.

In questi tuoi percorsi, avevi individuato una sfida, un muro per te assai elevato. Era una sfida, una prova da superare, una prova di coraggio. Correre lassù ti creava una paura terribile, era alto, le gambe tremavano ed erano instabili, gli occhi evitavano di guardare giù, ma era come una calamita irresistibile e potente, continuavi a temere di cadere, temevi di non farcela, ti domandavi cosa avresti fatto se fossi caduta giù, come ti saresti tirata su. Non pensavi al dolore che avresti provato, alle ferite, ai danni causati dal cadere giù, no, pensavi a come potevi uscirne fuori, come appigliarti a quel muro così elevato per te, quasi impossibile.

Per un tratto, quel muro costeggia una casa con giardino e due cani da guardia incattiviti annessi e connessi. Cadere proprio in quel punto, sarebbe stato ancora più complicato, rovinoso direi!

Correvi lassù, tremando, muovendoti più adagio, circospetta, chiedendoti se ce l’avresti fatta, se saresti arrivata fino in fondo. Sapevi bene che se impiegavi tanta attenzione ed energia ad evitare la caduta, ne facevi una ragione di vita e rischiavi proprio quella fine. Per cui, lottavi contro te stessa, contro la paura ed i fantasmi che si affastellavano sull’immagine della caduta e ti sforzavi di non pensarci, di proporti verso la meta, di riuscire, di andare oltre.

Tutto questo non era che metafora di quanto ti avevano trasmesso, eri sola, non appartenevi a nessuno, non avevi un terreno solido su cui poggiarti, né le spalle coperte, questo ti faceva incedere con paura, incertezza e insicurezza, continuavi a temere di cadere perché sapevi che saresti stata sola, avresti dovuto cavartela con le tue stesse forze, ma soprattutto avresti rinnovato la certezza di essere abbandonata a te stessa: la cosa dolorosa che veramente ti spezzava il cuore.

Non avevi la capacità di vederti, non sapevi chi fossi veramente, andavi senza sapere se ne avresti cavato veramente le gambe. Andavi, correvi, ti rialzavi, facevi ciò che nessun altro riusciva a fare, ma non lo sapevi, continuavi a vedere solo le falle del tuo essere! Continuavi a concentrarti sulle cadute e t’impegnavi per evitare che si verificassero. Una vita all’insegna della caduta e della privazione! La paura dominava su di te costantemente.

Non vedevi invece ciò che c’era, ciò che riuscivi a fare! E non l’hai visto per molto tempo. Non scorgevi chi eri. 

Dopo tanti anni, è difficile fermarsi e vedere, guardare con occhi diversi, togliere l’immagine del quadro! Nessuno ti ha messo davanti uno specchio, hai dovuto gradualmente scoprirlo negli occhi degli altri, nell’ombra della tua anima. Ancora molta fatica, ancora molta paura nel tuo cuore.

C’era una bambina bella, bruna, con gli occhi scuri e intensi, con i lineamenti un po’ più morbidi della maggior parte dei bambini, di un’intelligenza ed una sensibilità sopra le righe, era speciale senza dubbio, diversa da tutti gli altri.

Per non dare eccessivo peso ai genitori che lavoravano tanto poverini, si gestiva da sola in tutto e per tutto, aveva i suoi risparmi, piccole monetine che metteva faticosamente, pazientemente insieme, con cui acquistava ciò di cui aveva bisogno o che desiderava, come i quaderni, le bambole, il ciccio bello, i vestitini per lui, caramelle, chewingum e via. Andava a scuola da sola, tornava, salutava il padre in negozio e poi si dirigeva a casa, dove da sola si apprestava a prepararsi il pranzo, a riscaldarlo o aspettava la mamma che rincasasse.

Finché non aveva iniziato la scuola, andava con mamma al lavoro e stava lì buona buona in un angolo a giocare, senza disturbare nessuno, come se non ci fosse! Proprio come se tu non ci fossi, piccola bambina tonda, avevi imparato ben presto molto bene, a non essere di troppo. Ma per fortuna che il tuo corpo non proprio esile, ti faceva notare, faceva ricordare che c’eri, c’eri anche tu, per fortuna.

Poi, quando sei cresciuta, hai dovuto cedere ad impegni più importanti come la scuola e allora non sei più potuta andare con lei.

La scuola ti piaceva, ti piaceva imparare, eri molto intelligente, volenterosa e brava, arguta, ma quel luogo era un supplizio lo stesso. Qualcuno doveva sempre ricordarti che assomigliavi ad un bignè. E forse questo era il complimento migliore, si aggiungeva assai di peggio, fra le risa generali e l’indifferenza della maestra, osavano dirti di tutto, le parole non avevano confine. Forse non ci sentiva bene la maestra poverina, forse aveva un difetto d’udito, ma forse anche di vista!

E non puoi dimenticare il tuo primo saggio di danza. Tutte le piccole ballerine facevano il loro ingresso una per una, quando sei arrivata tu, nel tuo tutù rosa, felice di esserci, non si sa perché è esplosa una risata generale. Ti sei sentita incapace, inadeguata, brutta, anzi orrenda. Tuttora non capisci perché. Guardandoti nelle foto, a più di trenta anni di distanza non ti vedi poi così grassa, così schifosa, così diversa dalle altre, solo un po’ più rotonda, solo un po’ meno esile. Ma ridevano indignitosamente, indiscriminatamente, senza ritegno alcuno.

Perché? Perché hanno riso tanto? Perché?

A te sono arrivate come stilettate e ti hanno marchiato a fuoco per sempre. Per sempre indelebilmente.

 E non hai certo avuto conforto dai tuoi, non hai potuto piangere fra le braccia di tua madre, rasserenata dalle sue vellutate carezze e dalle sue dolci parole. No, non potevi! Non c’era dubbio.

Nello stesso modo non potevi certo raccontare loro delle prese di giro a scuola, dei nomignoli, delle risate, delle villanerie, lì il messaggio si rinnovava appesantendosi sempre in modo persistente, aggiungendo fuoco sul fuoco.

Tua madre, dall’alto della sua over size, ti odiava, non voleva vederti grassa. Lei si odiava, non voleva vedersi grassa, non lo tollerava, ma in fin dei conti per lei era diverso, era stata tutta colpa tua, dalla tua nascita il suo corpo si era sfigurato indelebilmente, tu eri avida anche in pancia, tu eri quattro chili! Famelica e ingorda!

E da allora la poverina non aveva avuto scampo. Tu però non avevi giustificazioni! Tu non avevi fatto figli e forse non ne avresti mai fatti, non riuscivi a trovarti neanche un fidanzato. E probabilmente segretamente ne godeva, così non ti avrebbe mai persa, non sarebbe mai rimasta sola.

E neanche a farlo a posta, cucinava dolci e dolcetti, portava a casa dei barattoli enormi di nutella, ma a te ci pensava e per preservarti li metteva in bella mostra sì, ma lontano dalla tua portata, così elevati che tu non potessi cedere alla tentazione ed esagerare. Ci pensava a te e voleva aiutarti a trovare una misura, lei che la misura non ce l’aveva.

Ma tu, che ogni giorno vedevi in cucina quel barattolo di nutella, su quella mensola, bello, succoso, luccicante, invitante, enorme, non potevi fare a meno di figurarti il suo sapore, il suo odore, l’unica soddisfazione che avevi in quel mare desolato! Mhhhh ………. dev’essere squisita ….

Per farle vedere, per farle capire che contro di te non poteva niente, che non poteva costringerti ad essere ciò che voleva lei, tu avevi trovato il modo di arrampicarti su quella mensola e andavi al barattolo, era enorme e ce n’era proprio tanta, che buona! Piano piano, coi giorni, come il topolino furbo, la mangiasti tutta dall’interno, lasciando intatto l’esterno, le pareti, così che non se ne potesse accorgersene, almeno finché non avrebbe aperto il barattolo. Da fuori era tutto perfetto e intatto, ma non dall’interno.

Che ganza sei stata, piccolina!

Quando lo scoprì! Lì scoppiò il finimondo! Quella tua cara mammina, diventò una belva furibonda, ti sputò a dosso, come tante altre volte, ma questa volta con una violenza rinnovata, una marea che ti travolse veramente. Ingorda! Sei un maiale, fai schifo! Non ti vedi, quanto fai schifo? Che schifo, che figlia immonda! Un maiale.

Che atrocità è riuscita a dire quella tua cara mamma, che oscenità, che bestemmie, la donna che ti aveva dato la vita. Te l’aveva data e ora, come mille altre volte te la toglieva con la non curanza, con la violenza, con la disperazione, con le botte, con la crudeltà!

Quelle erano vere bestemmie, di quelle che dovrebbero portare diritto all’inferno, non quelle rivolte ad entità soprannaturali ed invisibili. Travolgere con tanta violenza una bambina, la propria unica figlia, deve necessariamente far bruciare nelle fiamme dell’inferno.

Il resto l’hai dimenticato. Non occorre altro. Tutto il resto è stato un crescendo, la tua vita si è dispiegata nella fatica e nell’orrore che dietro l’angolo, potessero nuovamente spuntare quelle parole “Sei un maiale, fai schifo!”.

Quelle parole hanno impresso per sempre dentro te un segno indelebile, hanno dato diritto di abitazione permanente alla paura!

La paura ha preso residenza dentro di te.

Guai a contraddire gli altri, guai a non essere disponibile, d’aiuto, comprensibile, svelta, intelligente, silenziosa, mansueta, adattabile, piena di risorse e d’energia. Non c’eri e nessuno ti vedeva. Ti vedevano e ti vedono sì, ma solo per il grasso che ti circonda! Il mondo ha imparato a vederti solo per questo! Tua madre ha imparato a vederti solo per questo! Tu hai imparato a vederti solo per questo! E niente più ….

Non a caso ti sei trovata un lavoro dove nessuno ti vede, mia piccola cara. Non a caso hai passato la vita a fare e sfare diete, a tenerti sotto controllo e a sbottare, a guardare quel barattolo di nutella e a finirlo tutto, finirlo con rabbia e sfida. Non a caso, un giorno, guardando una ragazza in forma smagliante, hai pensato “Se avessi un fisico così, sarei la donna più felice del mondo!”

Ma non è così e non sei felice! Non sei mai stata felice, neanche quando avevi un fisico piacevolmente snello. Quando avevi un fisico smagliante, tu eri ancora grassa, eri un maiale e non a caso andavi ancora a scegliere le taglie di un tempo. Non ti vedevi, non riuscivi a vedere oltre, guardavi il barattolo di nutella e ne vedevi solo l’esterno!

Il tuo mondo interno, è ben rappresentato da quell’immagine di quel libro che tanto ti ha colpita. E’ proprio così, un terreno innevato, immacolato, non tanto per l’abbagliante biancore, ma per l’incolumità del suo manto, nessuno vi ha mai messo piede! Nessuno è mai riuscito ad oltrepassarlo. E chissà se mai qualcuno, riuscirà a lasciare la sua impronta lì da te, dentro di te.

Forse sei destinata a rimanere incolume e sola!

E tu, piccola nata in una famiglia di persone per bene, grandi lavoratori, ma semplici e modesti. Piccola che tacevi e tutto vedevi, ascoltavi, intuivi, sentivi ma tacevi, accoglievi nel tuo gran cuore e davi, davi senza confine, esattamente come tua madre faceva con te e tua sorella. Occhietti immensi che tutto vede.

Un giorno, con l’arrivo di un fratellino non eravate più in due ma in tre, non potevi provare niente di male verso di lui, era tanto amato quanto te e la tua sorellina. Ma il suo arrivo è stato breve, ben presto lui s’è ammalato e un angelo se l’è portato via rapidamente.

Era lì in quella culletta, freddo freddo, c’era tanto dolore contrito in chi amavi, tu non capivi bene, capivi solo che era freddo, tanto freddo e immobile. Niente e nessuno lo smuoveva di lì, lo riscaldava, lo rianimava. Nessuno poteva.

Avresti fatto qualunque cosa pur di alleviare quel dolore, pur di spazzare via quella grande nuvola nera, pur di scaldarlo un po’. Era inverno e c’era il camino acceso, pensasti bene di andare a scaldarti le mani, per poi scaldare lui, scaldarlo, scaldarlo fino a farlo guarire, fino a farlo rianimare. Andavi su e giù, dal camino a quella culletta, su e giù, ma niente, fu tutto vano. Quell’incedere continuo e assiduo, pieno di speranza e d’infinito amore, fu inutile. La culla era lì ed il suo corpicino rimaneva immobile e freddo, duro, gli occhi chiusi.

Avranno capito i tuoi, cosa stavi facendo, occhietti immensi che tutto vede?

Che abbiano visto o no, meritavano tutto questo, lo meritavano. Tua mamma lo meritava, tu le avresti offerto la tua vita, così come lei offriva il suo lavoro, il suo tanto sudore, la sua vita, per farti studiare, per curarti quando fosti malata, ci teneva tanto a te! Avrebbe fatto qualunque cosa, nonostante i poveri mezzi.

E proprio perché guaristi con tanta pazienza e col tempo, lasciandoti un po’ fragile, che tanto pensò a te e al tuo futuro, tanto pensò a farti studiare e a non farti faticare. Ancora oggi, non sai come abbia fatto.

Lei meritava questo e molto più. Lei meritava che tu ti sforzassi allo spasmo, per ridare vita a quell’esserino immobile.

Non se ne parlò più di quel fratellino morto. Lei custodiva gelosamente le sue cose in una cassapanca, era il suo dolore privato, era il suo ricordo unico, erano le sue cose e vi aveva vietato assolutamente di metterci mano, l’unico luogo della casa che vi aveva interdetto.

Un giorno, tu e tua sorella capiste finalmente cosa c’era in quella panca, osaste venir meno al divieto e capiste, mai più siete andate oltre, mancando di rispetto al suo volere, al suo dolore, ad un minuscolo angolo privato di quella grande mamma che tanto lavorava.

Così grande era il tuo amore, la riconoscenza e la dedizione, che le avresti dato anche la vita, le avresti dato la tua vita, hai fatto tutto ciò che credevi possibile pur di darle ragione del suo sforzo, pur di renderla fiera di te, pur di non vanificare tutti quegli sforzi. Ti sei anche sentita in colpa quando lasciasti gli studi universitari per lavorare e sposasti.

L’hai amata così tanto da essere arrivata a donarle la vita di tuo figlio, del tuo primo figlio che chiamasti proprio come quel fratellino, che vi aveva lasciato tanto presto. 

Vivesti per tanti anni il gran terrore che quel tuo figlio, potesse andare inesorabilmente via, che oltre al nome avesse davvero ereditato anche il destino, di quell’esserino ingiustamente morto!

Ti sei sforzata oltre l’umano, hai lavorato, lavorato, hai fatto di tutto, hai tenuto il controllo su tutto e tutti, facendo un percorso immane da sola, pur di evitare quella grande angoscia di morte, che albergava nascosta nel tuo cuore.

Cara piccola occhietti immensi che tutto vede, per fortuna hai visto anche questo! Ma non è stata fortuna, è stata la forza del tuo amore, la forza della tua intelligenza, la forza della tua profondità, la caparbietà. E’ stata la tua forza!

Tu sei occhietti immensi che tutto vede, allora come ora. Niente può sfuggirti. Niente può non riuscirti, niente ti è interdetto. A te spetta, tutta la vita del mondo!

E tu piccolo genio, hai avuto ben poco di quello che ti spettava, avresti meritato molto di più, veramente di più. Invece, hai avuto così poco al punto da dover escogitare ogni minima strategia per sopravvivere, per conservare l’essenza della vita, proprio come fanno le lucertole nel deserto, in un ambiente così ostile e poco ospitale. Hai centellinato ogni goccia d’acqua, ogni briciola di pane, ogni secondo d’aria, ogni forma di vitalità. Hai risucchiato in te e per te, ogni minima espressione di amore, attenzione, investimento e rispetto.

Così tu, sei diventato davvero un piccolo genio, hai dovuto trovare ogni possibile forma per vivere, ogni possibilità d’investimento, ogni mirabile soddisfazione, il più piccolo piacere possibile, in quel gioco di equilibri sottili.

Il fatto è che si aspettavano molto da te, sì, eri figlio unico e appartenevi ad una famiglia speciale, anche tu avresti dovuto essere sicuramente speciale. Non c’erano proprio dubbi.

Ma in cosa, quando, come?

Che angoscia. La prestazione ha iniziato ben presto a spaventarti, ad angosciarti, a pesarti, a toglierti l’aria, a rallentare tutte le tue funzioni vitali.

E tutta la famiglia intorno a te, non faceva che rinnovare questo messaggio, dovevi essere bravo, anzi speciale, far parlare di te per ciò che avresti detto e fatto. Non si può fare altrimenti. Per avere l’eredità, dovevi dimostrare di meritartela, dovevi guadagnarla a tutti gli effetti, niente è gratuito.

Ma ricorda che devi fare tutto questo con modestia, senza sguainarlo troppo, mantenendo la vita di un qualunque coetaneo, essere speciale ma far finta di essere un adolescente qualunque, o quasi.

Del resto già la tua nascita era costata tanto, sì tanto. Ti hanno atteso tanto e ti hanno tanto voluto, non so bene per quale scopo, ma di fatto è costata enormemente. Quando sei venuto al mondo, con un parto così difficile e lacerante per lei, tu non volevi uscire e oltretutto eri enorme, lei ti spingeva a nascere, lo voleva a tutti i costi anche prima del tempo e così, in questa lotta contro natura, per farti uscire da una parte e per restare ancora un po’ in quella tana dall’altro, sei nato tu mio piccino.

Ha persino implorato i medici di farti nascere diversamente, più facilmente, ma loro, stupidi tradizionalisti, hanno obbligato la poveretta a questo estenuante travaglio. Così, la lotta è stata più dura e lunga che mai. Dopo tanta fatica però, sei nato tu, eri bello e sano e lei per ringraziare di ciò ha pensato: oddio chi è quest’essere orrendo, questo mostro che mi porta via la mia bellezza, la mia giovinezza, che mi arreca così tanto dolore? E ora che ci faccio?

Sei cresciuto creando ancora fastidi, non dormivi mai, non si sa che diavolo avessi ma non dormivi. In fin dei conti eri trattato come un principino, ma a te non bastava, non bastava niente e non dormivi e facevi impazzire tutti. Con tutte quelle notti insonni, tua madre vedeva ancor più sfiorire la sua bellezza. Il sonno è il primo alleato della gioventù e lei si ritrovava al mattino con nuove rughe, con la pelle avvizzita e stanca e s’infuriava, non poteva accettarlo, non poteva capire che tu dopo tanto amore le facevi questo, proprio a lei, sì che tu facessi questo a lei! Giusto per il gusto di farla impazzire.

Allora hai dovuto imparare presto ad andare in letargo, a non disturbare, ad usare il minimo d’aria, di luce, il minimo di attenzioni e di amore, il minimo della loro presenza.

Se andavi al mare con loro, c’era sempre la nonna che si occupava di te, tua madre doveva prendersi cura di sé, riprendersi da un possibile ed eventuale esaurimento, si sa avere un figlio è faticoso. Per cui se ne stava un po’ più in là con il suo asciugamano, l’ombrellone, col suo cellulare a parlare, parlare, parlare con le amiche, gli amici, i colleghi. Altrimenti c’era la radio o il pisolino ristoratore.

Di giorno stavi all’asilo o coi nonni, perché dovevano lavorare e la sera capitavano cene di lavoro, cene di coppia, di famiglia, le serate al casinò, lì i bambini non possono andare, è bene che non vedano certe cose, non è un posto per loro.

C’erano poi i week end fuori o le settimane di vacanze. Dove? Questo tu non lo sai, perché tu non eri contemplato nel pacchetto viaggio. Andavano loro, del resto la coppia deve ritrovarsi, deve stare anche un po’ da sola, altrimenti le famiglie si sfasciano.

In quelle lunghe serate interminabili, in quelle giornate tediose, nelle settimane senza nome e senza fine, la noia e la solitudine s’impossessavano di te, ma ancora di più, l’ansia faceva capolino inesorabilmente. Una delle angosce più grandi e devastanti riguardava il timore che a loro potesse capitare qualcosa, o addirittura che potessero morire, magari a causa di un incidente stradale. Allora dovevi inventarti delle strategie, dei giochi mentali ossessivi per riprendere il controllo su te stesso e avere l’illusione di possedere anche il controllo su quanto poteva capitare, sul mondo, ma soprattutto su loro che erano così aerei e sfuggenti. Stavi lì, in quella casa ad aspettare, a contare ogni cosa, a fare congetture, a pensare delle scadenze mentali, dei giochi rassicuranti, ti affacciavi alla finestra, al vialetto per verificare quanto ancora fossero lontani e via e via ad aspettare.

E tu, piccolo genio non potevi che essere bravo, che essere il migliore, almeno per far vedere che c’eri e che valevi il sacrificio di vita di tua madre. Ad ogni interrogazione, ad ogni verifica, ad ogni eventuale elemento fuori programma, che potesse metterti in imbarazzo, mostrare una qualche falla, si creava in te uno scompiglio, un’angoscia interminabile. Che angoscia, che fatica, non c’era proprio via d’uscita, non c’era. Che battaglia ogni giorno. Una battaglia persa!

Non c’era via d’uscita né dentro né fuori. Proprio per questo tuo immane sforzo di bravura, eri diverso dagli altri, non potevi certo ridere, scherzare, lasciarti andare nei giochi, nelle frasi buttate lì, nel tempo perso, nelle sciocchezze. Tu dovevi misurare tutto, proprio tutto, non potevi lasciare niente al caso, dovevi essere preciso, cauto, diplomatico, informato, professionale, capace.

E come potevi avere amici? Come potevi divertirti? Come potevi godere della competizione, in forme non contemplate? Come potevi lasciar libero il corpo, correre, andare, saltare?

Eppure i tuoi si rammaricavano di questo, si preoccupavano e si dispiacevano. Perché il nostro piccino non è come gli altri?

Avrebbero voluto vederti socializzare di più, avere molti amici, vederti con altri compagni. Ed invece tu gli davi pensieri, eri così asociale, diverso, non ti integravi. Ti hanno spinto a fare mille sport. Ti avrebbe fatto molto bene, del resto avevi un corpo esile ed esangue, ma anche lì niente, per te era solo una gran fatica, non ce la facevi, ci provavi ma dopo un po’ ti volevi tirare indietro, loro alla fine cedevano e ti ritiravano con dispiacere e frustrazione.

Fra le tue abilità non era contemplata la socializzazione! Chissà perché.

A ben vedere, in realtà eri così capace, caparbio e anche tenero, che riuscivi ad essere un punto di riferimento per tanti compagni, ragazzine, avevi molte spasimanti, ma la cosa triste era che nessuno era amico per te, nessuno di cui fidarsi, a cui affidare la propria vita, con cui poterla condividere nelle gioie e nei dolori. Nessuno.

Sei cresciuto solo in quella grande casa, in quella casa antica, piena di storia, di libri, si stanze, di polvere, di soprammobili e abbellimenti, tende lucenti, lampade e centrini. Sono trascorsi i secondi, i minuti, le ore, i giorni, le stagioni, faticosamente, razionalmente, angosciosamente, prova dopo prova, esame dopo esame, voto dopo voto, approvazione dopo approvazione. Ad ogni sforzo saliva il livello, aumentavano le richieste, la complessità, ma anche le possibilità. In cuor tuo, l’unico sogno che ti allietava, che ti faceva andare avanti era l’idea di avvicinarti sempre più all’adultità, a certi tipi di scelte e quindi alla libertà. Sì, finalmente la libertà.

E tu sapevi già molto bene cosa volevi fare, come avresti conquistato la tua libertà, le tue mete. C’era da faticare molto però, c’era ancora da tollerare tanta angoscia, da superare mille conquiste, incertezze. Cercavi di andare avanti inesorabilmente, passo dopo passo.

Nel frattempo ti eri anche innamorato, avevi già avuto delle ragazze, ma questa volta ti eri veramente innamorato. Un evento che all’inizio ti aveva disorientato, ti aveva colto di sorpresa, era fuori da ogni schema da te pensato fino ad allora. All’inizio eri pieno, caldo, sconvolto, ma finalmente compreso. Poi anche questa cosa è finita come tutto il resto e quella ragazza ti ha deluso. Non hai mai rimpianto di esserti innamorato, ma ora sapevi di cosa si trattava e potevi catalogarlo come tutte le esperienze avute e le conoscenze acquisite. Adesso eri nuovamente solo.

Del resto, l’unica realtà che conoscevi. L’unica realtà possibile, per te.

Poi, un giorno quando meno te lo aspettavi, ci sono stati eventi che hanno rotto con quella noia, con la monotonia più pressante, il tuo mondo è crollato a cascata. Hai finalmente visto, hai visto cose che non avresti mai voluto vedere, hai compreso cosa stavi vivendo, chi erano i tuoi genitori, chi erano i tuoi parenti. L’hai visto come non l’avevi mai visto.

La vita, vi ha messo di fronte ad eventi e realtà che non potevano essere decisi e controllati.

L’equilibrio così sottile e precario s’è incrinato e poi rotto irrefrenabilmente. Non c’è rimasto altro per te, che capitolare clamorosamente. Hai resistito fino allo stremo, a più non posso, hai fatto di tutto e loro con te, ma a niente è servito. Nonostante ti crollassero macerie addosso da ogni dove, si continuava a chiederti di essere bravo, efficiente, magari un po’ meno, ma sempre molto bravo, dovevi portare avanti i tuoi e i loro obiettivi, non poteva essere altrimenti. Hanno fatto di tutto, ma proprio di tutto per aiutarti, per far sì che riuscissi in questo, per alleggerirti di questo gran peso, ma niente è servito. Del resto nel loro cuore girava un’ombra appena percepita, velata ma presente che oscurava il sole di giorno e la luna di notte.

Avrebbero voluto che tu fossi un grande guerriero, un guerriero della nuova era, intelligente, raffinato, colto, di successo, benestante, pieno di fascino e di donne, ma tu eri qualcos’altro, tu eri altro, tu sei tu piccolo genio.  E d’intelligenza ne hai da vendere, di caparbietà, di bontà, di forza, ma non come volevano loro, non nella direzione che loro desideravano, non per i loro scopi.

Loro, non riuscivano neanche a riconoscerti il diritto di soffrire, di mancare, di fallire. E alla fine tu mio piccolo, non hai più retto al peso di tutto quanto: la sofferenza dentro di te, la delusione, l’impotenza, lottavano arduamente con la voglia di andare avanti, di passare oltre il più velocemente possibile, nel modo più indolore possibile. La stanchezza ed il dolore si scontravano con la rabbia e la reattività.

Dopo tanto lottare piccolo guerriero genio tu, non ce l’hai più fatta, non hai retto più al peso di quelle pressioni costanti, incessanti ed un giorno, un giorno come tanti altri, preceduto da una delle tante notti insonni e devastanti, non ce l’hai fatta più, hai ceduto, ti sei arreso e in un attimo un pensiero è apparso nella tua mente, come tante altre volte era già successo.

Quel pensiero parlava di morte. Quel pensiero era forte ed era supportato dalla dolorosa fatica di andare avanti, di non volerlo fare più, di non sapere perché e per chi, avresti dovuto ancora fare, vivere. Sentivi una pressione in te troppo forte, che cercava una via d’uscita. Avevi bisogno di alleggerirti finalmente!

Hai pensato tutto molto lucidamente e velocemente, c’avevi già pensato mille e mille volte, hai preso l’occorrente, calcolato ogni minimo dettaglio e dunque … hai appeso la corda a quella trave di quella grande casa antica, hai costruito un cerchio, non troppo grande, giusto per far entrare il tuo collo e così hai deciso di farla finita, senza remore, senza sconti, senza possibilità alcuna.

E la tua vita è finita. La tua vita che era costata tanto, è finita in un brevissimo attimo.

Tutta la tua vita, costata così tanto, sudata allo sfinimento è volata via in un brevissimo istante e tu non c’eri più mio piccolo genio.

Poi c’eri tu topolina sfarfallina, che mangiava formaggio sotto il letto. Tutto era duro e intollerabile durante l’arco dell’anno, doveri, impegni, rimproveri, pesantezze, tante pesantezze, poi l’estate, l’estate era noiosa a casa, lunga, vuota, ufffff.

Però per fortuna c’era un mese al mare con i nonni, gli zii, i cugini, lo zio preferito e le cugine preferite. Era tutto uno scorazzare, al mare, poi in giro, lo zio che non finiva mai di comprarvi gelati, coca cola e pizza a volontà, di portarvi di qua e di là. C’erano le girate per le campagne assolate e profumate, a raccogliere la frutta di stagione, il piacere di avere un gatto da coccolare, quel contatto morbido e caldo, almeno lì, in quei giorni.

Tante cose nuove, calde e divertenti. Erano giorni spensierati e belli, senza troppe regole, troppi doveri, senza troppi fari puntati addosso.

Eppure, in quel panorama sereno, privo di nuvole, c’era sempre la possibilità che dall’antro buio delle montagne si svegliasse l’orco. Quando gli veniva in mente che questa o quella cosa non doveva essere fatta, erano gran guai! In genere era mansueto come un agnellino, forse la vicinanza con la sua famiglia, forse le vacanze, o non so che, ma di fatto era tutto più sereno. Però quella stessa famiglia che lo ammansuetiva, poteva in un attimo trasformare l’agnello in belva feroce, le orribili vesti che indossava nei restanti undici mesi dell’anno. Allora usciva dalla sua tana ed erano proprio guai.

E questo successe quel giorno. Proprio lo zio preferito doveva andare a fare un acquisto importante, forse per avere un’opinione, una compagnia o non so cos’altro, desiderava portarvi con sé, per cui aveva invitato tutta la famiglia, la tua e la sua, ad andare con lui.

Ma l’agnorco ha pensato che voi eravate in troppi e non sta bene arrivare in tanti in un negozio, fare confusione, sembrare proprio una famiglia del sud, caciona e caciottara, maleducata, terrona insomma. Rifiutare una richiesta della famiglia non poteva e la soluzione era lì, semplice, avrebbe portato con sé la moglie e il piccolo, te e tua sorella sareste dovute rimanere a casa. Tanto forse c’erano i nonni, non è che stavano proprio lì in casa con voi, come al solito erano all’orto, ma in fondo era vicino, non c’è mica da preoccuparsi, ci saranno stati solo un paio di chilometri dalla casa, con la macchina è in un attimo! Non eravate proprio sole.

Tu topolina sfarfallina guardavi in silenzio, gli occhietti tuoi guardavano l’agnorco dal basso, come era inevitabile vista la tua posizione, forse interrogativi, forse increduli, forse supplicanti, non so bene, ma non osavi proferire parola. Figuriamoci tua sorella, che ormai aveva imparato l’educazione da tanto tanto tempo, lei aveva già accettato di buon grado quella decisione inderogabile, senza neanche rivolgergli una qualche occhiata vagamente pretenziosa.

Voi siete state zitte, non avete osato nulla, ma lo zio, si è ribellato. Non è assolutamente possibile, ma figuriamoci, vengono anche loro, ma che noia danno. L’agnorco, sempre meno agnello e sempre più orco, si è impuntato e ha proferito la sentenza: loro rimangono qui! Un po’ come due pacchi, in una casella postale.

Lo zio incredulo, vi ha fatto l’occhiolino e ha mandato l’orco avanti, vi ha fatto salire velocemente in auto, voi due topoline avete anche esitato, come si fa a contravvenire agli ordini dell’orco? Era un sacrilegio solo pensarlo, chissà quali sarebbero mai state le conseguenze. Brrr …. Venivano i brividi solo a pensarlo. Ma lui ha insistito, con aria amichevole e ammiccante, era un altro adulto che decideva per voi piccine e forse si poteva fare e poi in effetti sarebbe stato difficile anche opporsi a lui. Dunque siete salite e vi siete nascoste, serene del clima giocoso, che tutto vi ha fatto dimenticare, almeno per il poco tempo del tragitto.

Quando siete arrivati a destinazione, l’orco ha sgranato gli occhi, non ci poteva credere, i globi quasi gli sono usciti dalle orbite, era diventato nero dalla rabbia più cupa e furibonda, rosso alternato a nero, duro e rigido, con un’espressione indicibile, suscitava il terrore più totale e poi quelle parole hanno fatto il resto: quando torniamo a casa facciamo i conti!

Lo zio burlone, che fino a quel momento non aveva capito e rideva furtivamente quasi a dire “Te l’abbiamo fatta!”, ha cercato di smorzare, sminuire la scarica del temporale furibondo, prendendosi la responsabilità dell’atto e della decisione.

Ma nulla è servito. Siamo noi che abbiamo disobbedito ad un suo ordine, alla sua legge e noi avremmo fatto quei conti con lui, con lui e nessun altro. Non ha detto altro e ha fatto ben comprendere che non desiderava dire altro, né discuterne di alcunché.

Il negozio è stato esplorato per lungo e per largo, giocosamente e allegramente, con un’incredibile serenità. Ma non per te topolina che mangia il formaggio sotto il letto, stavolta quel formaggio lo avresti pagato molto caro, lo sapevi bene dentro te. L’aria era leggera, ma nel sotto suolo stagnava quella promessa fatta, sotterrata solo per la circostanza, sospesa solo per il tempo necessario, procrastinata al luogo adeguato.

La visita per voi due, non è stata del tutto serena. Non lieve.

Finito il giro, siete rimontate in auto con lo zio, non so chi l’abbia deciso, ma è andata così e arrivati a casa, tu topolina sfarfallina per la tua bontà, per la tua ingenuità, per negazione di tanta violenza, ti eri quasi dimenticata della promessa o forse incredula, non pensavi ti sarebbe successo niente di male. Ma tua sorella, più grande, più esperta, più consapevole è corsa subito in camera e ti ha urlato di andare con lei, siete corse e vi siete chiuse dentro.

Lui è arrivato con una furia omicida, sbattendo i pugni sulla porta, ordinando ancora più fortemente di uscire di lì, che poi sarebbe stato peggio. Urlava e urlava all’impazzata, sbatteva i pugni e prometteva un bel futuro. Ancora lo zio è intervenuto, prendendosi la responsabilità, distogliendolo da quell’insana condotta, ma niente è servito e dopo un po’ anche lui ha desistito. Eravate lì tremanti e incerte, immobili dietro quella porta, lui continuava ad inveire, ancora non avete aperto, ancora una volta non avete ubbidito e lui è andato a cena.

Ohhh! Un sospiro di sollievo, forse questo lo avrebbe distolto, smorzato, forse un po’ di pace, forse la soluzione, forse si sarebbe ravveduto o semplicemente dimenticato.

La cena non è durata molto, non per lui almeno, non avete dovuto attendere così tanto, quei minuti erano stati un sollievo ed un’attesa terrificante, straziante, quasi interminabile, non so cosa stesse urlando la tua pancia ed il tuo stomaco piccola, topolina farfallina, si stringeva in una morsa terribile, si contorceva e ululava come un lupo in cattività.

Quanto costava quel formaggio rubato e mangiato sotto il letto!

Lui era tornato, l’orco non si era sfamato con la cena ed era imperterrito, il cibo non aveva placato la sua fame di vendetta e di giustizia, anzi era ancora più avido e pretenzioso. Continuava ad ordinare di aprire, imperterrito ordinava, tu sfinita non ce la facevi più, volevi cedere, tua sorella continuava a dire di no, lei non avrebbe aperto di certo. Ma tu non ne potevi più, l’attesa era troppa, la tua emotività, la tua psiche non poteva reggere oltre, il contenitore era arrivato all’orlo, traboccava. L’angoscia che provavi non poteva più essere trattenuta.

Ti sei detta che forse aprendo, obbedendogli almeno in questo, avrebbe abbonato le sue promesse, sperando in una sorte non troppo nera, in quest’amnistia del condannato o almeno in una riduzione della pena, hai tentennato, c’hai pensato ancora e con tua sorella che si rintanava in un angolo, tu piccola topolina spaventata alla fine hai aperto, non potevi fare altro, non potevi più aspettare e sopportare. Hai recuperato dentro di te tutta la forza ed il coraggio che possedevi e hai aperto.

L’orco non si era per niente abbonito, non si era placato minimamente, dell’agnello non c’era neanche l’ombra. Con la bava alla bocca si è catapultato su di voi, picchiandovi a dismisura, mani, piedi, tutto ciò che veniva, ha scaricato tutta la sua rabbia, il suo rancore, il livore, l’odio profondo e lontano, su di voi, voi che avevate osato disobbedire, disobbedire a lui! Lo zio ha tentato timidamente di dissuaderlo, ma una tempesta, un tornado in viaggio non può fermarsi, deve fare il suo inevitabile percorso e parimenti lui, ormai nel pieno del suo potenziale, dopo aver caricato per ore, tenendo duro allo stremo delle sue forze alla fine doveva scaricarsi, senza troppi mezzi termini! Non poteva assolutamente fermarsi!

Che grand’uomo! Un vero uomo. Già, dimenticavo che non era un uomo, ma solo un orco! E cosa ci si può aspettare da un orco?

Sì, un animale, che invece di pensare agisce e basta, niente può fargli cambiare idea, né prima né durante, né dopo. Un animale non può frapporre il pensiero fra il sentire e l’agire, non ha questa capacità. Quando l’ira funesta si scatena, non può che travolgere tutto!

Tutto, si fa per dire, quell’ira alla fine aveva travolto solo voi due, le uniche persone indifese, due bambine! Le uniche a non avere responsabilità di nulla, neanche della sua rabbia. Voi non avevate chiesto di essere messe al mondo, voi non avete chiesto di essere femmine, voi non avete chiesto di essere così numerosi, voi non avete chiesto di essere portate al negozio. Voi non avete chiesto un sacco di cose. Ma a chi importa questo? Voi eravate solo l’anello più debole, l’ultimo, quello veramente più piccolo, quello plasmabile e controllabile in balia totale delle sue mani. Quel piccolo anello che lui poteva schiacciare facilmente, quando e come voleva.

Tutto il resto non lo era. Per far fronte a tutto il resto, avrebbe dovuto essere un vero uomo. Ma nel profondo di sé, non sapeva di essere un vero uomo, non voleva affrontare sé stesso, non voleva dimostrare di esserlo e certe cose sono più importanti, la famiglia, l’apparenza, l’onore, il rispetto, l’obbedienza, i buoni propositi e così via. Lui non avrebbe mai potuto travolgere il fratello che si prendeva gioco di lui e delle sue decisioni educative, delle sue direttive indiscutibili, della sua posizione di fratello maggiore, di capo famiglia, lui non poteva. Lui non poteva trovare soluzioni al fatto che voi eravate tre e alla fine, tre più due fa cinque ed è una famiglia numerosa, che suona come meridionale e deprecabile. Lui non riusciva a combattere contro gli stereotipi fuori di lui e dentro di lui. Lui non riusciva ad arrabbiarsi col mondo, con suo padre, un fantasma che non era stato capace di mostrargli come fare il padre e prima ancora l’uomo. Non poteva inveire contro una madre che prima lo aveva allontanato, poi ripreso per sobbarcargli il peso della famiglia, una responsabilità più grande di lui, che gli aveva fatto odiare la sorella, invece che essere sua complice, che gli aveva tolto l’infanzia, l’adolescenza e anche l’adultità.

Non poteva andare oltre sé stesso. Aveva paura, ma non lo riconosceva a sé stesso.

Lui non riusciva in tutto questo! Ma riusciva molto bene a picchiare voi, a scaricare la rabbia di una vita, di una vita intera, passata, presente e futura e forse di più generazioni, su di voi, sì su di voi che avevate osato contravvenire ai suoi ordini.

Quelle botte sono state dure e caramente salate, non credo che riuscirai a dimenticarle topolino farfallina! Non so se tua sorella ricorda, ma tu ricordi bene e hai smesso sempre più, di mangiare il formaggio sotto il letto!

Non l’hai mai capita, tutta quella ferocia contro di voi! Lui vi odiava e basta, non si sa perché vi avesse fatto nascere, a cosa gli servivate. Forse proprio per scaricare la sua rabbia, eravate due pungiball perfetti, una buona scusa. Ma tu non capivi, non potevi capire, non riuscivi a capire, non potevi tollerare, non potevi preservarti, hai dovuto rinunciare al tuo formaggio, hai dovuto smettere di sfarfallare, di volare e hai solo imparato a marciare diritta, mia piccola topolina. Da sola, imperterrita, senza nessuno a tuo fianco. Perché la rabbia macerata, l’odio, rompe tutte le relazioni, i fili visibili e invisibili, non permette che si creino alleanze e comprensioni, c’è solo divisione e aggressività.

Così, non avevi neanche tua sorella dalla tua, ognuno per conto proprio. Neanche quella volta è servita ad unirvi, come non sono servite mille altre volte andate così o peggio!

Ognuno da solo va per il suo destino.

Sarà duro non ripetere, sarà difficile non scaricare tutto l’odio di almeno tre generazioni sui tuoi piccoli cara topolina, che hai ripreso a mangiare di notte cacio sotto il letto.

Ma tu, ci provi, tu non ti rassegni e ci provi con ogni forza del tuo essere. Tu sai di avere paura.

 

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26 gennaio 2012 4 26 /01 /gennaio /2012 14:52

In risposta a Claudia

 

 

Riporto di seguito il quesito di Claudia (nato dalla lettura dell'articolo La strada del ritorno) e successivamente la risposta a quanto mi sta chiedendo.

 

 

 

Molto interessante.

Voglio condividere questo link, che è un po' in tema.

http://www.sololibri.net/Il-nido-dei-sogni-Rosa-Montero.html

 

Una cosa non riesco a figurarmi: in che senso il masochismo può essere inteso come una maschera? La dipendenza e il controllo sugli altri mi è chiaro, ma il masochismo ha una funzione che non
riesco a classificare.
Grazie!


Claudia

 

 

Ciao Claudia,

leggerò volentieri il tuo suggerimento, grazie!

Riguardo a quanto mi chiedi,

bhe partiamo da ciò che comprendi meglio.

Nella ferita di Rifiuto, il bambino s’è sentito rifiutato dal genitore (di solito quello dello stesso sesso) e come reazione, come meccanismo di difesa, per proteggersi dal dolore del rifiuto attuale con i genitori e poi con altre figure presenti e future, adotta la maschera del Fuggitivo. E’ una controreazione che gli rifornisce il controllo emotivo sulla situazione e sulla vita. Non è l’altro che lo rifiuta ma è lui che fugge. Tutto sembra più accettabile e meno doloroso.

Naturalmente è un processo inconsapevole.

Nella ferita di Abbandono (di solito attuata dal genitore dell’altro sesso), parimenti il bambino per il timore di essere abbandonato nuovamente, adotta la maschera del Dipendente, ha assolutamente bisogno degli altri, non può fare niente senza, “è poverino, ingenuo, incapace, fragile” ecc. e chiunque lo abbandonasse sarebbe veramente un “Vigliacco! Cattivo, sadico, ecc.”. Questo il messaggio implicito che genera il processo psichico.

Ora veniamo al masochismo. Nel caso della ferita dell’Umiliazione, succede che i genitori, di solito la madre, umilia il bambino continuando a dirgli cosa deve fare e come farlo, continuando a farlo sentire incapace e inadatto, invadendo il suo spazio personale e fisico, umiliandolo appunto nella sua individualità e indipendenza. In risposta a questa situazione così frustrante e incastrante il bambino e poi l’adulto assume la maschera del Masochista, con questa maschera (costituita da atteggiamenti, modi di fare, di dire, sentire, ecc.) assume il controllo e la condizione attiva della situazione.

Lui/lei, fa ciò che gli viene chiesto o che gli altri si aspettano che faccia o dica, perché è una persona gentile, accomodante, generosa, dedita agli altri, ecc. e non perché qualcuno lo costringe o perché è incapace di decidere autonomamente.

Come capita anche per le altre maschere, questa serve per ristabilire un senso di potere su sé, sulla propria vita e sulle proprie scelte, ma è solo un’illusione, perché la ferita permane ed è inconsapevole.

La maschera è la risposta che il bambino trova , per sopravvivere nel modo migliore alla ferita, ma di fatto è come mettere un cerotto ad una ferita, non si vede, è nascosta ma non è cancellata. Per cui, smascherarsi è importante, è il primo passo per andare a scoprire la ferita e poterla finalmente curare.

Naturalmente ciascuno di noi può avere più maschere, anche se generalmente ce n’è  una che risulta maggiormente predominante e strutturante rispetto alle altre. Talvolta la ferita principale, quella più profonda è quella meno visibile, che si nasconde sotto altre più evidenti ed superficiali. Capita infatti che una volta guariti da una ferita, ne salti fuori un’altra, sorprendendoci e lasciandoci nello sgomento.

Ma non c’è nulla di cui preoccuparsi, la cura e la guarigione è un po’ un processo a strati e progressivo.

 

Spero di essere stata esplicativa.

Un saluto

Sabrina

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25 gennaio 2012 3 25 /01 /gennaio /2012 09:39

La strada del ritorno

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

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I viaggi, le partenze e le fughe, rappresentano temi dominati e ripetuti della vita delle persone. La vita è tutto un viaggio, un percorso in varie direzioni, con terreni e ambienti svariati, ha inizio come fuoriuscita da un “habitat” (ventre materno) per entrarne in un altro assai diverso, più rumoroso, pieno di colori, odori, movimenti e ampi spazi, ecc. Così procede, così fino al suo termine.

Viene da sé che la vita è tutta una partenza, uno spostamento da un posto ad un altro, sia fisico che mentale, emotivo, evolutivo, talvolta involutivo. Ci spostiamo da una scuola ad un’altra, da un’abitazione ad un’altra, da una convivenza a un’altra, da un piccolo mondo di certezze a mille altri (ipotetici e reali), si comincia ad oltrepassare una piccola siepe per abbracciare crescenti oscurità, paure ed incertezze.

La partenza ed il cambiamento dunque, ci accompagnano naturalmente.

Capita poi che anziché partire si fugga e ciò comporta una dinamica diversa. La partenza è rivolta ad uno specifico obiettivo, una meta, secondo una spinta direttiva e propositiva, un bisogno, un desiderio, la fuga invece è il prodotto di un allontanamento da qualcosa, si nega l’esistenza di quel qualcosa dalla nostra vita, non si va verso ciò che si vuol raggiungere ma semplicemente si taglia con ciò che non ci piace, ci fa soffrire, con ciò che non sappiamo integrare, con ciò che vogliamo sopprimere, di cui non riconosciamo l’esistenza. La partenza arricchisce, integra, mette insieme parti diverse di noi, la fuga taglia, riduce, impoverisce queste parti, depaupera l’essere.

Comprendiamo bene che esiste una differenza sostanziale di percorso e di qualità, fra andare e fuggire, fra una vita all’insegna della costruzione, della conquista, della comprensione e quella all’insegna del rifiuto, della distruzione, dell’ignoranza. La partenza infatti conduce nuovamente là dove siamo partiti, produce un ritorno all’origine, con un’identità intrisa di una diversa consapevolezza, mentre la fuga che in verità non ha mai permesso una vera partenza, non produrrà nessun ritorno e nessuna trasformazione evolutiva, ma solo stasi.

Dobbiamo intendere la partenza e la fuga non unicamente come processi concreti e spaziali, ma anche e soprattutto come percorsi interiori intrapsichici. Pensiamo ad esempio alle ferite e alle loro maschere (Lise Bourbeau). Le maschere (intese come comportamenti, atteggiamenti, credenze, ecc.) rappresentano dei meccanismi di fuga e di nascondimento dalla ferita stessa. Per cui, ad esempio chi vive la ferita dell’abbandono si nasconderà e fuggirà dietro la maschera della dipendenza, chi ha subito la ferita dell’umiliazione si celerà dietro la maschera del masochismo, chi si è sentito tradito si ammanterà della maschera del controllo e così via. Quel che ci interessa qui è comprendere che se ci ammantiamo di una maschera, se ci nascondiamo, se fuggiamo dalla nostra realtà, non abbiamo l’opportunità di comprenderla, di modificarla e ma senza saperlo, cadremo sempre lì, in modo circolare e ripetitivo. Nessuna partenza, nessuna trasformazione, nessun ritorno.

Parimenti si tratta di fuga, quando a livello relazionale non siamo disposti alla reciprocità e alla messa in discussione di noi stessi e delle nostre responsabilità, sia in relazioni alla pari con coetanei, amici, colleghi, ecc., che in relazioni asimmetriche come con figli, genitori, datori di lavoro, impiegati, pazienti, ecc. Noi non siamo lì, nel nostro posto, nel nostro ruolo, con possibilità e responsabilità, ma lo abbandoniamo, lasciando solo una figura esterna, una maschera di noi stessi. Partire invece, ci concede il lusso di vedere riflessa negli altri la nostra ferita, di vedere i nostri misfatti, le ferite che noi stessi procuriamo agli altri e ancora di più a noi stessi, comporta anche vedere la via risolutiva, prendersi la responsabilità di ciò che siamo, di ciò che agiamo e di come lo agiamo, infatti, ci fornisce il potere della visibilità e del cambiamento.

Le fiabe, le storie tramandate, i miti, parlano proprio di questo, di un percorso, di un’evoluzione e di un’involuzione, del cambiamento e della trasformazione. Questo ritroviamo quando abbiamo a che fare con il bene e con il male, col bianco e col nero, con le fate e le streghe, con le streghe del male e del bene, con il cielo e con la terra.

Le fiabe, costituiscono uno dei regali più importanti che possiamo fare ai nostri figli. E’ un regalo che facciamo a loro, come bambini e a loro, come futuri adulti. E’ un regalo che noi facciamo a noi stessi, adulti di oggi e bambini di ieri.

Le fiabe, come ci ha insegnato Bettelheim, sono uno strumento di crescita, la strada per la risoluzione dei conflitti, senza il ricorso a giudizi o moralismi, come invece succede nelle favole o in altri tipi di storie.  

Utilizzano il linguaggio simbolico e parlano ad una parte della nostra psiche, che si esprime ed si organizza intorno al simbolo: l’inconscio. E’ proprio attraverso l’utilizzo del simbolo, ciò che può apparire eccessivamente violento, doloroso e triste, in realtà non lo è, rappresenta in modo adeguato una realtà interna, una condizione evolutiva intra- e inter- psichica. Non si tratta della realtà concreta, di un reale abbandono, di una reale ferita, rifiuto, ecc. ma di un vissuto di abbandono, di dolore, di rifiuto, di rabbia, di trionfo, ecc.

La fiaba inoltre fa ricorso alla magia nelle sue varie vesti, chiamando così in causa un mondo al di là di quello razionale e concreto, un mondo emotivo, inconscio, onirico, con leggi proprie, con regole-non regole, dove “Desiderare serve ancora a qualcosa” (come citato in il Principe Ranocchio o Errico di Ferro, fratelli Grimm).

La realtà dello schermo (TV, PC, playstation, game boy, ecc.) al contrario, ci mostra una realtà concreta, dove la violenza ed il dolore rappresentati sono reali e cruenti, per tanto shoccanti e traumatizzanti (Costantini, 30/06/09, 16/04/08).

L’individuo grande e piccino, è a rischio di dipendenza dallo schermo, che ipnotizza una parte importante del cervello, rendendolo ricettacolo inerme di contenuti e forme, che rimangono insospettatamente sepolte nell’inconscio, pronte ad emergere quando meno ce lo aspettiamo. Lo schermo dunque, è violento sia nel contenuto che nella struttura.

Non sono esclusi da questa realtà, i programmi per bambini, come cartoni animati, video giochi, ecc. Recentemente si sono aggiunte le immagini delle carte e dei libri sadico-umoristici, quali i libri di Andy Riley Scott (Costantini, 23/02/09), ecc.

Tutto è esplicito e sovrarappresentato a livello visivo, veloce ed ambiguo.  Si tratta di un’ambiguità che ci si ritorce contro, perché inconsapevolmente mostra una condizione ridicolizzata o svalutata, ma che invia emotivamente un altro tipo di messaggio, che ferisce la nostra sensibilità ed il nostro equilibrio.

La fiaba, come del resto la lettura, sono anch’essi ambigui, ma di un’ambiguità nutriente. In questo caso, non è il messaggio ad essere ambiguo ma la percezione, perché la vista viene frustrata con l’assenza di immagini. Si forniscono dei concetti, che parlano il linguaggio della realtà emotiva in modo inconfondibile, lasciando che la persona cerchi al proprio interno, le immagini corrispettive del mondo che gli appartiene.

In questo senso, le fiabe sono un seme in continuo germogliare, un materiale vivo e presente dentro di noi, pronto a rispuntare quando meno ce lo aspettiamo, ma questa volta nutriente e costruttivo. Una fiaba è per sempre. E’ un percorso che, anche dopo tanti anni, ti permette di ritornare a casa, esattamente come Hänsel e Gretel.

Questa fiaba rappresenta il superamento della fase orale. La prova insita in questa fiaba infatti, permette al bambino di passare dalla fase in cui si è nutriti unicamente dalla madre, alla fase dell’individuazione e dell’indipendenza, spingendo ad “alimentarsi” da soli.

La storia ci mostra una scissione e successiva riconciliazione importante, fra una madre buona, che nutre e ama, con una madre cattiva, che divora ed odia. Mette anche in risalto il pagamento del nutrimento, il costo di questa funzione per la madre, che si riversa necessariamente anche sui figli. Questa fiaba, permette ai bambini di tornare a casa, dopo l’allontanamento e la vittoria sulla madre cattiva, che scaccia e depriva, ma non in modo gratuito, bensì sotto la spinta di un’evoluzione personale, sotto l’invito a prendersi la responsabilità della distruttività insita nella propria oralità. Non c’è solo una Madre cattiva ma anche un Bambino cattivo.

Quale altro strumento, può essere capace di far compiere un processo psichico articolato ed evolutivo, come questo?

Vediamo la storia nello specifico (fratelli Grimm).

C’era una volta due bambini che avevano perso la mamma ed il padre ben presto si risposò, con una donna cattiva e malvagia.

 No, in realtà questa non è la storia come in origine viene narrata!

La storia narra che nel bosco viveva un povero taglialegna con la moglie e i due figli. Era un periodo di grande difficoltà e non avevano molto da mettere sotto i denti. La matrigna dunque, una sera disse al marito di lasciare i bambini nel bosco, perché presto sarebbe arrivato l’inverno, erano troppe bocche da sfamare e sarebbero morti tutti di fame. Il padre non se la sentì di lasciare i figli nel bosco e così andarono avanti ancora, fino a che la matrigna non riprese a fare lo stesso discorso.

Dopo tanta insistenza l’uomo acconsentì e Hänsel, che aveva udito tutto da dietro la porta, andò in giardino e raccolse una manciata di sassolini bianchi.

 Il giorno successivo, la madre diede un pezzo di pane ai due bambini e i due li condussero nel bosco. Lungo il percorso, Hänsel disseminò i suoi sassolini. Arrivati al centro del bosco, il padre disse ai bambini di aspettarlo lì, ma quando fu sera Gretel, accorgendosi che il padre non sarebbe tornato, si mise a piangere disperata, il fratello le disse di non preoccuparsi, sarebbero tornati a casa grazie ai sassolini lasciati lungo la via e così fu, aspettarono il buio ed i sassolini mostrarono loro la strada del ritorno, grazie alla loro luce riflessa.

Tornati a casa, la matrigna riprese a fare lo stesso discorso, il padre doveva portare i bambini nel bosco ma questa volta ancora più lontano, in modo che non potessero tornare, nello stesso tempo chiuse la porta della cucina e Hänsel che udì tutto anche questa volta, non poté raccogliere i suoi sassolini. Per cui il giorno seguente, lungo il percorso il piccolo lasciò le bricioline di pane fornitogli dalla madre e arrivati nel bosco si ripeté la scena precedente. A sera i due bambini cercarono di rientrare grazie alle bricioline, questa volta però non fu possibile perché gli uccellini le avevano mangiate tutte. I due piccini disperati e affranti si misero a piangere, stringendosi forte forte.

Dopo un po’ riuscirono a farsi coraggio e si misero a girare per il bosco, camminarono tutta la notte e anche il giorno seguente, erano stanchi e affamati, si fermarono sotto un albero e si addormentarono. Era la terza mattina, ripresero a camminare addentrandosi sempre più nel centro del bosco, se non avessero trovato qualcuno sarebbero presto morti di fame. A mezzogiorno videro su un ramo, un bell’uccellino che cantava, si fermarono ad ascoltarlo, poi l’uccellino volò via, lo seguirono fino a che si posò sul tetto di una casa.

Da non credere, la casa era fatta di pane e focaccia, le finestre erano di zucchero trasparente, i piccoli fecero proprio una gran scorpacciata. Ma ad un certo punto sentirono una vocina

                                           Rodi, rodi, mordicchia

                                           La casina chi rosicchia?

 

                                  Il vento, il venticello,

                                  il celeste bambinello (risposero  loro)

 

Non se ne curarono e continuarono a mangiare, fino a che si aprì la porta e uscì una vecchia decrepita, i piccoli si spaventarono tanto al punto da lasciarsi cadere ciò che avevano in mano.

Così la strega seducendoli li invitò ad entrare, preparò una gustosa cena e li mise a dormire in due bei lettini. La vecchia, fingeva di essere benevola ma in realtà era una strega cattiva, con gli occhi rossi e vista corta, ma con un finissimo fiuto, tanto da annusare presenza umana fin da lontano, esattamente come gli animali. Attirava i bambini con la casa ricoperta di squisitezze, per poi ucciderli, cucinarli e mangiarli. La mattina seguente infatti, prese Hänsel, lo rinchiuse in una stia con l’idea di ingrassarlo e poi divorarlo, poi prese Gretel per un braccio ordinandole di cucinare, pulire e quant’altro servisse.

Giorno dopo giorno, la bimba sfaccendava dalla mattina alla sera, mangiando miseri avanzi, mentre il fratello veniva servito di piatti sontuosi e poi palpato dalla strega, per verificare quanto fosse ingrassato. Ma il piccolo, anziché mostrare il braccino, mostrava un osso di pollo, così che la strega cieca non se ne accorgesse e pensasse stupita che il bimbo non ingrassava.

Alla fine però, dopo quattro settimane lei si stufò di aspettare, era arrivato il momento di  mangiarlo magro o grasso che fosse. Disse a Gretel di andare a prendere l’acqua, accese il forno e le intimò di controllare che fosse ben caldo, ma la bambina che aveva intuito l’intenzione malevola della strega, disse che non sapeva come fare e la strega per presunzione e cecità cadde nel tranello, entrò nel forno per insegnarle, Gretel la chiuse dentro così che bruciò miseramente e Hänsel fu prontamente liberato.

Nel vagare per la casa trovarono molti forzieri con oggetti preziosi, ori e perle, ne presero un po’ e presero la strada del bosco per tornare a casa. Dopo due ore di cammino trovarono un fiume che non aveva passaggio, così Gretel chiese ad un’oca bianca di aiutarli, saggiamente la piccola non si fece traghettare con Hänsel come lui desiderava,  per evitare che l’oca si stancasse troppo e li facesse morire tutti e due, aspettò che lui fosse già stato trasportato.

Giunti a casa, il padre fu tanto contento di rivederli. Da quando li aveva lasciati nel bosco, non aveva più avuto un attimo di tranquillità, la donna invece era morta. Gretel mostrò il suo grembiule colmo di perle e ori e così  vissero insieme felici e contenti.

Ora riguardando tutta la storia ed esaminiamo il falso inizio: “C’era una volta due bambini che avevano perso la mamma ed il padre ben presto si risposò, con una donna cattiva e malvagia”, esso non è il vero inizio della storia marappresenta la traduzione mentale e la trasformazione inconsapevole, che spesse volte le fiabe subiscono durante la narrazione orale. Nella versione originale non viene mai detto che la madre muore ed il padre si risposa, frequentemente però chi la racconta, fornisce questa versione.

Nella fiaba originale, in alcuni punti si parla di madre, in altri di matrigna, ad esempio si cita la parola matrigna quando la donna chiede all’uomo di abbandonare i bambini nel bosco. Questo ci fa pensare che la donna non sia realmente una matrigna ma lo sia da un punto di vista emotivo, cioè che rappresenti il vissuto del bambino di una “madre cattiva”, una madre che si sente deprivata dalle esigenze dei propri figli, un vissuto in parte reale e sano, che si sviluppa verso l’anno di età quando la simbiosi viene meno, ma qui espletato in modo eccessivo e deprivante (nella proposta risolutiva). Si tratta di una funzione negativa, espressa anche linguisticamente dal suffisso dispregiativo –igna, ma in realtà negativa solo nel modo in cui può essere espressa, non nel bisogno primario.

E’ naturale che ad un certo punto la madre senta il bisogno di riprendersi la propria vita e di rendere più autonomo il bambino, creandogli degli spazi anche all’esterno della famiglia (ad es. mandandolo all’asilo, al nido, dai nonni, ecc.), non lo è quando questo bisogno viene vissuto in modo impellente, urgente, pena la propria sopravvivenza, al punto che ne emergono soluzioni drastiche e violente (abbandono, rifiuto, delega totale, uccisione, ecc.)

Come ci suggerisce Bettelheim inoltre, la fiaba inizia in modo realistico e ci ricorda una triste realtà, ovvero le persone che si trovano in difficoltà non abbondano in generosità, anzi spesso mostrano i lati peggiori di sé, il sentirsi deprivati, porta a proteggere le proprie misere cose, all’incapacità di condividere, al tenere tutto per sé, ecc. Ma anche questa condizione è rappresentativa anche di una realtà interna: quando l’individuo si trova in una sorta di carestia emotiva, quando ogni equilibrio è vissuto in modo precario, alla stessa stregua di un momento di recessione economica estrema, allora si ritira ogni forma di contatto, di scambio che possa far disperdere energie, che possa procurare una qualche forma di cambiamento, che possa minimamente far crollare il delicatissimo equilibrio. Si rimane fermi nella posizione di partenza, imbalsamati nella paura, che intravede pericoli in ogni dove.

Riflettendoci su, ci diviene chiaro che questa realtà concreta è anche rappresentativa del mondo interno dei bambini, che svegliatisi nel mezzo della notte per la “fame”, temono di essere abbandonati e fatti morire di stenti. Si evince l’enorme ansia, nello scoprire che la madre non è più disposta a soddisfare i propri bisogni orali, che desidera separarsi e disfarsi di loro. Viene rappresentata una sorta di competizione: sia la madre che i bambini temono di essere deprivati di qualcosa, la madre della propria individualità, i figli della totale disponibilità materna e del nutrimento assoluto.

Nell’inizio della storia, si sottolinea anche una dimensione individuale, rappresentata dal padre: “C’era un taglialegna, con la moglie e i due figli”. In questa frase risalta l’identità dell’uomo, che possiede una moglie e due figli, ci rammenta la dimensione paterna, più separata, razionale e improntata all’agire, rispetto a quella materna, diadica ed inizialmente simbiotica. Al termine della storia, quando anche i bambini si sono individuati e distanziati dalla madre, è ancora lui in primo piano, indicando così non tanto la figura (il padre), quanto la funzione: quella individuale e separata.

I bambini spaventati e adagiati nella condizione di totale legame con la madre, dopo il primo abbandono, usano impegno e astuzia, per ritornare a casa e ripristinare così la situazione iniziale di dipendenza. Ma la cosa non funziona per molto ed ancora si ripresenta la spinta che va a spezzare quest’equilibrio, ovvero il volere e l’insoddisfazione materna. La seconda volta infatti, Hänsel indebolito dallo sforzo precedente e dall’incertezza, non utilizza bene le proprie risorse ed essendo regredito, cerca una soluzione di tipo orale (le bricioline), che risulta però inappropriata. I bambini sbaglieranno anche di seguito, quando si faranno prendere dall’ingordigia di fronte alla casetta di marzapane. Così facendo, pur di divorare il tetto e le finestre, si dimostrano pronti a privare qualcuno della propria dimora: la rappresentazione di un proprio fantasma, precedentemente proiettato sui genitori, che nella storia agiscono tale dinamica.

La storia ci mostra cosa succede quando si cede all’avidità orale, negando la propria responsabilità (alla domanda della strega i bambini rispondono “il vento”). La regressione a questa paradisiaca condizione di oralità più totale, sopprime ogni forma di individuazione e indipendenza. Infatti, i bambini si ritroveranno l’uno in gabbia e l’altra alla totale servitù della strega, che rappresenta appunto la parte distruttiva dell’oralità. La strega conduce i bambini in casa per mano, prepara un’ottima cena e due lettini puliti, con l’intento di mangiarseli, questa condizione rappresenta un po’ la sensazione di ogni bambino di essere stato fregato dalla madre, soddisfatto in ogni suo bisogno per poi essere frustrato. D’altra parte è proprio per la loro avidità orale che si trovano in quella condizione: volere troppo, volere a qualsiasi costo, far proprio ad ogni condizione, ingabbia, perché lega in modo indelebile fino a diventarne dipendenti e schiavi!

La loro salvezza poi è rappresentata proprio nell’individuazione e nella progettazione intelligente dell’azione, vedi l’utilizzo dell’osso al posto del dito, il raggiro della strega per indurla ad affacciarsi nel forno, il farsi traghettare uno per volta, ecc. Dopo aver superato la componente distruttiva dell’oralità, i bambini ritrovano la ricchezza e l’abbondanza, scoprono forzieri pieni di pietre e perle preziose, ritrovano la matrigna morta ed un padre felice di rivederli.

Si noti inoltre come gli uccellini siano presenti in tre momenti cruciali della storia. Sono loro che mangiano le briciole impedendo il ritorno a casa, seguendo uno di loro i bambini arrivano nella casa della strega ed è grazie all’oca bianca che fanno ritorno nella casa genitoriale. Ora, se consideriamo che i figli sono spesso rappresentati come uccellini che stanno nel nido e che prima o poi voleranno via, vediamo come questi cugini del mondo naturale, siano il tramite rappresentativo di due tipi di “casa genitoriale”, quella accogliente e quella divoratrice.

Inoltre, i tre uccellini rammentano tre funzioni e tre aspetti: il canto, il volo ed il nuoto, quindi tre forme di spostamento e di espansione nello spazio (con la voce e col mondo interno, attraverso le ali e l’aria esattamente come fanno i pensieri, attraverso l’acqua quale rappresentante dell’inconscio). Come a dire che, da una condizione beata di spensieratezza, si passa a volare via dal nido verso qualcosa da raggiungere ed infine si passa ad oltrepassare un ostacolo, cambiando livello e condizione (dalla totale dipendenza ad una prima forma di indipendenza).

Il fatto che solo al ritorno incontrino il corso d’acqua, sta ad indicare il passaggio ad uno stadio diverso, superiore, un po’ come nel battesimo, è una sorta di sublimazione di stato.  Non a caso, per attraversarlo devono separarsi per la prima volta, facendosi traghettare uno per volta.

La fiaba stimola a lasciare andare gradualmente il legame univoco con i genitori, a favore di una relazione alla pari fra coetanei, infatti i due bambini si salvano a vicenda. Dunque il bambino impara che con l’intelligenza, con lo sforzo, con l’aiuto dei coetanei (quindi di altre parti di sé) si possono superare gli ostacoli e si può tornare a casa, nel luogo di origine, più arricchiti e felici. Insegna che ci si può liberare dalle streghe, grazie alle proprie risorse, insegna però che è necessario prendersi le proprie responsabilità e far cadere il ruolo di bisognosi totali e indifesi (i bambini riescono a vincere la strega, la madre cattiva).

Una storia con un significato assai simile lo ritroviamo in Vassilissa, fiaba russa di antica memoria (Estès). La ricordo brevemente nelle sue costituenti fondamentali.

“C’era una volta e una volta non c’era” un giovane donna sul letto di morte, giaceva mentre la figlia ed il marito pregavano in fondo al letto per raccomandare la sua anima a Dio. La madre chiamò a sé la figlia Vassilissa, vestita con stivaletti rossi e grembiule bianco e tirò fuori dalle coperte una bambolina per lei, vestita esattamente come la piccola. “Sono le mie ultime parole bambina, se ti perderai o avrai bisogno d’aiuto, domanda a questa bambola che fare, e sarai assistita. Tieni la bambola sempre con te. Non parlarne a nessuno e nutrila quando ha fame. Questa è la promessa di mia madre e la mia benedizione.” Il respiro cadde nella profondità del corpo, dove raccolse l’anima e fuggì dalle labbra: la mamma era morta.

Per un po’ padre e figlia piansero il lutto ma dopo un po’ il padre si risposò con una donna, che aveva due figlie, tutte apparentemente sorridenti ma con qualcosa di roditore che il padre non vedeva. Quando erano sole, la matrigna e le figlie, prese dall’invidia per la bellezza e per la dolcezza di Vassilissa, le  imponevano  lavori pesanti. La ragazza si rendeva utile senza mai lamentarsi, mentre le tre erano come topi che di notte rovistano tra i rifiuti.

Un giorno la matrigna fece estinguere il fuoco e poi chiamò la ragazza perché andasse dalla Baba Jaga, la strega, per farselo ridare, con l’intento sottostante di farla uccidere e mangiare. Vassilissa partì attraverso il bosco, piena di spavento per il buio e per i rumori sinistri, ma poi metteva mano nella tasca ed il solo contatto con la bambola la rassicurava e la aiutava nella scelta dei sentieri da intraprendere. Non dimenticò certo di dividere con lei il suo pane, di alimentarla come raccomandato dalla madre.

Improvvisamente incontrò un uomo vestito di bianco, al galoppo di un bianco cavallo e si fece più chiaro, poi passò un uomo vestito di rosso su un cavallo rosso e sorse il sole. Quando poi arrivò alla tana della Baba Jaga, in quel momento arrivò un uomo vestito di nero al trotto su un cavallo nero, entrò nella baracca e subito si fece notte. Lo steccato di ossa e teschi intorno cominciò ad ardere di fuoco interno e tutto intorno fu illuminato da una luce fantastica.

La strega era proprio un essere spaventoso, dall’aspetto bizzarro e anomalo, così la casa, costellata di zampe di galline, ossa umane, denti, ecc. Appena vista Vassilissa, le si precipitò davanti chiedendole cosa facesse lì.

“Nonna, sono venuta per il fuoco. La mia casa è fredda …. I mie moriranno …. Ho bisogno di fuoco”

“Oh, siiiiii, ti conosco e conosco i tuoi. Dunque essere inutile …. Hai lasciato spegnere il fuoco. Non è una bella cosa da farsi. E per giunta, che cosa ti fa pensare che ti darò la fiamma?”

Sotto suggerimento della bambola rispose: “Parchè chiedo”.

“Sei fortunata, è la risposta giusta.”

Le disse che le avrebbe dato il fuoco ma solo dopo che avesse fatto del lavoro per lei, altrimenti sarebbe morta. Le sue mansioni erano lavare i vestiti, scopare il cortile e la casa, cucinare, separare il grano buono da quello cattivo e tenere tutto in ordine. La ragazza chiese consiglio alla bambola, questa le disse di rifocillarsi e di andare a dormire, di non preoccuparsi. Così fece, la mattina seguente era tutto fatto.

La Baba Jaga non ebbe nulla da ridire, le ordinò un nuovo compito: in un mucchio doveva separare semi di papavero e sporcizia, per farne due nuovi mucchi distinti. Anche sta volta il compito fu portato a termine grazie alla bambola.

Così il giorno dopo, mentre la strega mangiava Vassilissa le chiese se poteva porgerle delle domande.

“Domanda  pure, ma ricorda che troppo saprai presto invecchierai”.

Allora chiese dei tre uomini visti a cavallo, la strega spiegò che l’uomo vestito di bianco era il suo giorno, quello vestito di rosso il suo sole nascente e quello vestito di nero, la sua notte.

Vassillissa avrebbe voluto chiedere altro ma la bambola in tasca si mosse, facendole capire che doveva tacere e così Baba Jaga si congratulò della sua saggezza e le chiese da dove arrivasse.

“Grazie alla benedizione della mia mamma”.

“Benedizione?! Non abbiamo bisogno di benedizione qui attorno! Meglio che tu te ne vada figliola”. Prese un teschio dagli occhi ardenti dal recinto e lo infilò su un bastone, lo donò alla ragazza e la congedò. Vassilissa voleva ringraziarla, ma la bambola le fece capire che doveva andare e basta, così si incamminò con quel teschio che sprizzava fuoco dalle orecchie, dagli occhi, dal naso e dalla bocca, ne ebbe paura e voleva gettarlo, ma questi le parlò dicendole di calmarsi e di tornare a casa.

Giunse nella sua dimora con un senso di trionfo, la matrigna e le figlie convinte che orami fosse morta, le dissero che erano rimaste senza fuoco dal giorno della sua partenza. Il teschio osservò tutto ed il giorno seguente incenerì le tre donne malvagie.

Anche questa narrazione ci parla di una partenza, di un percorso e di un successivo ritorno. Si tratta di un passaggio da madre a figlia, una sorta di iniziazione alla vita adulta, al recupero del proprio intuito, foriero di saggezza. Se notate, la ragazza chiama la Baba Jaga “Nonna”, come a rimarcare il passaggio generazione “familiare” al femminile. E’ un percorso esterno, ma ancora di più è un percorso interno.

L’inizio “C’era una volta e una volta non c’era” avverte l’ascoltatore che questa storia si colloca in un mondo fra i mondi, dove niente è ciò che appare. Non si parla di una realtà tangibile e univoca, ma di qualcosa che sembra in un modo e poi si rivela in un altro, in un processo di profonda trasformazione, quale solo l’inconscio può creare. Ci avverte che il viaggio che stiamo compiendo aprirà ad un percorso interno e misterioso. La frase finale della Baba Jaga, pronunciata come frase di commiato e di chiusura di un cerchio “Non abbiamo bisogno di benedizione”, appare brusca e brutale e lo è, ci ricorda ancora questo concetto, ci dice che non ci si deve accontentare di un percorso prestabilito da qualcun altro, attraverso un’indicazione, un consiglio, un suggerimento, un appoggio, una benedizione, ma di sentire tutta la forza e la possibilità di decidere per la propria vita, senza curarsi di quanti saranno d’accordo o meno.

Si noti inoltre la bellezza, l’eleganza e la significatività di questa frase:“Il respiro cadde nella profondità del corpo, dove raccolse l’anima e fuggì dalle labbra: la mamma era morta”. Questo modo di figurare la morte è assai rappresentativo del processo naturale della morte, dove il respiro è l’aer, l’aria, il vento che porta con sé tutto ciò che riesce a trasportare, polvere, foglie, pollini, semi, cose che si trasformano e si creano, cambiando stato. Il respiro porta con sé l’anima facendola uscire dalle labbra, esattamente come fa la nostra essenza trasudando nel linguaggio, nell’aria che emette suono, nel colore delle parole, che una volta pronunciate abbandonano il corpo, per volare altrove e trasportare qualcosa di noi.

Addentriamoci in questo viaggio e procediamo per quello che Estés descrive come un percorso a nove successivi passaggi-compiti.

Il primo compito è segnalato dall’avvenimento iniziale: la morte della madre. Ci ricorda che la madre psichica vigilante, protettiva, lungimirante, la madre troppo buona, ad un certo punto deve perire. Ciò segna una sorta di de-idealizzazione, l’inizio di una visione più realistica, a favore dello sviluppo della fiducia in sé e dell’intuizione, si smette di prendere un altro come punto di riferimento per sperimentare in prima persona, ciò di cui siamo capaci. Finché si trova in vita la madre troppo buona, non è possibile procedere con le proprie gambe, perché lei proteggendo, decidendo al posto di, impedisce la ricerca e la scelta autonoma, è una vita comoda e non si può certo lasciarla, a favore di qualcosa di sconosciuto e spaventoso.

La madre buona cede il posto ad una madre amorosa, ma anche fiera ed esigente, una donna che vive nelle lande profonde della psiche, un po’ selvaggia, brutale e misteriosa. Nessuno è mai del tutto pronto a svolgere questo passaggio, nessuno ci insegna a farlo, ma la madre buona affida la figlia alla bambolina, vestita come Vassilissa, proprio per rappresentare una parte di lei: l’intuito, che deve essere nutrito costantemente.

Quando la madre buona muore (in senso reale o simbolico per una qualche forma di separazione, scelta o per evento forzato), allora non c’è più alternativa, si deve finalmente mettere a confronto le proprie capacità nel mondo, in relazione al nuovo, a tutto ciò che pensavamo di non saper affrontare, troppo grande per noi.

Inizia il viaggio con il nostro compagno più fidato: l’intuito, la rappresentazione di sé nella sua essenza, il talismano portafortuna. E’ triste separarsi, lasciar andare, ma è l’unico modo per scoprire sé, è l’unico modo per smettere di appoggiarsi e pensare di non riuscirci da soli. Si smette così di pretendere e ci si riappropria delle proprie capacità, ma anche delle responsabilità, niente è dovuto, tutto è conquistato e meritato.

Il secondo compito consiste nel prendere contatto con le parti oscure di sé, per poterle superare. Vassilissa fa esperienza del fatto che essere sempre gentili e carine non risolve tutti i conflitti e non rende migliore la vita, ma deve ricercare anche le parti più antiche e selvatiche, quelle rabbiose, salvifiche.

Entrando poi in contatto con la matrigna e le sorellastre, avvicina la parte in ombra di sé, quella celata dal sorriso e dall’accondiscendenza, ovvero l’invidia, l’avidità, la gelosia, lo sfruttamento, la pretesa dell’io nei confronti del mondo. Anche Vassilissa possiede queste parti, non le riconosce come proprie ma le appartengono ed è costretta a confrontarvicisi proprio attraverso queste tre figure, che hanno qualcosa del “roditore”, di “topi che di notte frugano fra rifiuti”. Questa descrizione ci rimanda al potere distruttivo dell’inconscio, alimentato da rabbia, avidità e invidia, che conduce a raccogliere solo avanzi e rifiuti, a non costruire niente di buono, autonomo e originale.

La ragazza, che sceglie altro, si sente esiliata dalla propria famiglia. E’ sola! Se mostra sé stessa non viene accettata e compresa dagli altri, se compiace le aspettative altrui, non è accettata e compresa da sé stessa. E’ un po’ come essere una lingua di terra circondata da mare, non c’è collegamento con il resto del mondo calpestabile, si è isolati e soli.

Le tre donne rappresentano un po’ il predatore naturale della psiche, che svaluta, fa richieste improprie, risucchia e Vassilissa si trova a dover scegliere la consapevolezza al posto della gentilezza. Non è un caso che proprio questo predatore la spinge a cercare il fuoco, ad andare nelle fauci della strega, lì si misurerà la sua forza e capacità, o morirà (nella sua forza e unicità) o tornerà vittoriosa.

Si noti inoltre che, sia la strega della fiaba precedente che le tre donne di questa storia, muoiono tutte incenerite dal fuoco, ricordandoci che l’odio, l’invidia, ci rode da dentro e ci brucia in ogni minima possibilità costruttiva, mette in fumo ogni nostra risorsa.

La terza tappa la conduce verso la Navigazione nell’Oscurità, infatti grazie all’eredità della mamma morta, intraprenderà la strada dell’iniziazione nella foresta profonda. Deve lasciar andare la fragile fanciulla ignorante e tremolante, per intraprendere la strada di Madre Selvaggia, tornare salda e lungimirante.

La bambola come i talismani, ridona potere e fiducia, perché rappresenta simbolicamente una parte di noi, l’intuito, la veridicità che alberga nel fondo di noi e che ci guida nelle tenebre. La bambola le parla lungo il percorso e la ragazza ascolta, dando spazio così al proprio intuito, nutrito con l’ascolto e la fiducia (il pane della psiche più ricca e profonda). Questa tappa ci ricorda che si può andare avanti solo fidandoci di noi e più ci fidiamo e più ci fideremo, perché sempre più verifichiamo la forza del nostro intuito, del sapere istintivo e naturale. E’ una “visione” speciale che permette appunto la navigazione, dove l’occhio materiale non riesce a discernere.

Arriviamo al quarto compito: affrontare la Strega Selvaggia. L’incontro con lei, la permanenza nella sua casa, nutrirsi dei suoi alimenti, comporta familiarizzare con l’arcano, con lo strano, con l’alterità del selvaggio, assumere alcuni suoi valori nella propria vita, dunque lasciar morire la bambina fragile e troppo amabile, l’ipernormalità e la vita appiattita, che fa perire l’intuito e la creatività.

La Baba Jaga incute timore perché rappresenta la forza distruttrice, è quella che dona il calore e la luce, ma anche la notte ed il fuoco che incenerisce, contiene entrambe gli aspetti, la vita e la morte, ciò che si esplicherà dipende unicamente da quale domanda faremo, da quale sentiero imbocchiamo e Vassilissa chiede il fuoco, la luce della visibilità. Ed è proprio la domanda semplice, chiara e diretta che le concederà l’opportunità di trovare tutto questo. “Perché lo chiedo” risponde alla strega.

Ricordandoci che le cose stanno là dove devono stare, chiedendo otterremo ciò che cerchiamo e nulla più, per cui è inutile girare intorno con false promesse, obiettivi nascosti, ecc. Ci ricorda anche il diritto di chiedere, abbiamo diritto ad una risposta solo per il semplice fatto che chiediamo. Cosa poi otterremo dipende solo da noi, da quello che siamo disposti a dare e a fare, per ottenere ciò che desideriamo, da quanto ce lo meritiamo.

L’aspetto della strega inoltre, è orrendo quasi a rimandare la fragilità ed inutilità dell’investimento estetico-narcisistico, dell’eccessiva amabilità, piacevolezza, seduttività della donna schiava, passiva nei confronti del mondo, che deve accattivare e compiacere a tutti i costi. Il suo aspetto richiama anche qualcosa di strano, spiacevole e attraente nel contempo, perché connesso con un potere ed una forza superiore, legato al mondo animale e naturale, quindi ad una forza originaria.

Si noti la somiglianza fra la Baba Jaga e la strega della storia precedente, seppur quest’ultima sia caratterizzata da limitazioni notevoli quali la vista corta, non di meno anch’essa presenta un aspetto animale, selvaggio e fiuto sottile. Anche i compiti delle due bambine sono assai simili, ma nel caso di Vassilisa lo scopo risiede nel dirigersi verso una funzione evolutiva, nel caso di Gretel risiede nell’indirizzare verso una funzione regressiva e distruttiva. La prima infatti viene spinta ad andare, la seconda a restare, ad essere divorata.

Il quinto compito consiste nel servire l’irrazionale. La strega le fornirà il fuoco solo dopo che avrà compiuto alcuni compiti psichici. Nel chiederle di pulire, cucinare, lavare, riordinare e separare infatti, le fornisce la strada che la conduce a sé: il potere della purificazione interiore, la non contaminazione, l’ordine, il nutrimento, la creazione di energia e idee.

Pensate al significato simbolico della casa, quale rappresentazione del proprio corpo e di noi nel nostro insieme, all’azione del lavare con ripetute ablazioni i panni nel fiume, quale antico rituale purificatorio e socializzante, allo scopare e alla scopa stessa, spesso fatta con rami e radici quali strumenti naturali di pulizia, pensate al senso del dare ordine, in quanto attribuzione della giusta importanza ad ogni elemento, al cucinare e al nutrire una parte tanto selvaggia ed esigente, alla funzione di alimentare il fuoco in quanto parte più profonda e vitale della casa, ma anche di noi, ecc. Ricordiamo inoltre le tre Parche, le madri di Vita-Morte-Vita che insegnano ciò che deve morire, ciò che deve essere cardato, tessuto,  riportato all’aperto e lavato. Vassilissa deve imparare ad impersonare ciascuna di esse, a svolgere i loro compiti e a all’occorrenza, servirsene.

Complessivamente i compiti psichici consisteranno nel liberare la psiche dalle banalità, dalle scorze inutili, dai fronzoli esterni e fatui, nel ramazzare l’Io, ripulire i pensieri e i sentimenti, curare il fuoco creativo e alimentarlo con idee, fidarsi del fondo di sé, dare una priorità di valori nella propria vita ed eliminare ciò che crea caos inutile. La Baba Jaga la spinge anche a perseverare, non basta compiere tutte queste mansioni il primo giorno, non basta una giornata da eroi, è necessario tessere la tela della nostra vita giorno per giorno, perseverare nei proprio valori con impegno, sforzo e costanza. Dietro la costanza si cela la vera forza e la vera fiducia in noi.

Il sesto compito: selezionare e separare. Il compito che viene chiesto a Vassilissa, attraverso la separazione del frumento buono da quello cattivo, i semi di papavero dai rifiuti, riguarda l’apprendimento profondo. Apprendere infatti comporta comprendere fino in fondo, facendo un’opera di discriminazione di una cosa da un’altra, l’abilità di identificare la natura e l’appartenenza di un dato fenomeno, osservare il potere dell’inconscio anche quando opera fuori della consapevolezza (le mani che appaiono in aria), riflettere e conoscere maggiormente la vita (frumento) e la morte (papaveri).

Del resto, niente in sé e per sé è positivo o negativo, deve solo essere conosciuto e distinto dal mucchio, in base al suo uso prenderà una connotazione anziché un’altra. Infatti, sia il frumento buono che cattivo, i semi di papavero che la sporcizia sono tutti elementi utilizzati nell’antica farmacopea. Il grano cattivo (toccato dalla ruggine) ad esempio, può essere usato o come bevanda inebriante o come farmaco. Sono tutti elementi del ciclo Vita/Morte/Vita.

Conoscere dunque permette di utilizzare in modo appropriato, dare ciò che viene chiesto e nulla più, andare verso ciò di cui si abbiamo bisogno e non farsi abbagliare dai fiorellini colorati (questo un po’ il senso di Cappuccetto Rosso che ancora inconsapevole, perde la strada maestra, la direzione, facendosi confondere dai sapori e colori sfavillanti).

Settimo compito: domande sui misteri. Dopo aver svolto le mansioni concrete, Vassilissa passa al piano della comprensione superiore e chiede alla Baba Jaga il permesso di porgerle dei quesiti, questa risponde affermativamente però l’avverte anticipatamente: “Troppo saprai, presto invecchierai”. Con questa frase le rimanda la responsabilità di ciò che chiederà e di quanto vorrà sapere, nonché la voglia e la capacità di saper attendere il tempo dell’esperienza e della conoscenza diretta.

Sapere troppo infatti anticipa le tappe evolutive, affretta l’esperienza, fa saltare alcuni passaggi, fa perdere la veracità, lo scalpitare, la curiosità tipici della giovinezza, indispensabili per il rinnovamento di sé e per l’incessante domandarsi, che non deve necessariamente condurre ad una risposta definitiva, univoca, appiattente e mortifera. Ritengo infatti, che la risposta migliore sia quella che apre ad altre domande, essenziali per la vitalità della psiche. La posizione migliore dunque è la curiosità e l’interrogarsi, la ricerca di risposte, bilanciati dalla capacità di tollerare delle domande aperte.

La ragazza dunque, fa domande sui cavalieri e sui cavalli, questo rimanda alla natura della strega, che come Demetra è un’antica madre, associata al potere e alla fecondità di una giumenta. Le varie coppie (cavallo e cavaliere) fanno sorgere il sole, gli permettono percorrere il cielo e portano l’oscurità, connotando quindi la nascita, la morte e la rinascita. E’ la coppia, il connubio dei due che conduce a questi grandiosi fenomeni di vita, che fecondamente e fertilmente danno vita e alternano luce e ombra, a breve e lunga distanza, in piccolo e in grande.

Il nero infatti è il colore del fango, del fertile, della materia fondamentale in cui vengono seminate le idee, ma è anche rappresentativo della morte, del mondo fra i mondi, il colore della discesa. E’ l’origine ed il ritorno, il destino.

Il rosso è rappresentativo del sacrificio, della collera, del delitto, dell’essere uccisi, ma anche della vita vibrante, dell’eccitazione, dell’eros e del desiderio. In molte culture esiste una “madre rossa” a cui si rivolgono le partorienti, non a caso si fa ingresso nel mondo attraversando un fiume rosso.

Il bianco poi è il colore del nuovo, del puro, dell’intatto, dell’anima libera dal corpo, del nutrimento essenziale, del latte materno. E’ anche il colore dei morti, di coloro che hanno perso il roseo flusso di vitalità, è la tabula rasa, è la speranza di uno spazio per ricominciare. E’ il vuoto che contiene la possibilità di uno spazio per riordinare il caos, in una nuova creazione.

Anche Vassilissa e la bambola sono vestite di questi tre colori e anche altre storie ricordano gli stessi colori, La signora Trude (vedi i fratelli Grimm) ad esempio, che narra di una giovane ingenua e desiderosa di conoscenza a tutti i costi (non mitigata da pazienza e saggezza), incontra tre uomini, uno vestito di nero, uno di rosso e uno di verde. Non a caso la ragazza in questa storia muore, finisce per fare il ceppo nel camino della strega, che ne ricava “una luce chiara”. Infatti, sia la Baba Jaga con il suo avvertimento, che la bambola, voglio proteggere Vassilissa dal troppo sapere, che comporta il richiamo a troppa numinosità dal mondo sotterraneo tutto in una volta, che porta a farsi intrappolare laggiù, a ricavarne un eccesso di conoscenza che invece di essere utile, diventa pesante e caotica, disorientante e schiacciante, una luce abbagliante. Tutto ha un suo tempo ed un ritmo inalterabile.

Ottava tappa: stare a quattro zampe. La Baba Jaga fornisce due indicazioni prima di accomiatarla, aborrisce la benedizione della madre, che suona come una strada predeterminata e suggerisce quindi di seguire la propria individualità, fornendole un teschio con il fuoco. Il teschio, rappresenta l’anima della persona,  il fondo, non a caso il teschio rischiara attraverso gli organi di senso bocca, naso, occhi, è da questi fori che fuoriesce la luce che indica la strada del ritorno. E la ragazza torna a casa più sicura, trionfante, vincente rispetto all’espletamento del proprio percorso e del proprio intuito, ha chiuso il suo cerchio, è tornata.

Stare a quattro zampe significa tornare all’origine di noi, alla parte animale, intuitiva, all’anima di noi stessi, senza tener conto di sovrastrutture e fronzoli intellettuali, carichi familiari e generazionali, tornare alla luce di noi stessi e niente altro, utilizzando la nostra capacità di vedere, fiutare ed udire, rafforzati dalla luce del fuoco intero.

Il nono compito comporta riplasmare l’Ombra. Sulla strada del ritorno, Vassilissa è tentata di buttare via il teschio, quasi fosse per un attimo spaventata da questo grande strumento, da questo potere nelle sue mani, ma questi la rassicura, così che lei può giungere a destinazione finale. Il compito quindi, risiede nel far uso della vista acuta (gli occhi di fuoco), per riconoscere e reagire all’ombra negativa della propria psiche e agli aspetti negativi delle persone, infatti la famiglia, osservata attentamente da uno sguardo diverso, viene incenerita definitivamente.

Le tre donne, senza Vassilissa sono rimaste al buio, mostrando che le parti negative, risucchianti della psiche, senza libido, senza l’investimento e l’attenzione che gli aveva dedicato in precedenza, hanno perso potere e si sono indebolite ulteriormente. Ciò suggerisce che in base a quanto investimento offriamo alle cose, alle idee, ad alcuni progetti anziché ad altri, cambierà molto il nostro destino, la direzione della nostra vita, Vassilissa ad esempio passa da essere deprivata e sfinita ad essere rafforzata e rivitalizzata. La conoscenza, l’equilibrio, la scelta, comportano un lavoro continuo faticoso e doloroso, necessario però affinché la libido e l’intuito non si spegnano e con esse anche la vita si impoverisca.

Dobbiamo anche prenderci la responsabilità delle nostre scelte, interne ed esterne. Gli amici, i partner, i colleghi che ci circondano, rappresentano una scelta di vita, l’erotizzazione di una parte di noi, delle nostre idee, affetti, nutrimenti, ecc. Siamo noi che scegliamo intorno buone madri o matrigne, sorelle affettuose o sorellastre, maghi benevoli o malvagi, ecc. E’ importante essere selvaggi come la Baba Jaga, andare al fondo di noi, chiederci, cosa Noi desideriamo. Spesso invece scegliamo, non perché realmente desideriamo qualcosa ma solo perché c’è capitata, è lì disponibile ed il mondo attuale è assai ricco di stimoli seduttivi che abboccano in strade, che in realtà non ci interessano affatto.

La fine del racconto ci mette in contatto con un grande compito: lasciar morire. Molte persone sono assai riluttanti, ma in verità “lasciar morire non è contro natura ma solo contro l’educazione” (Estés). Scegliere comporta lasciar morire ciò che non serve più, ciò che non è sano, a favore di quanto realmente desideriamo: questo è un vero ritorno a casa. E’ la fondazione delle radici profonde e salde nella propria casa.

Sia Gretel che Vassilissa indossano un grembiule bianco, questo mi fa pensare al significato di questo elemento, al destino fornito ad entrambe: quello di servire, di accudire, pulire, acconsentire, obbedire! Fin da piccole le bambine, culturalmente hanno già il loro destino segnato, nello stesso modo i bambini devono ingegnarsi, trovare strategie di sopravvivenza. Alla fine della storia però, il grembiule di Gretel è pieno di ricchezze, Vassilissa riporta il fuoco a casa, quasi a voler ricordare che la femminilità può essere servile o creativa, dipende dal viaggio che si riesce a compiere, da quelle scelte di vita fondamentali, dal coraggio che esibiamo a noi stessi.

Entrambe le storie, Hänsel e Gretel e Vassilissa, parlano di una partenza, di un viaggio (che non è una fuga) ed un ritorno al punto di partenza, un ritorno con un bagaglio diverso, con un salto di consapevolezza, compiuto grazie all’esperienza diretta con la vita e con la morte, con le parti più accettabili di noi (acquiescenza, sorriso, adattamento) e con quelle oscure e spiacevoli (avidità, usurpazione, menzogna, rabbia, paura, ecc.).

Sempre in questa direzione mi viene in mente l’intenso film “Cigno Nero”. Anche in questo caso come nella storia Vassilissa, ci troviamo di fronte a due elementi del femminile, ma se vogliamo possiamo allargarlo a tutto il genere umano, quello buono, accondiscendente, sorridente, mite (il cigno bianco) e quello che esce dagli schemi, animalesco, brusco, sincero fino a diventare tagliente, essenziale, in contatto con la vita pulsante (il cigno nero).

Si badi bene, la Baba Jaga non è crudele, ma è in contatto con la natura, con le cose per quello che sono e che potrebbero essere grazie al potere della trasformazione personale. Siamo di fronte a qualcosa che orripila ma risana, che sembra cattivo ma guarisce, la strada del ritorno appunto. Così il cigno nero, che appare così  spregiudicato e amorale, è solo il grano toccato dalla ruggine, che usato con sapienza diventa farmaco.

Nel film Cigno Nero la logica è meno sibillina e più esplicita, la ballerina scelta per impersonare questo doppio ruolo del cigno bianco e del cigno nero nella rappresentazione “Il lago dei cigni”, si ritrova a dover scovare nel profondo di sé, con mezzi anche bruschi e brutali, la parte assassina, quella che è disposta ad uccidere un elemento di sé, che è disposta a fare un salto nel vuoto, a godere di questa parte oscura e sconosciuta, per poter volare con le ali nere del mistero e della trasmutazione con immenso piacere. Perché il cigno (un altro uccello) sia veramente completo, sia pronto a volare via, deve lasciare che la parte ingenua, infantile, delicata, protetta fino allo sfinimento, la parte che aspira alla perfezione ceda il posto ad una parte più totale, capace di prendersi la propria esistenza, di scegliere sulla propria pelle a rischio della vita, andare nel mondo ed osare, credere in sé.

La madre buona deve  morire perché è quella che tiene anacronisticamente ancora nel lettino, infiocchettati con l’orsacchiotto, induce un desiderio e poi ne nega l’espletamento perché vorrebbe per amore, parare ogni colpo della vita, che lei non è riuscita a parare per sé. Alla fin fine, la madre buona svaluta perché non crede fino in fondo alle risorse dei figli, non li lascia andare, non li lascia scegliere e sbagliare, si appropria della loro vita, perché lei in questo ruolo non può fare a meno di loro.

Non a caso nella storia di Hänsel e Gretel, i bambini sono spinti fuori casa, dalla cattiva madre (matrigna), in realtà la madre originaria, la buona madre che nutre incondizionatamente, ma che adesso indossa abiti esigenti, fa i conti, si sente deprivata e mette di fronte all’oralità avida. Lei sacrifica totalmente sé ed esige un sacrificio analogo. In Vassilissa, la Baba Jaga non regala nulla, è esigente, pretende di non rimetterci niente, desidera una reciprocità, uno scambio ed un impegno, una costanza in termini personali, la fiducia in una saggezza interna, la capacità di parlare e stare zitti, di lavorare e stare fermi, di andare dov’è necessario. Nel film la ballerina viene accompagnata da un’altra collega in questa sua ricerca, senza insegnamenti o percorsi certi, aprendo unicamente la strada inconscia della passionalità, della vita, dello sbalordimento, della ribellione, della scoperta e dell’esibizione s-vergognata, deprivata dal pudore infantile ed ingenuo.

Ricollegando queste figure femminili, possiamo dire che la “madre-donna carina” che vive unicamente in funzione di, si dedicherà in modo abnorme e totale, sottraendo così all’altro la libertà di scegliere e di vivere. Mentre la “madre-donna strega” che vive riappropriandosi anche delle proprie risorse, passioni, interessi, si contenderà lo spazio, pretenderà delle domande e delle risposte, una relazione di reciproca responsabilità, fornendo la fiducia nelle proprie capacità e risorse. Alla fine la madre buona non è così totalmente buona e quella cattiva non è totalmente cattiva. In Hänsel e Gretel e in Cigno Nero infatti, la madre buona diventa matrigna, mentre in Vassilissa la strega diventa madre generosa, commisurata e giusta.

Nel film, la madre della protagonista, spinge da sempre la figlia verso quel percorso che lei non è riuscita a portare a termine, ballare, ma, non sopportando il confronto, la sconfitta, la frustrazione personale e la perdita dell’unico ruolo posseduto, sul più bello la sabota ingozzandola di dolci seduttivi, simbolo del suo amore, impedendole la vita e la scelta. Anche la strega di Hansel e Gretel offre loro per cena latte caldo, miele e noci, richiamando il ruolo di una madre nutriente, dolce, protettiva, in definitiva di una buona madre, che però il giorno seguente li tradisce e li imprigiona, esattamente come nel film. Si rimarca l’altra faccia della medaglia, il rimanere impigliati nelle maglie dell’accoglienza, del lusso e del nutrimento gratuito. Diventare attori della propria vita è un passaggio forte, disorientante e pauroso, ma ridona potere e vita.

Dopo tutto questo percorso, dopo aver superato la folta selva selvatica, dopo aver scelto bivi ad ogni incrocio, dopo essere sopravvissuti al selvaggio e alle proprie angosce profonde, dopo aver imparato a discernere ciò che è bene e ciò che non lo è per noi, allora è possibile tornare a casa, un luogo uguale a come lo si è lasciato, ma diverso nei nostri occhi e nel modo in cui lo affrontiamo, ormai capaci di dissezionarlo in elementi costruttivi e distruttivi, nel grano buono e cattivo, negli elementi amorosi e invidiosi. Il percorso non elimina certe parti di sé, le rende più chiare, consapevoli, dà un peso diverso ai singoli elementi, fornendo il percorso interno di un costante e rigoroso riassestamento della psiche, delle abitudini, delle relazioni, degli affetti.

Ad un certo punto, partire è necessario, è richiesto dalla vita, è un naturale processo per cercare la propria luce, il fuoco che ci riscalda e ci alimenta. Fuggire comporta la perdita inesorabile della strada del ritorno, lasciandoci incatenati all’ombra che ci attanaglia.

Può succedere che le persone viaggino senza sapere dove stiano andando e cosa stiano facendo, percorrono semplicemente un circuito predeterminato ad occhi chiusi, pensano che uscendo di casa, costruendo una propria casa, una propria indipendenza economica, conquistando la libertà decisione, costruendo una propria famiglia, abbiano compiuto il percorso naturale degli eventi. Non è così, perché non è una scelta, né un desiderio ma un binario scelto da altri e quindi subito. Non è una partenza, ma un vicolo cieco.

Per poter partire è necessario rendersi conto del punto di partenza, di quanto ci spinge, di cosa ci spinge, di cosa desideriamo ottenere (che non sempre coincide con ciò che otterremo, nel bene e nel male), di cosa ci manca e di ciò di cui ci vogliamo sbarazzare. E’ un viaggio alla ricerca di sé e conduce necessariamente in qualche meandro del nostro mondo.

E’ un viaggio coraggioso nella terra dei titani, ma chi sarà valoroso tornerà con la luce.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

    Bettelheim B. (1977). Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Milano, Saggi Feltrinelli.

Bourbeau L. (2002). Le cinque ferite e come guarirle. Torino, Edizioni Armita.

Costantini  S. “ Internet, quale realtà?” 16/04/08, www.vertici.com

Costantini  S. “Video Giochi: una dipendenza nascosta”, 30/06/09. www.psiconline.it

Costantini S.“Mamma mi compri i coniglietti suicidi?”, 23/02/09 www.nienteansia.it

Darren Aronofsky (regista). Cigno Nero. Attori protagonisti: Portman Natalie, Mila Kunis. 2010, Gen. Dram.

Estés C.P. (1993). Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna Selvaggia. Piacenza, Frassinelli.

Grimm J., Grimm W. (1951). Fiabe. Torino, Enaudi.

        

 

 

 

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20 gennaio 2012 5 20 /01 /gennaio /2012 14:26
          Poesia di Hialmare Soderberg

 

 

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Tutti vogliamo essere amati,

se questo non accade, essere ammirati,

se questo non accade, essere temuti,

se questo non accade, essere odiati e disprezzati.

 

Vogliamo risvegliare un’emozione

nell’altro, quale che sia.

L’anima rabbrividisce davanti al vuoto

E cerca il contatto a qualsiasi prezzo.

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16 gennaio 2012 1 16 /01 /gennaio /2012 15:14

CAPITOLO VI

 

Filo verde

 

 

Se rivedo noi due insieme come allora, ci vedo d’estate, nel periodo caldo, nel periodo di più grande libertà.

Noi due a giocare con la terra, nell’orto a far finta di piantare ortaggi, ad annaffiare, scavare, riempire, raccogliere verdure. Che bello, che giornate calde, lunghe, rinfrescate dall’acqua del secchio la sera, illuminate dalle lucciole notturne, rallegrate dal rimpiattino del dopo cena mentre i grandi parlavano a capannello, riuniti tutti fuori. C’erano tante persone di tutte le età, parole, chiacchiere, era un mondo libero, pieno di gioco, risate, scoperte. Che bello veramente!

Non c’era la scuola con la sua tortura, con i doveri, i compiti, i continui rimproveri, i continui “non va bene”, che arrivavano da ogni dove. Uffffff.

D’estate no, eri libera da tutto questo. Eravamo libere tutte e due ed è per questo che eravamo felici, felici e libere di andare, volare come uccellini. E allora più che in ogni altro momento eravamo insieme, sì io non dovevo fare tutta quella fatica di farti rigare diritta, di farti studiare, fare e farti fare le cose che “dovevamo”.

E d’altra parte tu, non dovevi sempre sentirti incalzare da sera a mane, sentirti ordinare, indicare, disapprovare, rimproverare, spingere, svalutare. La vita non era così tanto programmata, in quei momenti.

L’estate, almeno per un po’ è stato un periodo veramente libero, veramente felice, insieme. Insieme, finalmente, leggiadramente  insieme io e te bambina. E a buon ragione, che divertimento! Noi due ne abbiamo combinate di tutti i colori.

Ci vedo ancora correre felici all’impazzata con quella biciclettina verde, che nostro padre ci vietava di prestare agli altri e che puntualmente tu, non riuscivi a fare. Lui non l’ha mai capito, del resto non te l’ha mai chiesto il perché. Continuava a dirti di non prestarla a nessuno con l’indice puntato che suonava come una minaccia, altrimenti si sarebbe rotta. Ma tu la prestavi ugualmente, non per fargli dispetto o per disubbidire, ma semplicemente e unicamente perché non riuscivi a dire di no, non riuscivi a vietare agli altri questa tua importante biciclettina. Tu piccola, non sentivi di aver diritto a dire di no. Ma lui non l’ha mai capito e ogni volta che tu la prestavi, sicura del fatto che non era nei dintorni e non poteva vederti, puntualmente venivi smentita, non si sa come e dove fosse, ma c’era e ti aveva visto. Tu non l’avevi visto, ma lui sì e la sera te ne rendevi conto!

Ma a cosa serviva? Qualunque la conseguenza, non cambiava le cose, tu continuavi a prestarla, ogni volta che te la chiedevano, vivevi un profondo conflitto, c’erano le parole di tuo padre che risuonavano tremendamente in te, c’era quel gran NO, ma era un no che tu non riuscivi a pronunciare e c’era quella richiesta che a te suonava come un imperativo, una pretesa ….. così a discapito di tutto e tutti, usciva fuori un SI.

Ma del resto a che serviva? Cosa ti portavano via? Tu volavi comunque, andavi, correvi, eri allegra e piena di energia. Tu non perdevi nulla di te, tu rimanevi ciò che eri. E lui ti dava un carico che non ti spettava e che tu piccola, non sapevi gestire.

Correvi a piedi, in bici e ogni tanto non si sa come finivi in terra, ti ritrovavi lì, con i ginocchi sbucciati e doloranti, andavi a casa, ti rimproveravano, ti medicavano, ti rimbrottavano e via verso nuove avventure.

Che dolci giornate, che tempo soave. Un tempo che pure non aveva confine, andava veloce come te su quella biciclettina verde, mia cara.

Ma ora che ci penso, anche la tua ciambella era verde. Forse dello stesso verde. Ma non è che eri pazza del verde, neanche lo odiavi, ma non lo amavi alla follia, eppure avevi così tante cose verdi. Chissà, perché.

Di fatto anche la ciambella, non so se fosse una tartaruga o cos’altro, era verde ed era la tua ancora di salvezza, era importantissima. E ogni volta che andavi al mare, continuavi a chiedere insistentemente a tua madre se aveva portato la tua ciambella. Chiedevi e richiedevi per tutto il tragitto, perché l’idea che non l’avessero portata ti angosciava tantissimo e le sue risposte, il suo sì, non riuscivano a rassicurarti. Chiedevi e chiedevi infinite volte, fino allo sfinimento, perché non ti davano la risposta corretta.

Il suo sì, diventava sempre più pesante e angosciato, perché quella domanda incompresa appesantiva e snervava. Non si voleva comprendere che quella era l’unica ancora di salvezza in un vasto mare, in un mondo che non sembrava fatto per te. Senza, non avresti potuto avvicinarti al mare, non potevi proprio, non riuscivi a scorrazzare nell’acqua libera, come facevi in terra.

Quel sì, non era una rassicurazione alle mille domande che ci stavano sotto. “Posso andare?” “Riuscirò” “Non sprofonderò?” “Ci siete?” “Mi sostenete?” “Mi salverete?” “Mi posso fidare?” ……………

Era un’affermazione solo rispetto all’azione di aver portato la ciambella e niente più. Niente più. E tu continuavi a formulare quella domanda, perché ad ogni sì, la tua angoscia non si placava, anzi forse i dubbi si accrescevano.

Ed in virtù del tuo legame con essa, al legame sviluppatosi, continuavano a dirti di stare attenta a come la usavi, a dove l’appoggiavi, dovevi trattarla con cura, fare tanta attenzione, tenerne di conto, altrimenti si sarebbe bucata e dopo non c’era più!

Che angosciosa possibilità. Per fortuna i bambini dimenticano velocemente, altrimenti ne saresti stata annientata. Saresti annegata alla sola idea di forare la tua ciambella e di non averla più! Saresti annegata per l’angoscia!

E forse è proprio per questo, per questo grande valore di vita, per il valore emotivo, di sollievo, di salvezza, che si è stabilito questo grande amore e legame con altre tre tartarughe.

Con una tartaruga di pezza, comprata all’estero durante una visita importante, ma evidentemente pesante. Una bella tartaruga grande, gialla e verde chiaro, era semplice, non aveva effetti speciali, materiali innovativi, suoni o cose particolari, ma a te non importava, non era quello di cui avevi bisogno. L’hai custodita per tanti tanti anni nella tua camera. Inconsapevolmente continuava a rappresentare una ciambella, un’ancora di salvezza anche quando ormai sapevi nuotare, si fa per dire.

Probabilmente in quel luogo straniero, avevi avuto bisogno di una ciambella che ti salvasse da un disagio sconosciuto ma pressante, che ti portasse via dal vomito e dalla morte, dal rifiuto di qualcosa di posticcio e falso, da legami complessi e faldoni di altre generazioni.

E ha continuato a salvarti tacitamente, per tanti anni ancora. Non faceva nulla, se ne stava lì vicino al tuo letto, ma tu provavi per lei un affetto incomprensibile, privo di fondamenta, apparente. Ti bastava che stesse lì. Non volevi che si spostasse o si toccasse, doveva stare esattamente lì, vicino al tuo letto, sul tappeto e successivamente su quella poltroncina gialla ocra, regalatati da una vicina, così tanto amorosa con te.

La seconda tartaruga che ricordo è una piccola tartaruga di acqua dolce, tanto desiderata, regalata da un caro zio. Questa era verde scuro ed era molto arzilla, per giunta si mangiava degli enormi pezzi di carne cruda, altro che mangime per tartarughe, aveva ragione quella roba era veramente puzzolente. Una volta si era attaccata persino al pelo di un tappeto rosso, ho sempre pensato che l’avesse scambiato per carne!

Era una gran forza Pucetta, era sopravvissuta veramente molti anni, fino a che un giorno durante la passeggiatina giornaliera fuori dall’acqua, era scappata via e non l’abbiamo mai ritrovata. Qualche giorno dopo i bimbi vicini, quelli a cui non dovevo dare la bicicletta, mostrarono magicamente di avere una tartaruga, ma io non avevo diritto a dire no e neanche a chiedere, tantomeno a pretendere.

E così è andata.

Non c’era una grande interazione anche con lei, era lì nella sua vaschetta, mangiava, dormiva, ad una certa ora la facevamo uscire a camminare per tutta casa, le piaceva molto era una gran camminatrice, la prendevo un po’ in mano ma niente di più!

Eppure era rassicurante averla lì, sapere che c’era, passavi e la vedevi.

C’era anche con lei un legame silente, ma importante e viscerale. Incomprensibile direi, ma fondamentale, vitale, tenace.

Quando se n’è andata non hai detto una parola, ma ha lasciato un vuoto che non riuscivi a comprendere, a descrivere e alla fine ne hai avuta un’altra e poi un’altra ancora, ma non è stato più uguale, la prima è quella che ha lasciato il segno. E poi Pucetta, la prima era veramente unica e speciale, nessun’altra tartaruga ha più avuto la sua vitalità.

La terza tartaruga, tenendo fuori dal conto la ciambella tartaruga, era un libro: Luca Tortuga. Era un libro regalatoti da tuo padre, uno dei pochi doni ricevuti in assoluto, non solo da lui ma dal mondo intero.

Non ricordi bene di cosa parlasse, ma il protagonista era una tartaruga-moschettiere, molto valorosa, con la spada sguainata si faceva giustizia. Aveva il guscio verde scuro e chiaro a scacchi alternati e poi un cappello con una piuma voluminosa. Non amavi molto leggere mia piccina, ma ti piaceva infinitamente guardare le figure e quel libro ti piaceva molto, veramente molto.

Era nuovo, ancora perfettamente nuovo dopo un po’ che ti era stato regalato. E non perché tu non lo sfogliassi, ma perché ti avevano insistentemente ripetuto di trattarlo bene, di non sciuparlo, che era costato denaro, che le cose si rispettano e via dicendo.

Insomma, dopo un bel po’ di volte visto e rivisto, Luca Tortuga era ancora come il primo giorno, bello, colorato, nuovo, la copertina perfetta. C’eri veramente affezionata e forse ora capisci il perché, ora io ne capisco il perché. Tu lo sapevi, ero io che non lo comprendevo. Lì c’era un’altra salvatrice, un’altra tartaruga con la spada che si faceva giustizia. Dei fogli in cui immergersi per non annegare, per non soccombere alle lunghe giornate invernali, alla noia e alla pesantezza, all’incomprensione e alla solitudine più totale.

Queste quattro tartarughe insomma, la ciambella tartaruga, la tartaruga di stoffa, la piccola tartaruga di acqua dolce, Luca Tortuga, rappresentavano l’ancora di salvezza rispetto al mare profondo, pieno di pericoli e di richieste incolmabili per te piccola, rispetto ad una selva pericolosa, violenta e denigrante, rispetto ad un mondo pieno di noia e di cecità. Erano ciambelle rassicuranti. Con loro, saresti stata al sicuro. Quieta, almeno per un po’, almeno in parte!

Erano importantissime per te e questo i grandi lo avevano ben capito, non capivano perché ma sapevano che non dovevano toccarle, dovevano rispettarle con reverenza e così era.

Proprio per questo, per la loro grande rilevanza nella tua vita hai deciso di regalarne una, Luca Tortuga, proprio perché così importante. Un regalo deve essere veramente un regalo, deve essere qualcosa che ha valore, significativo, altrimenti non ha senso, è uno scarto, un ripiego. Questo tu pensavi. Io non so da dove ti fosse venuta fuori questa convinzione, in fin dei conti eri piccola, ma ce l’avevi, era un giglio prezioso lasciato a sé stesso.

Ricordo che eri in terza elementare o giù di lì, c’era stato il terremoto in Friuli e la maestra chiese di portare oggetti di ogni tipo, anche usati, penne, fogli, quaderni, astucci, libri, qualunque cosa fosse possibile regalare ai bambini del terremoto. Pensasti e ripensasti, non avevi molti oggetti e dovendo immaginare qualcosa di importante per te, ti venne subito in mente quel libro, quello che in quel momento rappresentava una delle tue ancore di salvezza. Solo regalando un oggetto così significativo, tu sentivi di aver veramente donato qualcosa ad un altro bimbo come te, un bambino sfortunato, deprivato, depredato e triste.

Chiedesti il permesso, tua madre volle sapere se eri veramente convinta, ricordandoti che dopo non l’avresti più avuto. Non ci furono dubbi e l’hai mandato, l’hai deposto delicatamente in quello scatolone indirizzato ai tanti bambini del terremoto, allo scopo di allietare le loro giornate.

Hai salutato Luca Tortuga col pensiero. C’hai messo tutto il tuo amore e l’hai donato.

Ogni tanto c’hai ripensato, hai ripensato a quel libro, non ti sei mai pentita. Hai pensato spesso, hai immaginato, sognato, ti sei chiesta a chi sarà andata la tua tartaruga Luca, chi era quel bimbo o quella bimba. Certo, sarebbe un miracolo se un giorno tu incontrassi proprio quel bambino, sarebbe veramente un miracolo, sarebbe proprio bello. Che strano, conoscere, vedere quel bambino a cui è arrivata quella tua ancora di salvezza.

L’adulta di noi, negli anni ha anche ventilato l’ipotesi che per qualche motivo, quello scatolone ed il libro non sia mai arrivati, se ne sente tante, di imbrogli di ogni tipo, aiuti umanitari non pervenuti. Ma no, tu non c’hai mai voluto credere, non ci puoi credere, non puoi pensare che quel tuo sacrificio sia stato vano, che nessun bambino abbia potuto averlo. Sarebbe troppo!

Spero tanto, che questo tuo grande dono sia servito ad alleviare le giornate tristi di qualcuno, che lo abbia aiutato a traghettare in quell’infanzia difficile, in quel mare in tempesta. Solo questo spero per te, mia piccina.

Questa serie di ricordi mi aiutano a comprenderti meglio mia piccina, a recuperare e ad ammatassare un filo che sembrava assente, invece c’è, è significativo e lega gli eventi, dandogli un valore. Ora so perché, hai tanto amato le tartarughe! Ora vedo un filo verde, che lega tanti significati della tua infanzia.

E chissà chi ti ha salvato, chi o cosa ti ha fatto veramente volare!

Sono partita ricordando le scorrazzate e poi, accompagnata da un colore sono arrivata ben oltre. Quanti ricordi, quante immagini! Sembravano perse, dimenticate e ce ne sono molte altre.

Ma dopo tutto questo mostrare, dopo tutti questi patti e alleanze, dopo i buoni propositi, ci sono delle cose da ricordare, rimembrare lucidamente, esplicitamente, fotogrammi significanti da menzionare, pieni di colori di ogni sorta.

Oltremodo, urgono scuse importanti da fare.

Delle scuse, sì. Tu mia piccina, ne hai subite di cose, di provocazioni, di umiliazioni, dimenticanze, ferite, torti e chissà quant’altro. Hai subito e ti sei trovata troppo spesso schiacciata inesorabilmente.

Non solo dall’esterno, ma dall’interno. Da me, verso me. La parte che doveva rispettarti, proteggerti, sostenerti, amarti, non l’ha fatto! No, quella parte non l’ha fatto, non ti ha protetto al pari di quelli che intorno a te, dovevano amarti, difenderti, crescerti, insegnarti, appoggiarti, vederti, rivalutarti ………….

Tu cara mia piccola sei rimasta lì, da sola. Da sola contro tutti e tutto, contro il mondo, contro il re, la regina, il regno, le regole reali. Tu principessina, alla fine hai dovuto inesplicabilmente piegarti.

Continuavi a ricevere rimproveri e disapprovazione. Non c’era spazio per altro. Dovevi solo piegarti. Cambiare, cambiare esattamente come dicevano loro, fare esattamente ciò che ti dicevano di fare, dire esattamente le parole che dovevi dire, comportarti come prescriveva il codice familiare e sociale, mostrarti per come il mondo richiedeva. Recitare una parte decisa da altri, senza l’intervento di alcuna tua volontà.

Non c’era spazio per te! Non poteva essere accettato altro.

Tutto ciò che mostravi, non era adeguato, non era tollerato. Non poteva essere. Era inappropriato, non faceva parte di questo mondo! Che stai facendo? Ma che scemenze ti saltano in mente? Ne pensi una più del diavolo! Non ci dormi la notte, per studiarle!

E ti hanno insegnato loro, a stare al mondo! Loro del resto lo sanno, non tu che non sai nulla di come vanno le cose. Lo hanno fatto proprio bene. Il fine giustificava i mezzi. E che fine! Che alto fine, un impegno amorevole, pedagogicamente impegnato, d’infinito valore!

Ti hanno mentita, raggirata, direzionata, strattonata, spintonata, indotta, piegata, trasformata, illusa, svuotata. Un bel risultato! Hanno fatto un bel lavoro. Anzi, abbiamo fatto un bel lavoro! C’è proprio da esserne fieri.

Sì, nel momento in cui ho permesso che tutto ciò accadesse, io l’ho fatto con loro, sono stata loro complice, alle tue spalle, ho fatto il voltafaccia proprio con te, la persona più debole e indifesa. Ma non per questo, la più insignificante, non per questo quella da cambiare, non per questo la sbagliata! Eri solo la più indifesa, la più piccola, l’ultima arrivata.

Tu non eri sbagliata, tu non sei sbagliata, sei solo te stessa. Diversa, energica, allegra, giocosa, triste, umile, spavalda, narcisista, sognatrice, poeta, sentimentale, lagnosa, lacrimosa, dispettosa, invadente, appiccichettosa, mite, dolce:

una bambina! Una gran forza della natura! Una bambina!

E allora? Che c’era di male in tutto questo?

Proprio un bel niente, un bel niente. Ma in questo niente, abbiamo visto mille cose, mille ragioni per lavorarci su, per trasformarle, per negare una realtà indiscutibile e vera: te, con tutta la tua dolcezza e l’innocenza.

Mia piccola bambina! Povera vittima di tutto questo carneficio, di questa brutalità, di un livore insensato, di un’ostinazione e di una ruspa demolitrice, devastatrice. Povera, mia piccola cara bambina indifesa. Che scempio.

E allora, è arrivato il momento di chiederti umilmente e sentitamente scusa. Scusa per tutte quelle volte che ti ho lasciata da sola, scusa per averti deriso, per aver permesso che ti deridessero, per averti umiliata, ridicolizzata, svalutata, messa da parte, per non averti difesa e sostenuta di fronte al mondo. Scusa per averti dimenticata, per averti abbandonata in un angolo, per essermi vergognata di te, per averti umiliata profondamente nel tuo essere, per aver tradito quella fiducia che riponevi incondizionatamente in me.

Scusa, scusa, scusa. Ti chiedo umilmente scusa.

Ci sono tante cose di cui vorrei chiederti scusa, tante cose che ricordo, che vorrei farmi perdonare, che vorrei discutere con te, che vorrei narrarti ancora, con la luce della comprensione e dell’accettazione. Vorrei poter spalmare un balsamo magicamente invisibile e dolce su tutte quelle ferite, così profonde e inosservate. Così dimenticate e non viste, ma pesantemente doloranti e dolorose fino allo spasmo, alla compressione, all’implosione di te.

Scusa per tutte le cose fatte e per quelle non fatte, mia dolcezza. Scusa per il tempo che ti ho negato e rinnegato. Scusa per non averti sorretto, per non essere andata nel mondo con te.

Io, che sono la più razionale delle due, l’adulta, la forte, quella che aveva cognizione di causa dovevo proteggere te, quella fragile, emotiva, affettiva, la bambina! Non ho compreso allora. Oggi però comprendo e ti chiedo umilmente scusa. Spero anche di poter rimediare e di poter fare un pezzo di strada insieme!

Spero proprio che tu riesca ancora a volare alto. Spero proprio che possa restituirti le tue ali, mia cara.

Già, le tue ali ……..

Ricordo molto bene le tue ali di angelo, argentate e pelose. Ci tenevi tanto, le amavi più di te stessa. Ti avevano accompagnata a quelle recite di Natale, l’unico momento speciale dell’anno, era un breve momento ma tu eri veramente felice, eri libera di volare, di far volare via le note nell’aria, di essere.

Libera, libera, libera, libera di essere, volante e farfalleggiante.

Non c’era nessuno. Tanta gente intorno, ma per te non c’era nessuno. Non era dei plausi che t’importava. Quello era il tuo spazio, il tuo tempo, uno spazio di veramente libero movimento. Lassù potevi essere, sentire di essere. Certo con un copione, eppure eri lo stesso, in quel contesto era legittimo che ci fosse un copione e comunque nessuno t’imponeva rigidamente di osservarlo.

Lì, a cantare con quello scenario, fra palme, deserto, sassi e dune, sotto un cielo stellato, fra sogni e viaggi, volando lontano da lì, volando nel corpo, con il corpo, lì eri. Uno splendore, un incanto stregato, un dolce viaggio, un sogno d’inverno.

Quelle ali, erano state la prima cosa bella che avevi mai ricevuto! Da non credere, te le avevano regalate! Senza chiedere niente in cambio. Da non credere proprio! A te, proprio a te, anche a te!

Che meraviglia, con queste si può davvero volare, con queste ci si trasforma davvero in angeli. Qualcuno credeva davvero, che tu potessi essere un angelo! Qualcuno che credeva in te, che ti vedeva! C’erano ali per te, come per tutti i tuoi compagni e potevi portarle a casa.

Eri senza parole. La gratitudine ti esplodeva dentro, chissà se qualcuno l’ha vista, se è trapelata in qualche modo, non hai trovato neanche una parola, neanche un gesto, eri bloccata dall’incredulità e dalla gioia.

Certo che quelle ali, erano veramente importanti per te! Un tesoro, la cosa più preziosa che avevi mai conosciuto, il volo!

Le avevi messe da parte e fuori dalla recita non osavi neanche toccarle, per il timore si sciupassero, le guardavi da lontano, sapevi che erano lì, in un posto sicuro nella tua casa e nel tuo cuore.

Avevi chiesto, implorato, pianto, pur che non venissero buttate via. L’hai chiesto e implorato più volte e per un po’ ha funzionato, ma alla fine l’hai chiesto ma non c’è stato rispetto.

Per un po’ sei riuscita a tenerle per te e poi un giorno, le hai cercate e non c’erano più! Erano state buttate! A discapito della tua ripetuta richiesta, a dispetto di tutto quello che rappresentavano per te! Buttate via!

Tu non ci potevi credere. Ma non è uscita neanche una parola, non una domanda, non un’espressione, non un insulto, non una protesta, non una lacrima. Nulla. Attonitamente desolata e annientata in ogni volontà, in ogni diritto d’esistenza.

Il tuo mondo è stato schiacciato inesorabilmente in un attimo, ignorato e buttato via con quelle ali. Non hai più potuto volare, non più per molti, molti anni! Sei rimasta a terra, schiacciata come un verme, l’ultimo essere schifosamente insignificante di questa terra.

Tu, dopo il silenzio incredulo hai mostrato un flebile lamento ed infinita tristezza, una desolazione indefinibile. Ma a che è servito? Nessuno ti ha difeso e ha lottato per te, con te! A che servivano? Le recite non c’erano più e allora? Perché tenerle? Erano inutili e ingombranti. S’impolveravano e basta. Ma poi, quante storie, cosa dovevi farci?

Schiacciata a terra come un verme, schiacciata e sotterrata, infossata senza remore. Non potevi certo volare più!

Ma, tu non ti sei mai arresa, neanche dentro l’antro più buio e disperato. Non so perché non ti sei arresa, non so da dove hai trovato la forza, non so dove hai trovato la fiducia per credere in te! Davvero non lo so, non riesco neanche ad immaginarlo.

Alla fine dopo tanti anni e tanti sforzi hai ripreso a volare, a sognare, a sollevarti timidamente da terra. Ti è costato tanto, hai penato, hai dolorato, hai pianto e poi pianto e pianto tutto il veleno e il sangue possibile, il dolore più pesante e nascosto di te. Ed ecco che i sogni sono tornati, ti sei alzata ancora da terra e hai sentito una leggerezza e un sollievo mai vissuti prima. Aprivi le braccia al mondo e questo veniva da te, senza rischi, pericoli o pesantezze. Le braccia si erano trasformate in arti pennuti, erano tornate ad essere nuovamente ali.

E proprio dopo che tu, hai ripreso a volare, le ali da fata sono tornate, ali da angioletto colorate, brillantinose, impalpabili, leggere, trasparenti, magiche. Tue e solo tue!

Eccole! Custodite gelosamente e segretamente, questa volta non scapperanno più, questa volta nessuno potrà mai portarle via, io farò in modo che questo non accada in alcun modo, che tu lo creda o no, mio angioletto! Questa volta veglierò su te e su quelle ali mia piccina, stanne certa.

Che dire poi di quella volta in cui sei stata messa in punizione, per aver trasgredito un divieto che non avevi capito, che si erano ben guardati da spiegarti! L’hai trasgredito perché non lo capivi e ti vietava qualcosa d’importante per te!

E proprio mentre eri in punizione, il tuo cucciolo se n’è andato, quando se lo sono venuti a prendere, perché è stato regalato senza chiederti il permesso, hai chiesto di poterlo salutare, ma ti è stato duramente negato, senza neanche una spiegazione.

Era bianca a macchie marroni, dolce e affettuosa, tirava sempre giù i pantaloni di tuo fratello. Arrivata in una cesta, inaspettata, aveva allietato tutti con infinita allegria. Al rientro in casa, salutava tutti con grande gioia, era lì ad attendervi. Lei era veramente contenta di ritrovarti, voleva giocare senza fine, non si stancava mai, non aveva altre cose da fare, non chiedeva di stare zitti, buoni, di non combinare guai, di studiare, di ….. mille altre cose ancora.

Lei era se stessa, punto e basta, senza troppi fronzoli o mediazioni. In fin dei conti non chiedeva molto, era piccola anche lei, era affettuosa, era dolce. Un’altra bambina.

Era il tuo cucciolo, il primo della tua vita e solo per far piacere ad un bimbo sfortunato, ti è stato portato via, senza rispetto, senza considerazione, senza consultazione! Con ingiustizia ingiustificabile!

Quel bambino stava peggio di te e siccome nel vedere la tua cucciola aveva detto semplicemente “bellina”, allora si doveva fare così. Ma lui non aveva detto niente, forse non gli è stato neanche chiesto se la voleva o meno, gli è stata regalata e basta, quasi per alleggerirsi del senso di colpa di avere dei figli sani, per gestire qualcosa che non si sapeva gestire in altro modo, per acquietare un sentire intollerabile.

E’ vero che lui era stato veramente sfortunato, ma quest’altra ingiustizia non gli avrebbe restituito la vita persa, nè le gambe per correre. E sicuramente, non si ripara ad una ingiustizia con un’altra ingiustizia!

Ma, dovendoti anche tu sentire in colpa perché eri sana, non hai potuto dir nulla. Eri confusa, smarrita e addolorata, sì eri sana, ma non ti andava di regalare la tua cagnolina. Prima te l’hanno regalata, allietandoti la vita, poi con la stessa improvvisorietà te l’hanno portata via. Come un fulmine a ciel sereno, è entrata ed è uscita dalla tua vita. Molto velocemente, troppo velocemente e nel mezzo c’eri tu.

E’ stato breve, molto breve, ma nel frattempo è nato un amore, un legame. Una gioia che si rinnovava, si alimentava. Ma a quanto pare, chi è fortunato di avere tutto a posto, non deve chiedere altro, non ha diritto di prelazione, deve solo stare zitto.

Hai accettato quel verdetto, quel furto, senza dire alcunché, senza muovere una foglia. Più che accettato, si può dire che hai ingoiato, hai buttato giù un boccone arciamaro, hai sottaciuto quella condanna, colluso con quel furto.

Le parole te le avevano già portate via, molto tempo prima. Non so, dove si fossero fermate, dove si incagliavano, se nella bocca, nella gola o ancora prima. Sì, credo proprio che non c’arrivavano proprio alla gola. Non c’arrivavano più. Si bloccavano molto prima, forse proprio sul punto di essere pensate, messe insieme. Quando le lettere cominciano a staccarsi dal mucchio, per formare una parola e poi ancora un’altra, un’altra e poi la frase. Tutto questo non avveniva neanche. Guardavi le lettere un po’ in attesa e sospesa, ma queste rimanevano lì, nel mucchio, senza staccarsi minimamente e allora silenzio!

Forse l’unica parola che riusciva timidamente a crearsi, a staccarsi da quel mucchio era “Perché?” Perché, perché, perché, perché!!!!

Una parola che girava in testa all’infinito, ma rimaneva lì, senza posa, senza misura, mai uscita di lì. O forse sì, qualche volta è anche uscita, ma senza nessuna differenza.

Perché no! La risposta più esplicativa che ti veniva fornita. Perché no!

Per cui, ha preferito rimanere lì a girare invano nella tua testa come su una giostra che non si ferma mai.

Non c’era spazio per le tue parole, non c’erano i tuoi diritti, tu non esistevi. Nessuno ti ha chiesto il permesso di darla via, nessuno ti ha dato il permesso, l’opportunità, ti ha riconosciuto il diritto di salutarla.

Niente ti apparteneva davvero, non avevi diritti su niente e su nessuno. Tu non avevi diritti. Eri un niente!

La cosa più assurda, il dolore più lancinante e incredulo è stato successivo, quando hai saputo che quel tuo cucciolo dopo poco era stato abbandonato, lasciato per strada, per un motivo banale! Probabilmente avevano trovato una scusa per liberarsene, del resto non l’avevano mica chiesta loro!

Ma ci crederete?

C’hai dovuto rinunciare, per farlo poi abbandonare. Il bambino sfortunato, era veramente sfortunato, non per l’incidente che gli aveva tranciato le gambe, ma per il grave incaglio capitatogli alla nascita, per essere capitato in una famiglia di mostri!

E non so chi dei due è il più brutalmente sfortunato! Se la sana o il malato! Chi sarà stato il più disgraziato? Mma …… chissà!

Poi c’è stato l’episodio della tromba! Che smacco terribile! Che schifo! Da non credersi. E’ anche difficile raccontarlo.

E’ successo tutto nell’ambiguità, nell’indefinitezza, nel far passare con cura ciò che si vuole …….

E di fatto, non l’hai neanche capito subito. Hai accettato, credendo fosse la cosa migliore, un affare, la soluzione più adatta a tutti, a te per primo.

In quel momento eri altrove, lontano, eri fuggito più lontano possibile, eri fisicamente distante e la tua attenzione era rivolta altrove, non potevi minimamente immaginare come sarebbero andate le cose. Non sapevi che un giorno sarebbe affiorata la frase risentita e ribelle, velenosamente sputata quasi inavvertitamente “Mi hanno venduto la tromba! Mia madre, mi ha venduto la tromba!”

Forse, a quella richiesta avevi risposto vagamente “Va bene”, avevi acconsentito debolmente e inconsapevolmente. Avevi acconsentito, proprio per il senso colpa, sì eri in colpa di essere voluto andare via lontano, di non aver più tollerato di stare lì, di averli abbandonati. E allora, a discapito di quello che volevi veramente, di quello che sentivi, hai ceduto senza sforzo, senza rimostranze, hai accettato questo e mille patti ancora.

L’avevi comprata quasi per gioco, avevi sentito quella frase “io vendo la tromba, se sapete qualcuno che la vuol acquistare …..” “Io. La prendo io!”

Hai stupito tutti, ma proprio tutti, forse anche te stesso. Era qualcosa che forse ti girava in testa da un po’, ma non aveva ancora trovato una sua collocazione e ora che si presentava l’occasione, non te lo sei fatto dire due volte, con tutto l’entusiasmo e l’improvvisatorietà tipica dei bambini, avevi visto materializzarsi questa idea, questo sogno etereo e l’avevi colta al volo.

“Io, io, la voglio io la tromba.”

Che stupore, che apertura, che gioia, un mondo davanti a te! Il tuo mondo!

C’avevi messo un gran impegno, andavi a lezione, facevi i tuoi esercizi, con costanza e sforzo, giorno dopo giorno e poi ancora a lezione, ad impegnarsi, studiare. Ti sembrava che forse anche tu, avresti potuto arrivare ad una meta, avere il tuo strumento da suonare, far uscire la tua musica, le note del tuo mondo.

Avevi anche comprato la pelle di daino per pulirla meglio, con dolcezza e rispetto, ti prendevi amorevolmente cura di lei! Che grassa soddisfazione! Eri proprio bravo, mio piccino, piccolo pulcino.

Ma nessuno lo capiva in torno a te. Anzi, continuavano a canzonarti e maltrattarti, eri solo un disturbo, con quei suoni inutili e sgraziati. Rumore, rumore, rumore, solo rumore che infastidisce. Non ne possiamo più! Smettila di tormentarci, per amor del cielo!

Imperterrito, continuavi senza darti per vinto, senza farti abbattere, senza permettere a niente e a nessuno di farti smorzare nell’impegno e nel desiderio, in apparenza almeno …….

In realtà, un terreno che continua a ricevere inondazioni, apparentemente tiene, poi quando meno te lo aspetti sprofonda giù, lasciando un vuoto mai pensato, che ti porta via senza che neanche sai cosa sia realmente capitato. Hai pensato, che ci fosse stato un grande evento, una calamità, ma no, era soltanto il frutto di quella goccia, che cadeva da anni, che batteva sempre lì, goccia dopo goccia, giorno dopo giorno, con costanza, allo sfinimento, all’erosione, al cedimento definitivo. Una goccia che si alimentava e si appesantiva attraverso il senso di colpa, il non diritto di scelta, la non autonomia, il bisogno, il senso di inadeguatezza e di non appartenenza.

Anche se il terreno si inzuppava, tu hai tenuto, hai tenuto e tenuto finché sei stato lì. Quando poi la vita ti ha portato altrove, lontano da lì, la tromba è rimasta in mani nemiche, incustodita e indifesa. Non l’hanno certo lustrata, né guardata di buon occhio, ma l’hanno vista come un buon affare, un’opportunità di guadagno e di bravura, di mercanteggiamento.

Mentre eri via, un giorno ti è stato chiesto se volevi venderla, c’era giusto una persona interessata ad acquistarla, era proprio un vero affare, non poteva essercene di meglio! Che ne dici? Si fa? E’ una buona cosa no?

Tu, nella lontananza da quel luogo, dalla tua tromba e da te stesso, con voce leggera, priva di peso e di pensiero hai detto “Si!”.

Hai dato l’assenso. Hai detto Sì! Non ci si può credere, eppure hai pensato che fosse la soluzione migliore per tutti, te compreso.

Ma chi ci crede?

Tu lo pensavi. Chissà perché lo pensavi! Tu non pensavi, ecco perché!

Tu, non avevi il diritto di pensare, perché tanto c’era chi pensava per te, meglio di te, dovevi solo appoggiarti, affidarti, lasciar pensare gli altri e lasciar fare, ubbidire ed eseguire quanto ti avevano ordinato. Come un perfetto soldatino dovevi eseguire gli ordini e niente più. E del resto era quello che eri andavo a fare tanto lontano, avevi cambiato il luogo ma non la funzione.

Ma tu non lo sapevi, non sapevi tutto questo. Avvertivi solo il peso, che alla lunga si caricava sulle tue spalle, avvertivi solo una distanza che annusava di libertà. Libertà! Libertà, che tu non avevi diritto di avere. Non ti sbagliare, non confondere mio piccolo topolino!

Che bella parola, Libertà! Stavi lontano, ma non eri libero di scegliere, non eri libero di tenerti le tue cose, il tuo mondo interno non cantava note udibili, non potevi veramente urlare niente. La possibilità di fare come desideravi era solo apparente e si ritorceva contro di te!

Te la sei presa molto tempo dopo, la libertà. Hai cominciato ad intravederla quando hai sentito quel sottile astio pungente che ti solleticava, ti tormentava e saltava sadicamente fuori nel pronunciare “Mi hanno venduto la tromba”.

Non sapevi neanche tu perché uscissero quelle parole, che cosa volessero dire, ma qualche nota risuonava in un eco lontano, nell’ignoto di un passato nebuloso.

Erano le note della libertà e del diritto. Note che ti ricordavano che c’era musica dentro di te, che stava cominciando ad emergere timidamente, che hanno stroncato sul nascere.

Tanto tu non saresti mai stato un fiore alto, bello e giallo come il sole! Tanto vale, che smettessi subito, che ti risparmiassi la fatica! Te lo dicevano solo per il tuo bene! Guarda, è veramente meglio così, ci puoi credere.

Ma ….. forse in realtà, loro non si sentivano dei gran bravi guardiani dei fiori e allora, preferivano farti essere un semplice fiore qualunque, almeno avrebbero saputo gestirti, eri alla loro portata! Così facevi parte del loro orto, ciò che conoscevano meglio e più facilmente.

Quella tromba l’avevi pagata da solo, l’avevi voluta, saltellando dall’entusiasmo, la curavi come un gioiello, non avevi chiesto niente a nessuno, ma a qualcuno dava noia lo stesso. Te l’hanno dovuta vendere, hanno dovuto cercare l’affare e la convenienza anche lì. Come se nient’altro esistesse, come se contasse solo il denaro!

Denaro e soddisfazione personale. Sì, perché ancora una volta tua madre, aveva dimostrato che era stata un’abile affarista, una vera commerciante. Ah, se solo ne avesse avuto l’opportunità, ah se solo le avessero permesso di fare, se non le avessero tolto le possibilità ai suoi tempi, chissà cosa avrebbe potuto fare! Tutti sogni infranti tristemente!

E in ogni angolo c’era un affare, un’opportunità di dimostrare cosa il mondo avesse perso, cosa lei aveva perso, cosa le avevano tolto. Anche a discapito degli altri, compreso dei propri figli, in fondo lo scopo giustifica i mezzi.

Quando c’è una ferita, deve essere lenita in tutti i modi, costi quel che costi!

E tu, caro piccolo bambino sei rimasto lì, a leccare le sue ferite. Ma le tue, chi l’ha leccate? Chi mai le leccherà? Chi mai si accorgerà che tu stai crollando, che quel terreno così impregnato di gocce, di lacrime dopo lacrime mai piante, un giorno cederà?

Neanche tu lo sapevi, ma avevi capito molto presto che non c’era spazio per te, per la tua libertà, per la tua personale melodia. Potevi solo fuggire. E del resto avevi iniziato ad andartene già a tre mesi.

Fuggire, per ricominciare e poi ricominciare e ricominciare. Ripartire con un altro amore, con un’altra amicizia, con un’altra famiglia, con un altro lavoro. Fuggire e ricominciare, fuggire e ricominciare, senza neanche capire perché, pensando semplicemente di essere scostante, di non saper mantenere un impegno, di non saperselo gustare, di non saper stare fermo.

Ti sei preso delle belle colpe anche lì!

Ma è realmente così? Eri veramente incapace di intelletto, di solidità, di affidabilità e costanza? Eri veramente pieno di una passione che si appassisce voracemente, come un fiore sotto il sole? O forse erano solo mille modi per ribellarti, per rinnovare ogni volta la ricerca di te stesso? O forse era solo l’inaccettabilità di quel destino ingrato, di quel copione propinato subdolamente?

E … poi un giorno, quando meno te lo aspettavi, quando quel bambino non se lo ricordava quasi più, è tornata, quella tromba è tornata da te, a ridarti quel diritto che mai più nessuno potrà sottrarti, né con la forza, né con la lusinga.

So, che tu piccolo bambino saltellante te la tieni stretta sta volta e non la lascerai più andar via, costi quel che costi! Finalmente è nuovamente fra le tue braccia e la musica si scatena in te, senza chiedere il permesso a nessuno, senza scusarti con niente e nessuno.

Non c’è colpa alcuna!

C’è un mondo che ti aspetta a braccia aperte, c’è un cielo che solcherai ancora ma anche una terra in cui stare e radicarsi saldamente.

Penso che di scuse ce ne siano tante da fare. Penso che di bambini con cui scusarsi ce ne siano altrettanti ………

Torti a dismisura e atti privi di senso, ne è pieno il mondo! Ciascuno di voi ne sa qualcosa!

 


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9 gennaio 2012 1 09 /01 /gennaio /2012 13:50

CAPITOLO V

 

Denti Neri

 

 

 

Poco tempo fa, ho conosciuto un nuovo dentista da cui ho curato un paio di denti. Questo dentista mi ha sconvolta con una proposta inattesa, sapete quale?  Sbiancare i miei denti.

Voi vi chiederete perché, questa innocua proposta mi abbia sconvolta così tanto, che cosa possa esserci di strano in quelle parole.

A questo ci arriviamo.

Io invece, mi sono chiesta perché mai nessun dentista, me lo avesse proposto prima! Perché mai la proposta giungesse proprio ora.

Non ho mai visto i miei denti bianchi, sono giallognoli tendenti al grigio e non per fumo, alcool, caffè, ecc., ma perché a sei mesi mi hanno somministrato del cortisone per curare una tosse canina ed i miei denti hanno abbandonato il loro antico splendore, anzi a dire il vero sono stati intaccati proprio sul nascere, o meglio ancora prima che ciò si verificasse, sono stati predestinati assai presto.

Me ne sono sempre vergognata, come se fosse un’onta della mia anima, una macchia indelebile, un difetto che andasse al di là della zona fisica, di ciò che realmente era, come se rappresentasse una mia incapacità, un handicap!

In fin dei conti quando ti presenti a qualcuno, la prima cosa che fai è aprire bocca, per parlare e per sorridere, per accogliere. E la mia presentazione è con queste macchie, con questi colori terribili. Non una bella presentazione!

E di fatti, non ho mai riso a pieni denti, ma ho sempre solo sorriso, stando ben attenta a non aprire troppo la bocca. Adesso, ormai da anni lo faccio automaticamente senza controllarlo, ormai è diventato una parte di me, del mio modo di esprimermi, del mio carattere, della mia personalità, è quasi entrato nel DNA e ho quasi timore di averlo trasmesso alle mie figlie!

Insomma, non rido mai con naturalezza! Nascondo il mio sorriso.

Ho provato mille polveri, dentifrici e rimedi naturali, come la salvia, ma niente è valso tanto sacrificio ed impegno, il loro colore non si è mai minimamente scalfito!

Oltretutto, sono l’unica in famiglia ad averli così! Sono una mosca nera!

Ops! Forse dovrei dire, una mosca bianca! Ma nel bianco non mi ci vedo. Di fatto, tutte le mosche sono nere! Un lapsus significativo direi!

Di fatto, che io sia una mosca bianca o nera, i miei denti sono neri e improvvisamente, quando meno me lo aspettavo, qualcuno mi propone di sbiancarli e neanche ad un prezzo così elevato: si può fare! Si può veramente fare! Non l’avrei mai pensato!

Finalmente, anche io potrò ridere a pieni denti, a bocca aperta, spalancata. Ridere, ridere, ridere, senza dovermi trattenere insensatamente.

Si può fare, è possibile, posso non vergognarmene più! Posso finalmente abbandonare questo strisciante senso di vergogna. Un vero sollievo, una liberazione. Liberazione lieve e imponente da un carico pesante che non ho scelto, non ho meritato, ma c’è e pesa fortemente su tutti i miei giorni passati.

Dopo questa proposta, nella mia testa è scontato che lo farò! Non ho dubbio alcuno.

I miei pensieri girano intorno a questo nuovo evento. Si è aperta nella mia vita, una grande possibilità! Una possibilità inaspettata! L’impossibile è possibile. Che forza! Che sorpresa!

La mia mente, non riesce neanche bene a focalizzarlo, a comprenderlo, a visualizzarlo con effettiva chiarezza. E’ un evento mai pensato fino ad ora e ancora non ha parole e immagini per descriverlo.

Ho passato giorni e giorni a pensarci, a fantasticare, a cercare di definire e vedermi con questo grande cambiamento, a cercare di intuire come mi sarei sentita, quali mutamenti emotivi poteva suscitare in me, quali risposte.

Cosa sarei diventata? In cosa, mi sarei trasformata? Cosa mi sarebbe capitato?

Pare banale, ma non lo è. Per più di quarant’anni ho pensato di essere in un certo modo, di essere indelebilmente marchiata da un dato elemento, di possedere dei confini invalicabili e ora improvvisamente in un modo impensabile, da una persona appena conosciuta, senza grandi reverenze, arriva un ma e un se, sepolti da tempo immemore. E’ caduto un velo, si è aperta una porta, si è spalancato un mondo che non credevo più esistesse. Ha fatto capolino un possibile cambiamento, che io pensavo non potesse verificarsi. Ormai mi vedevo fissa in quell’immagine, in quel ruolo. Tutto questo mi ha stupita, meravigliata, disorientata, sconvolta oserei dire.

Ma come? E allora, fino ad ora cosa mi hanno dato a bere? Cosa mi hanno fatto credere? Perché mai non mi hanno dato chance?

In verità, nessuno mi ha mentito. Nessuno mi ha detto niente. Nessuno mi ha detto una cosa per un’altra. Però il fatto è che nessuno mi ha detto ciò che poteva essere, ciò che poteva cambiare. E’ stato alluso, che probabilmente non si poteva fare altro, che ormai il dado era tratto, che il bosco è pericoloso e quindi è meglio mettersi l’anima in pace. Senza lode né infamia!

Forse. In verità, l’allusione ed il silenzio, la mancata ammissione della propria ignoranza, infliggono più danni della ferita mortale, sferrata apertamente e visibilmente. Grazie a tutto questo si sono sepolte davanti a me, dentro di me, delle strade, delle alternative, delle possibili scelte.

Ma la vita è strana, quando meno te l’aspetti, quando ormai non ci pensi più, quando ormai si era sepolta quell’idea, quella possibilità, ti restituisce ciò che ti è stato portato via, quanto meno ti offre l’opportunità di andare a riprendertelo.

In un personaggio, così esterno ed estemporaneo, in un curatore di denti e non certo dell’anima, è arrivato il riscatto, la possibilità, il possibile cambiamento, ma soprattutto lo svelamento di una realtà sommersa.

E se questo mondo si dispiega in me, con me, davanti a me, dipinto sui miei denti, sul mio sorriso ….. mi sono anche chiesta se gli altri se ne sarebbero accorti. Se i miei denti cambieranno, gli altri che mi conoscono, che mi vedono ogni giorno o quasi, lo vedranno?

Sicuramente sì. E chissà cosa direbbero o anche solo cosa penserebbero.

Mi sono chiesta, chissà cosa avrebbero pensato di me! Ma anche, chissà cosa io avrei pensato di me!

Dopo lo spiegamento di questa immensa possibilità, hanno cominciato a girarmi in testa delle domande, sempre di più, sempre più insistenti e vorticose.

Quanto sarebbe durato l’effetto? Avrei dovuto, continuare a farlo? Ne sarei stata schiava? Alla lunga forse, mi sarei stufata di continuare a mascherare. Questo trattamento, ha effetti collaterali a lungo termine?

Solo ora mi rendevo conto di aver accolto la notizia di questa possibilità, senza fare delle domande concrete, realistiche ed esplicative, per cui mi ero lasciata sola con mille dubbi, perplessità e interrogativi. E mi sono ripromessa di colmarli e avvicinarmi ancora di più all’evento, anche attraverso conoscenza e consapevolezza.

E così è stato, dopo aver girato e rigirato nella mia testa questa possibilità, mille immagini, sogni e fantasie sul passato e sul futuro, sugli ipotetici effetti, sui risultati, sui commenti, sulle emozioni, dopo aver indugiato largamente, alla fine ho formulato i miei quesiti e ho ottenuto le mie risposte richieste.

C’ho pensato ancora e poi ancora, incomprensibilmente direi, almeno lì per lì. Ho anche programmato l’evento nella mia mente, in termini di tempi, costi, impegni. Ero felice e sollevata.

Ma forse non del tutto, sotto sotto non ero né così felice né così sollevata. Non lo capivo molto, non volevo crederlo, eppure …. man mano che passavano i giorni, questo proposito, questo sogno perdeva peso e svelava la sua natura. Alla fine, non era proprio ciò che sembrava e ciò che volevo credere.

E sapete una cosa: non l’ho fatto! Non ho sbiancato i miei denti!

Dopo il primo grande stupore ed entusiasmo, provocatomi da me medesima alla notizia, dopo tutto questo rimuginare, ricordare, pensare, programmare, sognare, mi sono detta che forse non lo volevo più fare. No.

Anzi, se devo andare al fondo delle cose, non l’avevo mai voluto. Non era ciò che desideravo veramente. Non ora almeno. Forse da bambina sì, da ragazzina, quando cercavo l’origine della mia diversità  ed il luogo del possibile e del cambiamento, forse allora lo avrei fatto davvero, forse. Forse li avrei sbiancati tanti anni fa, quando nessuno me lo aveva proposto, quando il bisogno di abbellire la presentazione di me era forte, quando la necessità di sentirmi accettata era stringente. Adesso non è più così importante, non ho più bisogno di mostrare denti bianchi.

Un tempo forse lo avrei fatto, ma adesso, di sicuro no! Ormai è da tempo che sono andata al fondo di me, che sono arrivata nel bosco buio e frondoso e sono tornata indietro accompagnata dal Gruffalò.

Posso solo ringraziare questi miei denti neri. Sembra assurdo vero? Dopo tutta la lagna che ho fatto fino a qui!

Ma ve lo immaginate, che schifo, avere denti neri! Manca la brillantezza e la lucidità nel sorriso nella presentazione di sé, nel primo impatto! Blee!

Ma intanto, grazie a questi denti e a questa proposta, mi sono riappropriata di una parte di me, di un vuoto, di una mancanza, di una vergogna di me, che continuavo a subire senza rendermene neanche più conto. Subivo qualcosa di invisibile, perché ormai parte integrante di me! La vergogna, dettava un sentire permanente, facendo intravedere una condizione di fondo orripilante, una visione menomata di me, ormai invisibilmente e inconsapevolmente intessuta nella mia psiche e nel sentire quotidiano.

In tutti questi anni e per tutti questi anni, si è creata un’equivalenza fra denti neri e vergogna di me! E’ assurdo, ma è andata proprio così.

Poi, alla fine, non è certo sbiancando i denti che smetterò di vergognarmi, non è attraverso una pitturatina esterna, che cambia il sentire della mia anima.

Sbiancarli è solo un modo diverso di nasconderli. Loro rimangono ciò che sono.

E poi ……… Anche con i denti più splendenti, la sensazione di avere qualcosa di nero e di marcio, non cambierebbe certo!

Per dirla tutta, quel dentista mi ha anche fatto sapere che avrei potuto ricostruire la parte mancante dell’incisivo, che ho lì proprio di fronte a me, uno dei due principali, che si vedono proprio nel momento in cui si apre la bocca.

E come non ho voluto sbiancare i denti del loro colore, non ho voluto ricostruire neanche la parte mancante di quell’importante dente che incide sui cibi, su ciò che entra ma anche su ciò che esce, sulle parole per esempio.

Sapete perché? Perché quel pezzettino s’è rotto, s’è sgretolato grazia allo stringere i denti, al digrignare di notte, al bruxismo insomma. E anche questo segno è ben visibile, è proprio di fonte a me e non può essere ignorato.

Ho provato molta vergogna e ho stretto molto i denti nella mia vita e perché mai dovrei nascondere tutto questo? Forse è bene dirlo, dichiararlo a bocca aperta, denunciarlo ben chiaro e forte, perché ognuno abbia ciò che gli spetta e niente più.

Non voglio nascondere quel marcio, non più, mai più.

Mi sono detta che devo andare a scoperchiare quel marcio, dargli aria, vedere quel che c’è, pulire e rinnovare ciò che non va più bene! Pulire la ferita e farla guarire.

E allora andiamo a vederla questa ferita, allarghiamo i lembi della pelle e mettiamo il dito proprio nella carne viva, dove il sangue pulsa forte e senza sosta, dove c’è l’infezione ed il combattimento per la guarigione, per la vita. E’ là che nasce la vita, che c’è vita!

A sei mesi sono stata marchiata indelebilmente, esattamente come i tatuaggi degli animali da allevamento: il mio tatuaggio sta lì stampato in faccia, dentro la mia bocca e mi fa vergognare di me.

Perché? Perché mai?

Perché mi fa sentire diversa, come se ci fosse qualcosa di non sano, di non pulito, che si manifesta con i denti, che io non posso mostrare e mi tarpa proprio nella gioia, nel piacere, nella felicità. Posso sorridere, non ridere!

E del resto, nella mia mente sovente riecheggia “Ride bene, chi ride ultimo!” Come a rimarcare che è meglio non ridere, che quasi c’ho guadagnato, perché se capita qualcosa, non avranno da rimproverarmi che ho riso quando non me lo potevo permettere. Quasi quasi questa mia onta, mi ha salvata dalla maldicenza e dallo svergognamento!

Non si può ridere, si osa troppo, si rischia, poi il fallimento ti mette alla berlina, ti fa apparire stupido, ti mette in ridicolo, ti annienta e ti rende ultimo degli ultimi. E’ meglio apparire misurati e saggi, non traboccare mai, non andare troppo oltre, non farsi vedere insomma.

Non si può volare troppo alti, bisogna stare a terra, così non si rischia di cadere, né di mostrarsi troppo, né di sbagliare. Si deve stare nell’ombra, senza debiti, senza dicerie, ma anche senza gioia, senza vitalità, senza movimento, senza libertà! Senza osare mai!

No, non ci si può mostrare, non ci si può presentare direttamente per ciò che si è, si deve mediare, diplomatizzare, corteggiare, sedurre in modo sottile ed intelligente, in modo elegante. Oltretutto, non lo si fa direttamente per noi, ma per noi attraverso gli altri, con delicatezza ed educazione estrema, senza disturbare troppo, in punta di piedi, sottovoce e chiedendo scusa, l’unica vera strada accettabile, ammissibile e forse anche ammirabile.

E così, nessuno in effetti vedrà noi, ma solo l’ombra di noi, il riflesso della luna che tutto può indurre. Si vedrà il risultato di noi, la proiezione mascherata, ma non noi! Non ci siamo! Siamo dietro il pallore di una luna, dietro lo splendore di una facciata. Appariremo così grandi, potenti, intelligenti, forti, fieri, fiduciosi, competenti, apprezzabili, quando sotto siamo solo piccoli tremanti e indifesi, ignari e ignoranti di noi stessi. Forse gli altri non se ne accorgeranno ma noi sì, noi lo sappiamo bene e nel profondo di noi saremo sempre tremolanti e vacui.

Che tristezza! Desolazione.

Spesso, mi sono anche chiesta, se qualcuno se ne fosse accorto! Se qualcuno avesse notato che non ridevo a piena bocca.

Ma forse no, mi sono detta che proprio lo stare nell’ombra ha fatto sì che non ci fosse abbastanza luce per vedere e discernere i dettagli significativi. Nessuno ha visto, perché non mi sono mostrata. In questo gioco di luci ed ombre, in questo processo d’ignoranza reciproca, nessuno ha mostrato, nessuno ha visto.

Ma di fatto che l’abbiano visto o no, i miei denti sono neri ed io lo so. Io non posso nascondermi a me stessa, non posso raggirarmi.

Questa condizione suona come una colpa. Eppure io non ho fatto nulla, mi sono solo ammalata a sei mesi e hanno visto bene di marchiarmi! Il dentista ha capito subito che avevo preso anti-bios, da piccola! E’ un marchio appunto, tutti sanno che sono stata ammalata.

Ma la malattia del corpo è solo lo specchio, è solo la luce esterna. E’ di un’altra malattia che si parla, qualcosa di nascosto sotto l’opacità ed il buio che muove i fili di tutto questo teatrino.

Guarda caso, a sei mesi è proprio il momento in cui è morto mio nonno materno e mia madre non l’ha potuto salutare. Ne ha sofferto tantissimo! Ha sofferto in silenzio, ingoiando lacrime dolenti.

Allora mi chiedo se quei denti, non siano il segno del lutto.

Sì, del lutto. Prima ho barato, i miei denti non sono proprio giallognoli, sono più grigi che gialli, sono quasi neri in alcuni punti! Neri, il segno del lutto appunto.

Del resto, i denti sono il simbolo dell’aggressività e quindi della vitalità.

Me l’hanno tolta in partenza.

O meglio, c’hanno provato!

Evidentemente, la vita e la vitalità di un esserino appena venuto al mondo, era troppo discordante, dissonante rispetto alle noti gravi della depressione e della mancanza. Chi non c’era più, creava un vuoto che non riusciva a contenere chi invece c’era. Chi non c’era più, s’era portato via tante cose anche dei vivi. Delle possibilità importanti!

Quel piccolo esserino, che ero io, che si affacciava alla vita e ricordava un fiore che deve sbocciare, intravedeva e si accollava una colpa verso chi non poteva più spiegare le ali. Una vita scomoda, che richiamava tutto quanto era stato detto e non detto, fatto e non fatto, tutto ciò che non avrebbe avuto mai più possibilità alcuna.

Alla fine, il lutto non era il mio, ma di mia madre, ma questo lutto si è impresso su di me, quasi fosse una mia colpa, una mancanza, un’onta, ma non lo è. Sono stata l’ultimo anello della catena e ho somatizzato per loro!

Rappresentavo qualcosa di non permesso, almeno in quel momento. Ero nata esattamente nel momento sbagliato, rispetto all’andamento di una famiglia che aveva un suo ritmo e una sua assoluta logica.

Di fatto non è colpa di nessuno, non colpa mia, non colpa di mia madre, di mio nonno, di mia nonna, di nessuno. Non c’era colpa. Eppure, alla fine c’è una sorta di divieto inconsapevole alla vita, alla vita in senso pieno. C’era un vuoto, un’assenza, una mancata possibilità.

E ancora, s’insinua strisciando la biscia della paura e della vergogna, ancora della mancanza e dell’assenza. Un lutto. Qualcosa che non c’è.

Mentre racconto tutto ciò, una parte di me continua a ricordarmi di non dire queste vicende, questi segreti, di scriverli sì, così, ma poi di cancellarli immediatamente, di ricordarli solo a me stessa, come se dovessero continuare ad essere nascosti e segreti, sepolti dietro un morso serrato, dietro denti mostrati appena, solo intravisti e stretti al punto da non far uscire parola alcuna. Rinnovando ancora il senso di qualcosa che non va. Rimembrando che in quello che sto vivendo, si cela qualcosa di sbagliato.

Ancor di più, mostrarsi apertamente alla luce del sole, mi renderebbe visibile, limpida e chiara, esponendomi alla luce dei riflettori, rischiando di screditarmi, svilirmi. Ancora un peso, una dannazione, una colpa, qualcosa che deve essere nascosto!

Ancora una mancanza, una voragine. Non c’è spazio per dire e per mostrarsi, senza sbiancature, senza proiezioni luminose. E’ una vera vergogna!

Queste macchie, lo scuro, il nero, il pezzo mancante, mi spinge a tenere la bocca chiusa, a serrare i denti, evitando di sorridere ma anche di parlare, di dire a piena bocca, senza remore né reticenze, senza lasciare nulla nel dimenticatoio.

Perché mai? Che devo nascondere? Cosa non devo far sapere? Che colpa ho, io?

Forse ho la colpa di essere nata, ma anche qui …. non sono io che l’ho deciso!

Allora qual è la vera colpa?

Non so quale, sembra insensato, ma da qualche parte risuona una colpa, in un qualche angolo nascosto, esala il suo odore. Non ho nulla di cui vergognarmi, non ho nulla da nascondere, non c’è nulla di marcio, non c’è colpa. Non c’è da vergognarsi neanche delle mie macchie e della bruttura dei miei denti, che nonostante il colore, non hanno perso la loro vitalità e forza: li ho ancora tutti e ho poche carie!

Qualunque macchia mi hanno affibbiato, con consapevolezza o no, non è una colpa, non è niente di orripilante! E non è colpa mia!

La mia bocca poteva essere ancora più sana e vigorosa, mia nonna non è mai stata dal dentista e mio padre non ha neanche una carie. Aimè ho subito la perdita di mio nonno, la debolezza di una famiglia azzoppata, assai prima del lutto, dall’assenza di un perno fondamentale della famiglia! Questo li ha segnati e mi ha segnata indelebilmente.

Certo la mia bocca mi ricorda questo, se manca un pezzo nella nostra famiglia, noi zoppichiamo, manca comunque anche una parte di noi. Si crea un vuoto, si perdono le parole ed il sorriso. Si perde qualcosa, è inevitabile!

Esponiamo, mostriamo, misuriamo la perdita e conosceremo questa nostra mancanza. La verità libera sempre. La verità non ha vergogna e non deve temere alcunché. Fiorirà lo spazio per un nuovo andamento disinvolto, recuperando la scioltezza della parte lesa, reinvestendo gradualmente nella voragine, creando e costruendo ciò che sembrava inconcepibile.

Una bomba è esplosa proprio lì, al centro del mio mondo, nel cuore, nel fondamento della vita e ha lasciato dei segni indelebili. Ormai mi appartengono. Queste macchie, sono la mia ombra, ciò che mi riguarda nel profondo.

Ed essendo io l’ultimo anello della catena, ho anche ripetuto e la mia prima figlia è anche lei nata, sotto il segno del lutto. Quando è venuta ad allietarci con la sua presenza, mia madre era morta da un anno o poco più! Ho raddoppiato il tempo del lutto, ma la storia s’è ripetuta.

Ma io non le ho dato un anti-bios per curarla ed è stata spesso malata, nel primo anno e mezzo. Sicuramente nel mio latte non c’era solo miele, ma anche lacrime amare, ma la catena si ferma qui!

Non ci sono macchie che passeranno a lei. Non c’è silenzio, non c’è segreto e non c’è collusione, adesso non c’è più mistero fra me e nessun altro!

Sono stata terrorizzata dall’idea che chi mi guardava, vedesse di me solo una scatola vuota, che non ha più nulla da dare, nulla d’interessante o di utile da contenere. Di essere una pianta ormai così tanto assetata, da aver bisogno solo di essere reidratata. Ho temuto, che quelle macchie si rinnovassero e venissero ancora una volta alla luce.

Non più ormai!

C’è stata tristezza, dolore e lutto, ma questo fa parte della vita, è naturale ed è superabile, se ne può parlare ed è affrontabile. Il lutto si può mostrare, si può raccontare, non è una vergogna, è un evento doloroso della vita. La mancanza è naturale e fa parte di noi, è uno stimolo per noi.

In noi  c’è mancanza ed è la base del nostro desiderio e delle nostre relazioni.

Ogni mancanza, è una cosa propria e individuale, che ci distingue l’uno dall’altro. Appartiene alla propria storia e ci rende unici.

Adesso, non voglio più denti bianchi! Certo, nel fondo di me, una piccolissima parte di me, quella mia bambina, ancora sogna come sarebbe se avessi dei bellissimi denti scintillanti, uguali a tutti gli altri bimbi, soprattutto come sarebbe stato se li avessi avuti fin dall’inizio.

Quello che conta è che adesso è caduto un velo. So che se volessi potrei sbiancarli davvero, potrebbero essere come quelli di tutti gli altri. Almeno in apparenza.

Però, so anche che quei denti bianchi non mi appartengono, quelle macchie sì ormai fanno parte di me, mi sono state date e le ho prese. Ciò che non mi riguarda più è il loro peso, la vergogna e la menzogna!

Posso anche mostrare i miei denti, questo non mi toglierà niente, caso mai aggiungerà, darà al mio sorriso una peculiarità che mi appartiene, che non può essere cancellata.

Non è bello. Il mio sorriso non è bello, ma è questo e niente altro!

E’ il mio Gruffalò, la mia ombra nascosta che si è mostrata, che mi ha spaventata, mi ha bloccata, disorientata, ma ancora mi ha fatto pensare e sentire, ancora mi ha fatto trovare le risorse in me, quei tesori che un piccolo topolino non sa di avere, che scopre solo unicamente nel momento in cui affronterà il suo mostro.

Così che, un giorno potrò raccontare che il bosco buio e frondoso è difficile e pericoloso da attraversare, ci sono animali feroci, insidie in ogni dove, ma lo si può attraversare. Ce la si può fare.

Fa paura, ma insegna tante cose, aiuta a crescere come mai. Fa recuperare l’immagine distorta proiettata dalla luna, fa recuperare l’essere reale che c’è dietro. Mostra la vera selva che è dentro di noi e l’ardire possibile, creativo e sano.

Fa scaturire un patto, si rinuncia alla battaglia, si rinuncia alla corona e si diventa dottori volanti, in armonia e allegria.

Dal cappello del prestigiatore salteranno fuori una farfalla, una pantera, un falco, un coniglietto, uno scoiattolo …………..

Si può fare, si può attraversare il bosco buio e frondoso! Andiamo insieme!


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2 gennaio 2012 1 02 /01 /gennaio /2012 10:29

CAPITOLO IV

 

L’altra faccia della Paura

 

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Ci inoltreremo ancora nel bosco buio e frondoso (Il Gruffalò e la sua piccolina, J. Donaldons), lo stesso che abbiamo conosciuto grazie al topolino.

Questa volta però, ci troviamo a casa del Gruffalò, una caverna costellata da rappresentazioni rupestri, che descrivono graficamente la sua avventura di molto tempo fa, un’avventura difficilmente narrabile, colma di sorprese ed orrore.

Papà Gruffalò ammonisce la sua piccolina di non andare nel bosco, per loro è veramente pericoloso, tanto tempo fa lui c’è stato e ha incontrato il Topo Tremendo, che gli ha teso un agguato.

La piccina assai curiosa, vispa e sdentata, stringendo fra le braccia il suo balocco di legno, chiede fremente:

Che cosa ti ha fatto? Racconta, papà! E’ tanto brutto? Che faccia ha?

Il papà si siede, perché al solo pensiero gli gira la testa, si sente svenire, sì, oddio che terribile esperienza, sì perché quel topo

ha zampe forzute, possenti e pelose, la coda coperta di squame spinose, ha occhi di brace che brillano al buio e lunghi affilati baffi d’acciaio!

E dunque la notte era scura, il babbo russava la piccola invece un po’ si annoiava.

A me nessun topo ha mai fatto paura ….. Andrò all’avventura!

Il cielo era nero, la neve in tempesta, la piccola entrò nella fitta foresta.

Lei non ha paura, spavalda vuol andare a verificare oltre il divieto paterno, se esiste davvero il Topo Tremendo. Procedendo di notte, in mezzo alla neve e alla tempesta, incontra una scia tutta storta.

Chissà di chi è, chissà dove porta?

E, intravedendo qualcosa che avanza strisciano, pensa che possa essere la coda del Topo Tremendo, ma è solo un serpentello che ha gli occhi dolci e il musetto carino.

Il Topo l’ho visto, è un tipo assai tosto, mangia per cena gruffalò arrosto!

E la piccola dubbiosa, riprende il suo viaggio nel bosco frondoso, in mezzo alla notte e alla tempesta, arrestandosi alla vista di una traccia contorta.

Chissà di chi è e chissà dove porta?

Vedendo due occhi scintillare su un tronco, si dice

Il Topo Tremendo è lassù di sicuro!

Ma scende dal ramo una vecchia civetta, che un po’ sonnecchiando dichiara guardinga:

Se cerchi il Topo, dammi retta. L’ho visto da poco, è un tipo feroce mangia per cena gruffalò alla brace!

E ancora perplessa e delusa riparte per il bosco dai tanti alberi, senza paura e ……..

Oibò, che cos’è questa traccia strana? Chissà se porta dentro una tana? Ecco due baffi! Starà già dormendo, tranquillo e beato, il Topo Tremendo?

Ma è soltanto la volpe che noi conosciamo, con la coda rossiccia e senza neanche una spina sulla pelliccia.

Il Topo l’ho visto, dormiva da un po’, si è fatto un infuso di gruffalò!

Stufa e scocciata si siede su un sasso, lamentandosi che non ci crede, è solo un raggiro, non esiste nessun Topo Tremendo. Si stanno prendendo gioco di lei!

Finalmente, in quel paesaggio innevato, fra abeti imbiancati ed un cielo scuro, si trova finalmente davanti un bel topolino. E’ uscito dalla sua tana e ha costruito beffamente un pupazzo di neve, un bel gruffalò! Ma ci credereste? E’ anche insolente, questo topo.

Guarda guarda, che bello spuntino!

Io me lo mangio con pane e nutella, il Topo Tremendo è una sciocca storiella!

Ma il topolino, astuto più che mai, gli dice di aspettare, che un suo amico la vuol salutare, è grande e tremendo, abbia pazienza e lo vedrà, presto se ne accorgerà.

Il topo sale lesto su un ramo alto, con una ghianda sulla schiena e con un’espressione atroce, non appena la luna lo illumina, proietta in terra una terribile immagine:

una creatura possente e pelosa, coi baffi d’acciaio e la coda spinosa, grande e cattiva, con gli occhi di brace e sopra le spalle un’enorme noce.

Allora esiste il Gran Topo Tremendo!

Spaventata la piccina fugge nel bosco, tornando velocemente nella sua tana, dove il padre dorme ancora ignaro e beato, con i pipistrelli appesi a testa all’ingiù uno ad occhi chiusi uno ad occhi aperti.

Il topino, sotto lo sguardo curioso dello scoiattolo, segue quella grande traccia e ritrova la piccola nella grotta insieme al padre,

meno spavalda e meno annoiata.

Meglio dormire finché si può, nel caldo abbraccio di papà Gruffalò!

Ancora una volta, il topolino seduto su un sasso con aria giuliva e soddisfatta, si gusta la sua ghianda.

 

E adesso che abbiamo conosciuto meglio il Gruffalò ed il prosieguo della storia, ci troviamo davanti all’altra faccia della medaglia, la faccia della paura, che ha paura della paura.

Il mostro infatti, è la personificazione delle nostre paure, ma lui a sua volta, facendosi imbrogliare dal topolino, si spaventa di chi vive la paura di lui, di chi gli ha dato origine.

Non vi imbrogliate però, è solo un gioco di specchi!

E ancora una volta solo tu piccina, riesci ad essere fiduciosa e spavalda, al punto da voler guardare le cose non per come vengono dipinte dagli adulti, ma per come sono realmente. Tu, sapientemente, non credi a questa sciocca storiella, diventata ormai mito, disegno rupestre!

Tu soltanto sei capace di guardare il mondo con occhi semplici, privi di pregiudizi e di filtri. Tu sei la vera forza!

Ma aimè, ancora una volta il topolino vince e tu piccina, finisci per farti imbrogliare. Resisti alla proiezione della paura di tuo padre, alla proiezione della paura degli animali del bosco, ma non alla proiezione diretta del topo, alla sua ombra riflessa in terra, che in realtà non sei altro che tu stessa.

E’ un gioco di rimbalzi, di immagini riflesse appunto. Sembra complicato ma non lo è.

In verità, ancora ci facciamo fregare non da ciò che, è ma da ciò che pensiamo sia, da ciò che non desideriamo e rifuggiamo così clamorosamente, perché ci fa orrore.

Questa deliziosa storiella in rima, rappresenta ancora una volta la nostra ombra, ciò che non vogliamo di noi stessi, che non ci piace, che deprechiamo, che ci spaventa perché la deprezziamo e disprezziamo. Non desideriamo affatto ci appartenga, non l’accettiamo proprio!

Da veri ignoranti, da idioti completi, la fuggiamo solo perché non la conosciamo, non sappiamo né da dove origina, né di cosa si tratta, tanto meno la sua vera funzione, il suo valore e quanto sia adattiva per noi!

Da bravi adulti sapienti, o forse solo presuntuosi, ci vantiamo di saperne tanto, di avere la scienza in mano, di possedere esperienza, ma non è così, vediamo solo la superficie delle cose, la copertina, la patina più esterna. Non la conosciamo affatto. Non sappiamo proprio di cosa si tratta ed invece di cercare di comprenderla ed avvicinarla, la allontaniamo da noi ulteriormente, fisicamente, mentalmente, cognitivamente, emotivamente.

Se tu piccola, ignara di certi processi del mondo, fiduciosa all’eccesso dell’onestà degli altri, delle buone intenzioni, ti fossi fermata un po’ più ad osservare cosa veramente stavi guardando e da dove arrivava tutto questo, forse ti saresti accorta che ciò che vedevi era una proiezione, un film, un vecchio film che apparteneva a tuo padre. Sì, prima ancora che al topo, l’ombra apparteneva a tuo padre e se avessi avuto meno fiducia in lui, avresti seguito te stessa, quello che sentivi e credevi in partenza: che il Topo Tremendo è solo una sciocca storiella.

E’ a lui che appartiene quella paura, è originata dal suo mondo, dalla sua esperienza, dalla sua visione delle cose, dalla sua superficialità, dalla presunzione della sua posizione di forza, dal supposto sapere determinato dal suo ruolo di adulto.

Caro papà, sei stato un gran pasticcione! Che guai, con la tua piccolina.

Del resto, lei è lì perché ultimo anello della catena, la portatrice finale e visibile del disagio, del tuo orrore, del tuo buio, della pigrizia e dell’arroganza del tuo essere.

A lei spetta di liberare te padre, tuo padre prima di te e le generazioni a venire, dell’orrendo peso della paura. Sfida tutto e tutti, i tuoi racconti, le tue debolezze, il venir meno della tua forza, i disegni commemorativi di quell’incontro terribile, gli avvertimenti degli animaletti ammansuetiti, le raccomandazioni tremolanti.

Lei, la gruffalina, deve andare a verificare e vanificare quest’enorme peso e lo fa per liberare te!

E poverina, tu piccola ne sei rimasta schiacciata, sei ancora troppo piccola e sola! Il tuo coraggio e il tuo amore sono enormi, commoventi, riconoscenti, ma non sono valsi il sacrificio che hai compiuto. E’ toccato anche a te perire sotto l’alone della proiezione e ritornare di corsa a nasconderti, a farti proteggere da papà Gruffalò. Hai dovuto restringere il tuo mondo, la tua libertà d’azione, far proprie le raccomandazioni e i timori sconfinati.

Povera piccina, chissà mai se qualcuno se n’è accorto, chissà se hanno visto il sacrificio che hai fatto, se tuo padre ha visto il sacrificio compiuto per lui. Un sacrificio grande compiuto per lui, solo per lui, per l’amore che nutri nei suoi confronti, prima ancora che per te stessa.

Che spavalderia e che forza, mia piccola gruffalò, ne hai da vendere a tanti grandi e ne hai da insegnare! Con che cipiglio, con che arguzia, con quanta fiducia e propositività. Con quanto grande amore, ti muovi.

Ma ancora una volta, tu non lo sai, non sai di possedere tutto ciò e non puoi protestare contro chi non ti vede, contro chi non comprende l’ampiezza delle tue rinunce. Tu non sai, non sai di aver diritto a lamentarti, protestare, chiedere e pretendere.

Sì, tu puoi e devi pretendere delle cose per te!

Nell’aria c’è qualcosa che non ti torna, stona con tutto il resto, qualcosa che ti fa soffrire, ma non sai cos’è, non riesci a definirlo, non sai attribuirne un’origine. Non sai dove ti porterà! Non sai il prezzo di ciò che hai fatto. Non conosci i risvolti della tua rinuncia. Ti hanno imbrogliato. Tu non potevi e non dovevi fare quella scelta.

Il tuo destino piccola cara, è la dipendenza. Tu credi e crederai per molti anni a venire, di non essere capace di superare gli ostacoli da sola, di non poterti permettere di attraversare la foresta ombrosa, di non poter sfidare le tue paure, di non, di non, di non, di non …… non.

Alla fine crederai di non poter credere in te! Alla fine, non crederai più in te! Alla fine non crederai! Procederai con la testa sotto la sabbia, come una perfetta ignorante, che non vuol sapere d’altro, ingoia ogni boccone propinatole, buono o cattivo che sia, senza pronunciare una parola.

Che guaio!

Dovrai sempre far ricorso agli altri, dovrai sentirti bisognosa e terrorizzata dalla loro assenza, dal loro rifiuto, dall’abbandono. Sì l’abbandono, che bella arma di ricatto! Quante volte l’avrai subito e lo subirai?

Ma la cosa più tremenda, non è certo il Topo, ma il fatto che non potrai che dar loro ragione. Loro veramente sanno, cosa è buono e cosa no, cosa devi e cosa non devi fare. Loro, gli unici di cui fidarti!

E’ così! Del resto quando hai fatto la spavalda, quando hai fatto di testa tua, si sono visti i risultati, s’è visto cos’hai combinato.

Te lo sei meritato, ben ti sta! Credevi di esser capace di chissà cosa! Credevi di essere superiore, diversa! Hai visto ora? Sei convinta?

Hai sottovalutato le parole di tuo padre, gli ammonimenti, i divieti, le preoccupazioni e i consigli dei bravi animaletti del bosco. Hai veramente pensato di poterne fare a meno, di essere diversa tu! Tu piccolo mostriciattolo. Alla fine, hai avuto la giusta lezione, quello che ti spettava e niente più.

E per giunta, hai dimostrato a te e agli altri, che sei solo una sciocca bambina, impaurita e incapace! Adesso lo sanno tutti, proprio tutti.

Adesso tu lo sai, l’hai visto con i tuoi occhi, adesso non puoi più ribellarti, non puoi più credere di essere diversa, unica e speciale. Non puoi pretendere nulla! Devi solo ubbidire, piccola stupidina.

Lo sappiamo noi, quello che è meglio per te! Lo sappiamo noi, cosa sei in grado di fare e cosa no! Noi, ci siamo passati prima di te e i nostri genitori ci hanno sempre consigliato per il meglio e noi da bravi figli abbiamo ascoltato, seguito ciò che ci dicevano.

Devi fare e basta! Devi ubbidire. Ti devi fidare e niente altro. Non devi pensare con la tua testa, non ne sei in grado!

Alla fine, ti hanno annientato, annullato, azzerato nelle tue convinzioni, nella fiducia, nelle idee, nelle speranze e nei sogni.

Dovevano coltivare le tue risorse, far crescere giorno dopo giorno la fiducia in te, aiutarti a conoscere te stessa ed il mondo come un luogo del possibile, anziché ammonirti e spaventarti dovevano accompagnarti nel bosco e mostrarti che tutto si può affrontare, anche se ci sono tanti pericoli e paura. Dovevano camminare a fianco a te, stare con te!

Ed invece, hanno annientato gran parte delle infinite possibilità, ti hanno ridotto la vista, resa sorda, azzoppata, azzerata appunto, ridotta ai minimi termini, come un robot che segue gli ordini e niente più.

E chissà, se te ne rendi conto. Se comprendi la portata di quanto hai subito.

Penso proprio di sì! Ma è qualcosa di ancora vago e indifferenziato, è un sentire che sta nella nebbia e non si è ancora mostrato limpido e chiaro. E soprattutto, tu non sai di aver il diritto di accorgetene, di non volerlo, non sai di avere diritto a protestare, a lamentarti, a dire no, ad odiarli, a volere altro.

Tu hai pieno diritto a non sentirti in colpa, a non sentirti una traditrice, piccola gruffalina.

Tu non lo sai e non lo saprai, finché un giorno ormai grande, sarai costretta in mezzo al bosco, ad escogitare qualche strana alchimia per poter sopravvivere, in un ambiente di belve mal intenzionate. Allora, se riuscirai a recuperare un briciolo di quell’ardire, di quella spavalderia onesta e giusta, forse riuscirai lambicandoti a uscirne fuori, ridendo e scherzando, rinnovata e rinforzata come non mai.

Allora sì che sarà proprio un bel giorno, una bella giornata, una festa, una dolce vita. Ma prima di allora, dovrai attraversarlo il bosco. Dovrai trapassarlo per incontrare tutti i tuoi dubbi, i timori, i tremori, le ombre che si annidano silenziose nella tua anima, nella parte più recondita di te.

Dovrai vincere il tuo Gruffalò incarnato, diventando come il topolino furbo. Alla fine tu ti identificherai col topolino, ritroverai in te stessa, il tuo più acerrimo nemico, l’orrore di due generazioni, il sabotatore di sé stessi!

Alla fine Topo Tremendo e il topolino saranno la stessa cosa. Topolino e piccina di Gruffalò saranno ancora la stessa cosa, il bianco ed il nero, il buono ed il cattivo, il coraggioso e il codardo, la fiducia e la paura.

Ed il luogo più difficile da affrontare, non sarà il bosco, ma l’anticamera del bosco, la possibilità di entrare nel bosco: tuo padre!

Il Gruffalò grande, quello che ha paura del bosco buio e frondoso, del Topo Tremendo, delle novità, di ciò che non conosce, quello che ha paura di sé e delle sue possibilità, quello che non sa. Quello che continua ad ammonirti, ti rende zoppa e ceca di fronte al mondo, ti mette in guardia contro le difficoltà e le trappole della vita, tarpando gran parte della tua esplorazione, annientando i tuoi sogni di libertà e di gioia.

Lì è pericoloso, là ci sono difficoltà, in quel luogo non saresti capace, non è per noi,  attenta, vai piano, non ti fidare, non andare e via e via.

Un giorno sentirai di andare oltre quel mondo, di doverlo fare, non per ferirlo o disubbidilo, ma solo per te, per vivere, per sperimentare, per essere libera, per non avere più paura, per liberarti finalmente e alleggerirti.

Arrivato quel giorno, potrai attraversare il bosco e trovare te stessa, alla luce della luna, dell’atmosfera crepuscolare che tutto nasconde e svela.

E tu, grande Gruffalò, chissà se al risveglio di quella lunga notte, ti renderai conto di quanto è successo. Magari hai sognato di dolci spuntini, di tane calde, di una buona compagnia, assaporata con un infuso di bacche di macchia.

Tu hai dormito, anninnolato dal tuo stesso racconto, che ti ha condotto nel dolce sonno sicuro, fiero del tuo essere genitore, di aver protetto e istruito la tua piccina, dagli orrori del mondo, di essere tu per primo sfuggito tanto tempo fa a quel Topo Tremendo e a quella possibile triste sorte.

La ami tanto e faresti di tutto pur di non farla soffrire, pur di proteggerla e rassicurarla. Al risveglio, la ritrovi lì cucciolo cucciolo, accanto a te, sotto la tua ala, che dorme beata, stringendo il suo giocattolo in braccio. Con te, non può temere nulla, con te è al sicuro e crescerà grande, forte e intelligente. Lei sarà tutto ciò che hai desiderato, lei sarà migliore di te e di chiunque altro. Non può essere che così, è troppo l’amore e l’impegno profuso per lei, è veramente troppo, è tutta la tua vita!

Neanche ti sogni, quanto è successo nella notte! Tu dormivi, ma la tua piccolina, ha voluto liberarti, sfatando un mito. Ha voluto liberarsi! Ha voluto sapere di poter accedere al mondo, in modo sereno.

E l’ha fatto! Con grande coraggio è andata in contro al tuo e al suo destino. Ma povera piccola, non aveva chance perché era un compito che non spettava a lei, non da sola, non con ciò che le era stato trasmesso.

E tu dormendo e sognando lidi migliori, neanche ti immagini del viaggio di andata e di ritorno nel bosco frondoso, di tutti gli animali che ti hanno raggirato a suo tempo e oggi hanno raggirato lei, dell’agguato del Topo Tremendo, che in realtà è solo un topolino, ormai anche un po’ invecchiato, che cerca solo di tener cara la pelle.

Ma la tua piccina è andata con curiosità e brio, è tornata correndo spaventata, rifuggendo da ogni novità e inventiva. Ha sepolto dentro di sé ogni possibile diversità, ogni cambiamento, il seme della fiducia e della forza vitale.

Miei cari, che gran confusione!

Tu caro papà Gruffalò sei ignaro e soddisfatto, conservi la tua ombra dentro te e ti guardi bene da doverla incontrare ancora. Ti sei rifiutato di starle di fronte, di osservarla a tu per tu, senza volerla sbranare ed esserne sbranato, porgendole invece la mano, come fosse la tua più cara compagna di vita.

Forse tu stesso, ti sei trascinato un carico più grande di te, precedente a te, che appartiene ad altri, forse a tuo padre e a suo padre, prima di lui, in una catena infinita di rimandi e pesanti eredità.

Tu cara figlia Gruffalina, hai incontrato la sua e la tua ombra e sei corsa via spaventata a più non posso! Chissà quanta strada devi fare, chissà se in futuro, troverai la forza di scegliere quel bivio e volare!

Chissà quanto dolore e quanto terrore sono sepolti in te, senza che tu ne sei realmente consapevole. Che peccato.

E l’ombra è lì vicino, che guarda Gruffalò padre e figlia nel loro sonno, serena e felice si mangia la sua ghianda sul sasso, fra coniglietti, farfalle, falchi e scoiattoli!

 

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