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8 febbraio 2012 3 08 /02 /febbraio /2012 11:42

CAPITOLO VIII

 

Abbandoni

 

 

Si fa tanto clamore su certe sorti terribilmente avverse, su eventi che sembrano incredibili, azioni deprecabili che diventano inesorabilmente e tristemente notizie di cronaca, come nel caso di genitori che dimenticano in auto i propri figli sotto il sole.

Non ci si può proprio credere! Ma come? Ma com’è possibile? Come si può mai, un’atrocità del genere? Come può un genitore, arrivare a tanto?

Qualcuno, ha detto che non sono certo i primi né gli ultimi bambini lasciati sotto il sole: ha proprio ragione! Quante ne sono successe.

Tu piccolo lo sai, lo sai bene che è vero. Ti è capitato di essere lasciato in auto, com’è successo a tanti altri bambini, magari per ore, magari in compagnia dei fratelli e delle sorelle, così che non si sentissero troppo soli.

Tutto questo accade unicamente perché in certi posti, i bambini non possono entrare, in certi posti è bene che non entrino, come in ospedale per esempio, si spaventerebbero troppo, rimarrebbero shoccati e questo non deve proprio avvenire. In certi luoghi i bambini si annoiano, come negli uffici, alla posta, in banca. Allora è meglio che stiano ad aspettare in auto, tutti insieme, chiusi dentro, così sono al sicuro, in fin dei conti è una salvaguardia della loro salute. Poi così, il genitore fa prima, più agilmente, più tranquillamente, capisce tutto ed è più facile per ciascuno. Certe cose, d’altra parte devono essere compiute, non si può fare altrimenti. E’ la vita.

A te quel giorno, è toccato di aspettare da solo in auto, pur avendo molti fratelli e sorelle, in quell’occasione eri da solo ed eri molto piccolo, non andavi ancora a scuola.

Non ricordi neanche se il papà ti ha detto cosa andava a fare, dove andava e quanto ci metteva, ti sei girato, rigirato e ti sei visto solo, in quell’auto, ti giravi, guardavi, osservavi ogni angolo, ma di lui neanche l’ombra. Hai tentato di fare l’uomo, almeno l’ometto, come ti dicevano i tuoi. Hai provato a fare il duro, ad aspettare impassibile ed in silenzio.

Tuo padre ci tiene tanto che tu mostri le palle, esattamente come lui, proprio come lui, suo padre prima di lui, i suoi fratelli e i tuoi fratelli più grandi. Questa è una famiglia di uomini con le palle, non te lo dimenticare. Insomma, non avevi molta scelta, dovevi mostrarti degno di appartenere a questa famiglia di tori, di essere veramente forte e di saper far fronte alle situazioni, ma, ma, ma nonostante questo, nella tua testa tutto si era annebbiato, non vedevi nessuno punto e basta, non c’erano palle in giro e in quel momento, le tue non sapevi neanche dove fossero.

Ti sei sforzato fino al midollo, contraendoti invisibilmente nel tuo corpo, ogni muscolo rattrappito si stringeva in sé, tutto per resistere, per non sbottare, per non sentire, per non pensare ………… tutto quello sforzo non è servito, non ce l’hai fatta, la pressione era troppa, proprio come una pentola a pressione sei esploso in un pianto dirompente, non c’erano argini né confini, sei proprio esploso. Le lacrime e le urla uscivano senza ritegno, senza misura, senza palle. Era solo una grande esplosione incontenibile. Non c’erano alternative, non c’erano ragionamenti possibili, né rassicurazioni, non c’erano palle, no, non c’erano! E dov’erano mai? E cos’erano mai?

In mezzo a quelle lacrime tristi, angosciosanti, clamorose, qualcuno ti ha sentito e si è avvicinato, una signora preoccupata, poi un’altra e forse un’altra ancora, quelle urla strazianti non potevano esser ignorate. Erano lì intorno a te, per capire cosa ti fosse successo, ti hanno preso e ti hanno fatto uscire dall’auto, era anche aperta dunque. Erano lì intorno a te, cercavano di tranquillizzarti, consolarti, ti chiedevano cosa fosse capitato, dove fosse tuo padre e tua madre, ma tu di fronte a tutto questo eri anche più smarrito. Chi erano quelle persone, non le conoscevi, non sapevi chi erano e cosa volevano da te. Che fare?

Le lacrime si erano bloccate, non perché tu fossi più tranquillo, ma perché a tutto quello spavento si era aggiunta un’incognita, l’incertezza, l’imbarazzo, forse quella situazione sarebbe diventata vergogna estrema, vergogna di te e di tutta la tua famiglia, se non fosse sopraggiunto tuo padre a toglierti dai guai. Sì, perché non avevi diritto a chiedere, a piangere, a pretendere, ad urlare. Come dovevi comportarti allora, di fronte a quelle persone che ti facevano intravedere qualcosa che suonava come un imbroglio, una dura prova, un test, che non eri pronto ad affrontare e che non avresti mai superato?

Arrivato il papà tutto si è risolto. Finito il dilemma e iniziato un nuovo sconquasso. Sì, quel padre così tanto duro ed esigente, impermeabile a qualunque emozione, quell’uomo con le palle si era premurato di mostrare preoccupazione e affettuosità verso il piccolo in lacrime. Il suo, piccolo in lacrime, per essere stato da lui, lasciato solo! Abbracci e parole dolci, dolci fino a diventare intollerabilmente caramellate, appiccicose e false. Tutta una scena, un teatrino schifosamente avvizzito, non vedevi l’ora che finisse!

E chissà, cosa sarebbe capitato dopo!

Stavolta non piangevi più davvero, non perché fossi rassicurato, ma eri congelato in ogni minima reazione. Che fare? Sicuramente, senza nessunissima ombra di dubbio, dovevi tenere la parte! Dovevi fingere di essere figlio di un padre attento e premuroso, che si sente amato e consolato dalla preoccupazione di un padre, che ti ha lasciato ingenuamente e quasi inavvertitamente per un brevissimo attimo in auto da solo.

Ma, cosa avresti dovuto veramente provare? Quale l’emozione giusta? Quale il comportamento appropriato? Quale la risposta?

Tu non lo sapevi, non l’avevi mai saputo, non potevi neanche chiedertelo, non ti era dato. Ecco, la soluzione era semplice, a portata di mano, fare l’uomo con le palle! In fin dei conti, te l’hanno sempre detto!

E allora eri lì, con quegli occhietti interroganti, con il corpo ancora contrito e costretto in una morsa di paura. Eri tutto un blocco, povero piccolo, senza espressioni di alcun che, almeno così eri al riparo, non potevi sbagliare. Eri inintelligibile, così non avrebbero potuto dirti niente, se non decifravano non potevano lamentarsi.

Hai imparato bene e l’hai fatto per tutta la vita, non mostrare mai un moto, una reazione, non lasciarti sfuggire nulla con quell’espressione da alieno bambino, presentandoti alla vita con un corpo unipezzo, senza articolazione né segmenti, con una faccia immobile, senza opinioni evidenti, senza tradimenti, né cedimenti, così che, se mai avessi provato una minima emozione nessuno se ne sarebbe certo accorto e tu non eri obbligato a capire cosa dover esprimere, come reagire, cosa volere, cosa si aspettavano gli altri, la giusta condotta.

E chissà se ha funzionato davvero, se ti ha salvato la vita o se ti ha condannato in trame invischianti e oscure. Chissà se tuo padre si è accorto che rifiutavi di avere le sue palle, chissà se si è mai accorto che un giorno adulto, hai scelto come tuoi compagni, uomini che le avevano loro, le palle! E poi …. tu non l’hai mai avute, quindi non poteva che essere così.

Ma i bambini non vengono lasciati soli soltanto in auto, anche in casa o al cinema. Tu lo sai bene, vero pulcino, occhi di laghetto?

Ho ancora i brividi ripensando al tuo racconto, costantemente misurato e commentato dall’espressione attonita di quegli occhi di laghetto, che non traboccavano mai.

Quel ricordo era ritornato quando ormai eri grande, quando ormai non te l’aspettavi più, quando ne subivi solo le conseguenze senza saperne l’origine. Da quel giorno, quel ricordo non ti ha più lasciato, stravolgendoti l’esistenza più di prima.

Eri al cinema con tuo fratello, da soli, lui tre e tu sei anni circa, non ricordi neanche a vedere cosa, non è più importante da quel giorno ormai, tutto è passato in secondo piano. Come spesso capita, non solo nei racconti o nelle raccomandazioni profuse dagli adulti, ma anche nella realtà vera, si sono spente le luci, buio in sala, inizia la proiezione e sotto l’inconsapevolezza o l’indifferenza dei presenti, vi ha avvicinato un uomo, garbato, con modi seduttivi. Come spesso capita, vi ha comprato caramelle, gelati, era a disposizione, è stato gentile veramente.

Tu sapevi, occhi di laghetto che non c’era da fidarsi, ma non sai perché, non sai come, non riuscivi a fare nulla, eri bloccato e non sei riuscito a dire neanche una parola. Da bravo pulcino biondo, educato, proprio come ti hanno insegnato, hai ringraziato per tutte quelle gentilezze rivolte a te e al tuo fratellino, non potevi essere scortese, così ti hanno insegnato.

Non sai perché, non sai per come, ma ricordi di esserti trovato nel bagno con quell’uomo così gentile, non sai perché, ma sai che tu l’hai fatto per lui, per il tuo fratellino, per proteggerlo, per paura che capitasse qualcosa a lui, a lui che era più piccolo e che te lo avevano caldamente affidato.

Assurdo no? Ma tu non avevi armi, non avevi strumenti per difenderti, per difenderlo, se non immolarti, farti avanti forse, chissà, non si sa come sono andate le cose, cosa mai sia successo. Tu non ricordi, occhi di laghetto.

Questo ti ha dilaniato per anni occhi di laghetto e continua a dilaniarti, tu non sai cos’è successo in quel bagno di quel cinema con quell’uomo gentile. Hai solo un flash, un’immagine fissa nella tua mente. Non lo sai, non lo ricordi e forse non lo saprai mai. Non lo sai perché non lo ricordi, non lo sai perché hai una paura angosciosa di saperlo, non sai cosa potresti scoprire, non sai cosa ti è successo, non sai cosa ti succederebbe se venissi a scoprirlo!

Cosa ne sarà di te? Cosa ne è stato di te? Che angoscia!

Ma non basta, per incrementare la vergogna, la colpa, all’uscita di quello spettacolo, il tuo papà è venuto a prendervi e tuo fratello subito ha rivelato la novità, un signore gentile vi ha offerto le caramelle e tante cose buone. Chi, chi è stato? Chi è? Cos’è successo? Chi, chi, chi!

Come un treno, tuo padre andava a diritto e ti tartassava di interrogazioni, occhi di laghetto. E tu, sì tu, eri vicino a quell’uomo, l’hai guardato, ti ha guardato, c’è stato uno sguardo d’intesa forse e hai taciuto. Hai taciuto! Hai taciuto! Non rispondevi, non lo sapevi.

Eri confuso, come sei stato confuso e stordito tutta la vita, occhi di laghetto! Hai fatto di tutto per dormire il resto della tua vita. Per non sentire, per non pensare, per non vedere, per non ricordare cosa sia veramente successo.

Non sai perché hai taciuto. Non lo sai perché. Quale patto hai rispettato? Che paura avevi? Chi non volevi tradire? Chi hai tradito?

Avevi paura che tuo padre lo aggredisse, gli andasse addosso e tu temevi tutto questo? Perché? Dannatamente perché? Forse perché ti sentivi responsabile, ti sentivi complice, ti sentivi sporco, di qualcosa che non sai neanche cosa sia!

Eri responsabile di aver dovuto proteggere tuo fratello e di non esserne stato in grado, se non immolandoti per risparmiarlo. Sì, perché ti avevano raccomandato lui, che era il più piccolo e dovevi proteggerlo, dando per scontato che tu saresti stato in grado di cavartela, eri grande del resto. Ma, in quest’implicito, in questo pesante fardello, passava il messaggio che le sue sorti erano più importanti delle tue e che lui era da proteggere. Tu, poco contava cosa ti poteva succedere. Temevi fortemente, che ti avessero dato anche dello stupido e dell’incapace! Che ti avessero accusato di non averlo protetto, come dovevi.

Non ti preoccupavi minimamente dei loro timore per te?  Perché? Perché tu non eri nella tua mente? Perché, nella tua mente non eri nella loro mente?

E cosa vuoi, tuo padre era grande e grosso, era bravo lui ad urlare “Chi è stato?” Lui avrebbe ammazzato tutti, tu invece eri piccolo e incapace! Lui sì che era bravo! Tu temevi proprio che in quel cinema sarebbe scoppiato un vero caos, ti prefiguravi urla, strattoni, botte e chissà cos’altro. Ti vedevi al centro di tutto questo e non ce la facevi proprio, non potevi tollerare lo sguardo inquisitore di tutta quella gente, le domande, i dubbi, i mormorii, la vergogna più totale.

I tuoi non hanno mai capito questo tuo dramma, non l’hanno mai capito e non lo capiranno forse. Tanti figli da tirare su, i pensieri per sfamare tutti e farvi crescere nei migliori dei modi. Ogni tanto vi permettevano anche il cinema, era per darvi anche questo, ma costava troppo e loro non potevano accompagnarvi. Ma tanto, tu ormai eri grande! Lo avevano già fatto anche i tuoi fratelli più grandi, anche tu saresti stato ben in grado di farlo, esattamente come loro lo avevano fatto prima di te! Non era difficile, vi accompagnavano e vi riprendevano.

Non era difficile! C’era solo da stare lì, a godersi lo spettacolo!

Chissà mai, se ti perdonerai, chissà se un giorno ce la farai occhi di laghetto! Chissà, se riuscirai mai a dare ad ognuno la sua colpa, ad essere arrabbiato con loro.

Chissà se un giorno quel piccolo pulcino biondo, che piange solo per procura, tornerà a pigolare allegramente di vita! Chissà, se occhi di laghetto tracimerà mai lacrime proprie, per lasciare spazio ad altro! Chissà ….chissà.

C’è stato poi un destino veramente terribile, che è spettato a te povera piccola! Avevi sei anni, ma forse di più, ma forse no. Ne avevi sei, in verità è così difficile accettare il fatto che tu ne avessi solo sei, una parte di me non ci crede e si vuol convincere che ne avevi di più, almeno due o tre in più.

Ricominciamo dall’inizio, avevi sei anni, solo sei anni e sovente ti lasciavano a casa ad accudire tuo fratello, che ne aveva circa tre. In una famiglia si deve collaborare, che diamine, la mamma doveva andare a fare tante commissioni, la spesa, la banca, la posta, la spesa e poi la banca, insomma capitava che per sbrigarsela alla meglio, vi lasciava a casa.

Del resto, poverina era sola, come doveva fare? Senza nessuno che ti aiuti, è veramente difficile con due bimbi piccoli! Veramente difficile!

Era una delle tante volte in cui eravate lì insieme da soli e tu, che avevi sei anni, ma eri pur sempre la grande, avevi l’incarico di vegliare su lui che era piccolo e indifeso. Tanto la mamma avrebbe fatto presto e poi ormai tu sapevi cosa si fa e cosa non si fa, cosa si tocca e cosa no, cosa fa arrabbiare la mamma e cosa no. Insomma, tutto semplice, si trattava solo di stare a casa a giocare, come se niente fosse, come se tutto andasse bene così! Come tante altre volte era già successo.

Avevate anche un piccolo giardinetto davanti casa, in estate era bello stare lì con il sole a strappare un po’ di erbacce ma anche qualche fiore, a far girare la trottola, a fare il bagno alle bambole e poi farle asciugare al sole. Lui, si divertiva con la palla, con il triciclo e stava lì, a volte un po’ dispettoso ti rubava le tue piccine, a volte litigava col gatto e il tempo passava. In effetti, ce la faceva a passare, a volte più sonnolosamente lento, altre più rapido e lesto. Così era.

Quel giorno, che sembrava come tanti altri, il tempo sembrava più pigro e lungo del solito, non so se era il caldo, la noia, la stanchezza o la mamma che ritardava più di sempre. Uff! E’ capitato che anche il gatto si annoiava e ha deciso così di fare qualche piccolo dispetto, con un balzo è saltato giù dall’albero, ha fatto i suoi bisogni davanti alla porta di casa ed scivolato rapidamente dentro. E tu piccolina,  preoccupata che combinasse qualche guaio, che poi sarebbe ricaduto sulla tua testa e sulla tua responsabilità, ti apprestasti come un fulmine dietro di lui, urlandogli di tornare indietro, che lo avresti ammazzato di botte e via alla ricerca affannosa di quel tuo micio così insolentemente imprevedibile e dispettoso.

E ….. mentre tu cercavi di evitare l’evitabile, non si sa perché, forse per noia, per stanchezza, per andare chissà dove, per fare un dispetto anche lui, per l’inaspettato momento di totale liberà, il piccino aprì quel cancellino, lesto lesto montò sul triciclo e s’intrufolò fuori, oltrepassò il cancello prendendo il via con la discesina e piombando come un missile nel centro della strada. Fu la fine, lì si è fermata la tua vita, la sua ed insieme la tua vita. Una vita che non ripartirà mai più fino alla morte.

Quel tuo fratello, che aveva solo tre anni, si trovò davanti una macchina, che vide solo per un brevissimo istante, ma sentì fortemente sul proprio essere in un impatto che lo spazzò via per sempre. Per sempre!

Chissà cos’ha provato in quel momento. Cosa ha sentito in quell’istante eterno. Non ci fu replica per lui, non ci fu salvezza. Non ci fu replica per te, non ci fu salvezza.

Vostra madre, ti accusò violentemente di averlo fatto morire, di non averlo guardato, di odiarlo così tanto da aver fatto in modo che lui sparisse. Quelle parole, ripetute in ogni buona occasione, nel tempo lasciarono spazio ad un silenzio eloquente e pesante, che odorava di minacce e rancore. E gli anni della crescita sono diventati interminabili, tutti uguali, indifferenziati. Tutto è morto dentro di te.

E’ così che sei andata avanti, con un fardello che ti ha schiacciata giorno dopo giorno, inesorabilmente e ineluttabilmente. Ed è così che sei diventata grande, fuggendo dalla realtà, da questa orrenda realtà, ora con i sogni, ora con fantasie deliranti, ora con farmaci, ora con droghe. Qualunque cosa pur di non pensare, pur di non ricordare chi non c’è più. Pur di non ricordare di essere la responsabile di quell’assenza. Pur di non doversi chiedere quanto detestassi realmente quel fratellino morto, quanto desiderassi veramente la sua fine. Pur di non sentire un odio furibondo, verso chi ti aveva dato la vita e te l’aveva tolta, quasi fosse il padrone di tutto!

Forse tu, cara piccola, vittima innocente, non ne uscirai più! La via della realtà sarebbe solo una via di solitudine e di delitto, o te o lei, qualcuno deve perire.

Il piccolo non c’entrava, non era lui che odiavi, non era lui che doveva perdere qualcosa, non era lui a dover pagare! Ma nessuno ti ha mai dato il diritto di pensarlo, di sentirlo, di urlarlo al mondo, di urlarlo stramaledettamente a quella tua madre di gomma! A quella madre che ha lanciato il sasso e poi ha ritirato la mano.

Che dio la maledica!

Tu eri responsabile di quella fine, tu e la tua colpa, appesantita giorno dopo giorno, potevate solo tacere ed espiare, espiare per quel dolore, per quella perdita inflitta a quei poveri cari genitori. Che sorte è toccata loro!

E della tua nessuno si occupa, della tua vita nessuno s’interessa. Non capiscono che loro, per propria mano, hanno perso due figli in un colpo solo! Loro poveri, cari genitori.

Che Dio li maledica!

Un abbandono insensato e clamoroso, è toccato a te piccolo fantasma della vita. Avevi vissuto una vita dimenticata, fra casa di tua madre, affidamenti vari, istituti. Una vita difficile e dimenticata da tutto e da tutti, almeno fino a che qualcuno non ha cercato di sbattertela davanti per restituirtela, fino a che non si è cercato vanamente di tessere un filo che la mettesse insieme.

Non hai mai saputo cosa veramente apparteneva alla tua esistenza, al tuo passato e cosa era pura invenzione e delirio, quello che tua madre ti aveva raccontato era che tu appartenevi ad una famiglia mafiosa del sud, che tuo padre era venuto al nord molti anni or sono per portare avanti un progetto di vita onesto. Era un poliziotto bravo e rispettabile, ma un giorno, proprio il giorno della tua nascita, lui è morto per un colpo di arma da fuoco, un colpo inferto durante una sparatoria nel corso di una rapina.

Tu sei nato e lui è morto. Tu non l’hai mai potuto conoscere, tu sei cresciuto senza di lui, senza la sua forza, il suo sostegno, la sua onestà, il suo appoggio, il suo denaro, sei cresciuto senza la sua verità. Tu hai dovuto capirci qualcosa, senza capirci qualcosa. Tua madre quando era ubriaca, sempre che non fosse rincasata con qualcuno, ti riempiva di racconti e di dettagli. Ma spesso questi racconti non tornavano con quelli della sera prima. E tu raccoglievi solo ciò che potevi comprendere, ciò che potevi accettare, quei dettagli che ti facevano sognare e immaginare di avere anche tu una storia, una famiglia, qualcosa di buono e meno buono da raccontare.

Ma lei era bella, era tua madre, con quei capelli neri lunghissimi, con quello sguardo lucente, ti amava, si occupava di te. Quando usciva di casa per ore, si preoccupava di lasciarti apparecchiato e la cena sui fornelli, almeno per un po’ d’anni. E’ vero, non era molto presente, ma tu eri libero di fare come meglio credevi, avevi tante cose intorno a te, per dire il vero non ricordi bene quali, ma sai che avevi tante cose, così ti ha raccontato e rimproverato.

Poi degli istituti, delle famiglie affidatarie tu non sai nulla, non ricordi proprio nulla. Qualcuno ti ha chiesto di questo quando eri grande, ma non hai ricordo. Tu rammenti solo di essere stato per un po’ a casa di parenti, tua madre era malata e non poteva occuparsi di te, quindi loro erano stati così gentili da ospitarti, ma tu eri stato un po’ birichino e loro non erano stati molto contenti, forse sei anche fuggito e così ti hanno rimandato al mittente.

Ma tu, non potevi che esserne contento, era con lei che volevi stare, con la tua mamma, con quella bellissima e amata mamma. La tua unica mamma.

Sopra ogni cosa in questa tua grande libertà, ricordi quelle tue girate in bicicletta, interminabili e spensierate, nelle pinete d’inverno ma soprattutto d’estate col sole. Andavi con passione, volavi via come un uccellino senza posa, il mondo era nelle tue mani, semplicemente nelle tue mani e si dispiegava con un solo battito d’ali. E in quelle pinete di mare hai conosciuto molte cose, hai imparato ad andare, hai conosciuto amicizie interessate, hai imparato a vendere il tuo corpo per raggranellare qualche soldino, hai sperimentato la marijuana e qualcosa di più, per stordirti ed essere più felice.

Mio piccino, tu fantasma della bicicletta e della vita, andavi, giravi, non t’importava di nulla, riuscivi a dimenticare tutti i dispiaceri, le frustrazioni, le mancanze, non le mettevi neanche in conto, per te non esistevano. Non avevi metri di paragone, non sapevi come avrebbe dovuto essere davvero.

Non sapevi cos’era una vera mamma.

Poi un giorno, quando ormai la legge diceva che eri grande e adulto, tua madre ha cominciato a lamentarsi di te, sempre di più, sempre di più, ha chiamato i servizi per denunciare il tuo uso di sostanze.

Lei era disperata, non sapeva proprio più come prenderti e per una donna sola che lavora dalla mattina alla sera, più che altro la sera, è veramente dura, dura, non sapeva più che pesci prendere.

Di lì a poco ti ha allontanato, ti ha cacciato di casa, accusandoti di non essere un bravo figlio, di non comportarti bene, non poteva più reggere quel peso, non sapeva che fare. Dovevi cambiare, dovevi impegnarti, non c’erano vie d’uscita.

Così i servizi hanno dovuto occuparsi di te e ti hanno trovato una nuova casa, una struttura che si sarebbe fatta carico di te e della tua supposta dipendenza da sostanze. E tu hai vissuto lì, per un bel po’ di tempo, faticando ad adattarti ad un posto isolato, lontano dalle pinete, a nuove regole, a regole, ad impegni, alla presenza di autorità e di coetanei. Una gran fatica, un gran dolore.

Ma il dolore più immenso era quello di pensare a questa madre che non ti voleva, ti aveva cacciato, ti rifiutava. Tu piccino, avevi già provato e riprovato a suonarle ancora alla porta, a cercarla, a chiamarla, ma nulla, lei ti aveva risposto che finché non cambiavi non ti avrebbe più ripreso. Dopo un po’ non rispondeva neanche più, riattaccava il telefono in faccia, non apriva la porta, spiava silenziosamente dalla finestra e niente altro.

Là eri relegato, non avevi libertà, non avevi foto con te, neanche ricordi, né una visita, una telefonata, nessuno che si ricordasse di te a Natale o a Pasqua. Quelli erano momenti veramente tristi, i più tristi, dove verificavi il tuo effettivo e più totale abbandono. Eri solo e in quei giorni andavi in letargo, ti negavi totalmente.

Questo era il tuo più grande dolore. Ma tu ti difendevi vivendo obnubilato da te stesso e dal mondo, dormendo all’infinito, fuggendo ogni possibile contatto, ogni impegno, ogni attività. Dormivi e ti annebbiavi di farmaci per la depressione, per l’ansia, per le allucinazioni, per dormire, per stare sveglio ….. dormivi e t’imbottivi. Tutto per non vivere, per trapassare in questa vita come un fantasma a tutti gli effetti.

Poi l’incontro con una persona e con te stesso ti aveva risvegliato alla vita, ti faceva essere di più, partecipare, pensare. E lì cominciavano i guai. Tornava a galla tutta la forza del dolore e della rabbia, l’incomprensione e l’inaccettabilità di quella madre che ti aveva freddamente messo alla porta. Tornavano alcuni ricordi, i pensieri, il senso di colpa per la morte di tuo padre, avvenuta proprio il giorno della tua nascita, la vergogna di una madre che viveva prostituendosi.

Ma tu piccolo caro, la amavi lo stesso, la volevi lo stesso e avevi ricominciato a scriverle. Tutti i giorni scrivevi una lettera per lei, in cui le decantavi la sua bellezza, l’amore e l’importanza che aveva per te, per la tua vita, la lusingavi, l’adoravi senza mezze misure. Lettere che spedivi, spedivi e immancabilmente non aveva risposta alcuna, non c’era deroga. Quella donna non voleva saperne, non voleva e non poteva riprenderti.

Hai quindi smesso di spedirle e poi ha smesso di scriverle.

Il tuo desiderio di droga è ritornato forte e imperterrito, giusto per ritrovare un vecchio torpore, un antico sapore che acquietava la tua smania non si sa bene di cosa.

E un bel giorno poi, anche quel luogo ha deciso che non poteva più prendersi cura di te ed è arrivata una nuova casa, una nuova sistemazione, con un lavoro, impegni da adulto, una nuova bicicletta. All’inizio, per gestire il passaggio, il rinnovato abbandono, raccontavi inorgoglito il tuo nuovo destino, il passaggio importante, i meriti, gli impegni, il ritorno alla pineta, ma poi in breve tempo la tua vita è crollata, caduta ancora più in basso, con eventi che si sono succeduti giorno dopo giorno, fino a portarti non si sa come e perché, in meandri sconosciuti e distruttivi, fino a condurti nel posto più buio e solo che tu potessi scoprire: il carcere.

Anche lì, con la tua tenerezza, la semplicità, la disperazione, hai saputo trovare delle mamme che si prendessero cura di te, ma niente bastava, niente era sufficiente per tornare indietro, per farti recuperare ciò che avevi perso, per darti ciò che non avevi mai avuto. Eri pieno di tatuaggi, di delusioni, amarezze, abbandoni, la luce dei tuoi occhi s’era affievolita, opacizzata ed il tuo corpo s’era ammalato, tremava all’impazzata, si sbatteva da ogni parte, perdevi coscienza delle cose e tu varie volte avevi cercato di mettere fine alla tua vita, senza riuscirci. Sono stati momenti duri, bui, sempre più bui, senza via d’uscita, senza posa.

Hai ricominciato a scrivere lettere, scrivevi ad una seconda mamma, scrivevi e scrivevi, questa volta avevi risposta, ma niente era sufficiente a ridarti ciò che la vita non aveva voluto generosamente donarti. Questa volta sei tu ad aver smesso di scrivere, hai diradato fino ad interrompere senza proferir ragione.

Non si sa che ne sia stato di te, abbiamo perso le tue tracce, sei sparito come un fantasma, non si sa se nel regno dei vivi o quello dei morti!

Chissà quale mamma e quale casa ti ha accolto, chissà se in terra o in cielo.

Poi c’eri tu, che in fin dei conti non ti mancava proprio nulla, un padre, una madre, un fratello, dei nonni, i parenti di rito, la casa e tutto quanto. C’erano le vacanze stagionali, la domenica al mare, c’erano stimoli intellettuali in famiglia e quant’altro potesse servirti. Veramente, non c’era di che lamentarsi!

Non navigavate nell’oro, ma stavate bene, la mamma insegnante, il babbo un professionista, non si sa bene in cosa, ma un professionista, lui in effetti si occupava di varie cose. Insomma, tutto andava come dovrebbe andare per un bambino. Veramente, non c’era di che lamentarsi.

Peccato che un giorno tuo padre è sparito, scomparso improvvisamente, senza dire una parola. Per molto tempo è scomparso e nessuno ha mai saputo cosa fosse successo, dove fosse andato. Almeno, questo è quello che sai tu!

Sai solo che è sparito e si è portato con sé tutti i soldi, i risparmi della famiglia, ma non solo, con la sua assenza sono venuti alla luce gli imbrogli, le truffe, i falsi appellativi che si attribuiva, si spacciava per ingegnere. E con tutto ciò, sono arrivati i debiti, sì vi siete trovati la casa ipotecata, l’inizio di un lungo tunnel scuro.

Il nonno, una persona rispettabilissima, ha messo tutto il suo impegno per tappare le falle, ma non è stato sufficiente e così avete rischiato di ritrovarvi al freddo e senza un tetto.

Da grande poi, saresti stato proprio tu a riscattare la casa di famiglia. Quanta strada hai dovuto fare! Quanto impegno! Quanti bocconi amari.

La cosa più folle però, non è stato l’aver perso tutti quei soldi non si sa in cosa, ma il fatto che lui ti avesse abbandonato, che ti avesse lasciato solo con quella madre. Sì con lei.

Ma cosa ti faceva? Ti picchiava? Ti torturava? Ti faceva mancare qualcosa?

No, in effetti no, proprio no, niente di tutto questo. C’era quello che serviva e tutto il resto, eppure quella donna ti aveva travolto la vita, molto più di quel padre che se n’era andato e forse se n’era andato proprio per salvare se stesso, da quella donna. Ma non aveva salvato te, non ti aveva donato un’altra via d’uscita, una speranza. Tuo padre ti aveva mostrato l’esistenza di due uniche possibilità: la prigionia o la fuga, o si soccombe o si scappa.

Lui era fuggito e aveva lasciato te prigioniero di quella piovra dall’aspetto bonario.

Tu non sai bene descrivere cosa ti abbia fatto tua madre, è indescrivibile, impalpabile, indecifrabile, eppure tu lo vivevi sulla tua pelle, ne sentivi le conseguenze, una condizione permanente di assenza. Assenza di emotività, di affetto, di comprensione, di libertà, di democraticità, di schiettezza e per completare il quadro, una valanga di ansietà sopperiva alle innumerevole mancanze. Tu hai vissuto deprivato, in un mondo dorato, in un vuoto mai definibile né colmabile. Ti sentivi come una viola mammola, senza consistenza, senza valore, una sorta di nullità, di essere senza spina dorsale. La viola mammola non è un simbolo di gran virilità, anzi e forse proprio questo, lei voleva da te: un mezzo uomo, un altro uomo da controllare, manovrare, comandare.

Apparentemente la tua vita era migliore di altre, ma in realtà era caratterizzata dalla costante privazione, dal ricatto, dal baratto, dalla fatica, dalla noia più assoluta. La gabbia più grande era proprio la ripetizione, la noia, l’impossibilità di cambiamento. Sembrava che quella via non ci fosse, non fosse possibile per te e tutto era stato duro, la routine quotidiana, la domenica con la solita girata di rito, gli esami universitari, la strada giornaliera per andare a scuola e via dicendo.

Poi c’erano tutti quei sottili ricatti che ti propinava quotidianamente. Ricordi che per avere la vespa come tutti gli altri ragazzi, hai dovuto accettare di farti fare la permanente. Ma si può vedere una cosa del genere?

In quegli anni, non era neanche usuale per gli uomini. Che voleva da te? Perché ti ha chiesto questo? Perché l’ha preteso? Voleva una figlia femmina, al posto di un maschio? O semplicemente voleva un bambolotto bello, tondo e con i riccioli d’oro? Un ciccio bello!

E tu, pur di avere una minima parvenza di normalità, di parità con gli altri, hai dovuto venderti, barattare la tua dignità, la tua mascolinità. Non c’era scampo, non c’erano vie d’uscita. Di questi piccoli grandi episodi se ne potrebbe raccontare tanti, vero piccolo? Ma non servirebbe a spiegare oltre. Non c’è niente di spiegabile.

Lei ti voleva come diceva lei, come ne aveva bisogno, ti doveva avere sempre accanto, come lei desiderava, senza neanche una virgola fuori posto. Non a caso tuo padre è scappato da questa morsa!

Un’altra bella favola che ti raccontava fin da piccolo, era che per te non bastava una ragazza, ci voleva assolutamente una principessa! Che bel destino. Guarda caso eri designato a rimanere solo, perché nessuna avrebbe mai potuto essere una vera principessa, nessuna sarebbe mai stata degna di te, all’altezza di tutto il tuo splendore, riccioli d’oro.

E tuo fratello è cresciuto alle tue spalle, dietro la tua ombra, non si sa se è stato un bene o un male, questo proprio non si sa. Non si sa chi dei due ha perso di più, chi ha più dimenticato se stesso.

Sì perché sei cresciuto senza sapere chi eri, ti sforzavi, facevi molte cose, sperimentavi, cercavi a tutti costi di fare cambiamenti, di improvvisare, per sentire, per cogliere il pur minimo sussulto della tua anima, per capire da che parte eri nascosto, ma non ci riuscivi, ormai avevi smarrito la strada, lei  te ne aveva fatto perdere le tracce, avevi perso anche la tua ombra.

E da grande, quando ormai tuo padre era tornato da tempo, tu l’hai anche reintegrato, l’hai redento come si fa con i carcerati, gli hai fornito un lavoro. Avevi così tanto bisogno di lui, così tanto bisogno di te, di un’altra possibilità che l’hai ripreso con te, l’hai perdonato, forse. Hai cercato di sottrarlo alle dicerie, alla vergogna, al nascondimento, alle grinfie totali di tua madre. Lui non l’ha fatto con te, ma forse tu potevi farlo con lui e anche con te stesso.

Sì perché tu c’hai messo tanto a ritrovare te stesso, hai girato, vagato, farfugliato, imbrogliato, hai stravolto la tua immagine, le tue abitudini, hai comprato auto, ne hai cambiate tante, hai cercato l’amore, l’amicizia, hai cercato di farti una famiglia, di trovare una donna che fosse una principessa, hai scavato nel fondo di te stesso, sempre più nel fondo, fino a chiederti quasi ossessivamente cosa ci fosse di sbagliato in te, cosa non andesse bene, cosa doveva ancora essere modificato, limato, trasformato, plasmato, ribaltato. Continuavi a chiedertelo e a cercare risposte, a darti da fare in ogni dove, fino a che un giorno qualcuno ti ha detto che dovevi fermarti lì, dovevi imparare ad accettarti e amarti per ciò che sei, né più né meno, per ciò che sei, non per ciò che gli altri vogliono da te! Dovevi amarti riccioli d’oro, senza condizioni!

Tu non l’hai capita, non potevi capirlo, non c’eri abituato. Non eri abituato a ricevere senza per forza dover essere altro, senza fare altro,senza fare fatica. E forse, ti sei sentito rifiutato, abbandonato, ma non era così.

Non lo potevi capire. Almeno non subito, ma forse un giorno ……. Chissà se poi alla fine, sei arrivato in quel porto sicuro!

E tu piccola dai capelli color del grano, non avevi avuto certo una sorte migliore. Vivevi in una famiglia di altri tempi, con un suo rigore, una grande rispettabilità, un’educazione e un saper fare fuori dagli schemi.

Non a caso la tua famiglia possedeva il cinema del paese da generazioni, per cui conoscevi una realtà preclusa a tanti, un benessere precluso ai più.

Era una famiglia un po’ speciale. Forse per questo che non tutti provavano totale simpatia per voi, diciamo pure che forse c’era una sorta d’invidia nei vostri confronti, di pretesa sotterranea mai detta, un conto aperto. Un ramo della vostra parentela in particolare, che non era del tutto benestante, emanava questo sottile livore, ben celato ma pur sempre presente, questa indegna attesa che la vita pareggiasse le sorti.

Un personaggio spiccava fra questi, un cugino di secondo o terzo grado, che aveva libero accesso alla vostra casa e al cinema, era un bel po’ più grande di te, una quindicina d’anni o più. Tu l’avevi sempre visto fin da piccolissima, provavi un misto di attrazione, curiosità, interesse e anche un po’ di diffidenza, a cui non sapevi dare un significato. Era un polo attrattivo per te e la tua famiglia lo lasciava interagire liberamente con te e tua sorella, entrava e usciva senza difficoltà da quella casa.

Un giorno come tanti altri lui era lì che gironzolava, tu eri poco più che una bambina, avevi un delizioso vestitino color petalo di rosa, ornato con farfalline e cuori, ti ha chiamato furtivamente e con un’occhiata d’intesa segreta ti ha fatto cenno di seguirlo. Tu piccola dai capelli color del grano, eri stupita, sconcertata, ma oltremodo eccitata da quel possibile segreto, dalla sorpresa che ti attendeva, da questo gioco a cui lui alludeva misteriosamente, a cui ti invitava.

Così, ti ha condotta in una stanzina ormai in disuso, una di quelle stanze accanto al palco, che servivano per dare la voce allo spettacolo, al film quando ancora era muto. Era una piccola stanza, lontana da quelle più frequentate e abitate, quasi dimenticata. Tu fiduciosa l’hai seguito e lì all’ombra della polvere e dello stantio, senza remore, senza chiederti il permesso, senza darti spiegazioni, quel giovane uomo con la bava libidinosa alla bocca, ha insozzato per sempre il tuo bel vestitino d’infanzia color petalo di rosa, ti ha fatta sua per sempre, ti ha marchiata come sua proprietà esclusiva.

Adesso lui prendeva con diritto una cosa di quella famiglia, che tanto era generosa con lui, ma che lui invidiava e odiava mortalmente. E le tue farfalline non volarono più ed i cuoricini sanguinavano inesorabilmente spezzati.

In quella stanza, da quella stanza, nessuno dava voce a te, al tuo dolore.

Così, si consumava la sua vendetta. Una vendetta cieca e stolta, che non si rifaceva sul denaro o sulla proprietà, bensì su una persona, una bambina, ignara e inconsapevole ancora, delle cose dei grandi. Tu piccola dai capelli color del grano, hai pagato per tutti, hai pagato per la tua famiglia, per la loro abbondanza, per la loro generosità, per la loro inconsapevolezza, per la loro mancanza di possesso che diventava stupidamente mancanza di confini e di protezione, delle persone più fragili e care.

E tu hai pagato per questa logica indifferenziata della famiglia allargata, che non ha consapevolezza della misura e del merito, del diritto e del rispetto. Una famiglia che, ingiustamente pone tutti sullo stesso piano, distribuisce averi e saperi, senza tener conto del merito, del forte e del fragile, senza sapersi prendere cura dei più piccoli, senza occuparsi, ma delegando semplicemente.

E tu piccola dai capelli color del grano, hai vissuto tutto questo con stupore, incredulità, dolore, con scoperta, una scoperta incommensurabile, impensabile, devastante. L’hai vissuto e hai taciuto, esattamente come ti ha detto lui, come ha bisbigliato sobillosamente nelle tue orecchie dopo essersi impossessato di te, in quella stanza buia.

Hai taciuto e non hai osato farti giustizia, non potevi, non rientrava in quei canoni. Non era contemplato.

E poi tu, farti giustizia? Di cosa? Di quale diritto?

Non c’erano individui, c’era l’entità famiglia, almeno finché faceva comodo così, quindi non c’erano diritti personali. Quando sei nata tuo nonno, questo grande uomo di questa grande famiglia, era lì che si apprestava ad accendere e consumare finalmente il sigaro della festa, al primo colpo era andata male, ma ora sicuramente non poteva andare ancora così, ora sarebbe finalmente arrivato il maschio tanto desiderato. Ma no, sei arrivata tu, una femmina a sciupare la festa ed il sigaro è rimasto ancora spento ed il povero nonno a bocca asciutta.

E tu guastafeste, cosa potevi pretendere? Niente certo.

Poi non si può dire che ti trattavano male, sempre curata, ben vestita, molto amata, ti hanno anche fatto studiare, tu sei stata una delle poche a fare l’università, come tua sorella del resto. In più avevi anche due mamme, tua sorella era sufficientemente grande da fare da seconda e lei era sempre ligia al dovere.

Che fortuna! Non si può volere niente di più.

Allora, quel gesto così inatteso, incomprensibile e violento non aveva ragione di essere accusato. Quella grande famiglia ti aveva dato e ora aveva preso, aveva preteso qualcosa da te!

Che c’era di strano? Ti avevano chiesto di risarcire un conto, una colpa, che tu non sapevi neanche esistesse, ma era in conto a tutto quel clan e tu ne facevi parte.

Certo, avevi fatto qualcosa che non si fa e tu temevi proprio questo, che ti accusassero che era stata colpa tua, che avevi fatto qualcosa di riprovevole, che non eri una brava ragazza. Ma tu che ne sapevi, che ne potevi sapere di certe cose?

Ma forse se lui ti aveva insultata carnalmente e moralmente, qualcosa l’avevi pur fatto, forse una qualche responsabilità ce l’avevi. Non dovevi seguirlo in quel posto, è possibile che non sai certe cose? Le donne, sanno sempre certe cose, le donne sanno come far fare le cose agli uomini! Loro lo sanno.

Tu lo sapevi, dunque era colpa tua. Sì d’accordo lui era più grande, ma era pur sempre uno di famiglia e poi le donne crescono molto in fretta, molto più in fretta di quanto si pensi. Stava a te, preservare la tua innocenza, la purezza, la tua dignità di donna.

Tu non hai detto nulla, per timore di essere accusata ma tu per prima ti accusavi, tu ti sei accusata silenziosamente per tutta la vita, annullandoti in ogni tua possibilità, in ogni diritto di libertà vera.

E crudeltà delle crudeltà, la scena si è ripetuta una seconda volta. Ancora una volta, un po’ di tempo dopo quell’uomo ti ha condotta in quella stessa stanza buia e dimenticata, ancora senza chiederti il permesso ha fatto ciò che desiderava fare senza ritegno.

Questo più che mai ti ha tappato la bocca, la seconda volta sanciva definitivamente la tua responsabilità, non c’erano alternative. Se per la seconda volta, gli hai permesso di fare di te quello che voleva, se non hai urlato, non hai strillato, non hai fiatato, se non hai mosso capello, allora vuol dire che segretamente è colpa tua, lo desideravi quanto lui. Tu lo desideravi, silenziosamente.

Così hai tenuto dentro di te, nascosto e quieto questo evento, questo sconquasso, la violenza che s’era impressa indelebilmente sul tuo corpo per sempre, per sempre.

A tuo marito hai raccontato a metà, solo a metà per molti anni, per timore che lui pensasse proprio questo, sospettasse che tu lo avevi voluto, indotto, istigato, che tu avessi osato perdere la tua verginità, fuori dai canoni consentiti, fuori da una promessa eterna.

Lui non l’ha pensato, ma tu sì. Senza neanche saperlo, senza potertelo dire, tu credi ancora dopo tanti anni dentro di te, in un piccolo angolo nascosto di te, di essere stata responsabile di quell’atto impuro, di quello scempio sul tuo corpo. Tu ti incolpi misteriosamente senza saperlo, senza pietà, senza darti secondi appelli.

Non sai di questa condanna, ma ne subisci le conseguenze da una vita. Per quanto ti sei lambicata, non hai mai capito, non hai mai voluto capire il perché di certe cose. Hai aperto solo l’anticamera della tua casa, tu sei sempre stata come un fortino ben difeso agli altri e prima ancora, a te stessa. Tu non hai mai aperto completamente la porta alla vita e alle mille possibilità.

Tu, sei rimasta sempre desolata e sola. Hai accettato e subito di tutto da tutti. Hai lavorato fino allo sfinimento per marito, figli, nipoti, per la tua famiglia, per la famiglia di tuo marito e hai ingoiato silenziosamente ogni tipo di rospo. Ed insieme ai rospi hai ingoiato una grande quantità di cibo, senza riuscire più a controllarti, senza riuscire ad avere comprensione e accettazione di te.

Ti sei dannata, accusata, denigrata per questa tua incapacità e per questo tuo aspetto non così fiero e asciutto, tipico della tua famiglia. Ancora guardi le foto di tua madre, bella, altera e magra, magrissima. Non capisci proprio perché, non capisci come tu non riesca a tornare come un tempo, magra e assottigliata come loro, come loro ti volevano.

Ma tu piccola dai capelli color del grano non sei come loro, non lo sei mai stata e ancor di più ne hai avuto certezza quel giorno, in cui grande e con famiglia, hai osato dire a loro, hai osato presentare un piccolo conticino di quanto avevi subito, di quanto non ti avessero vista, rispettata e tua sorella, che si era immolata per la famiglia, ha risposto per tutti: Tu ci hai pugnalato alle spalle.

Ti ha congelata, ti ha tolto ogni diritto di replica.

Indignata se n’è andata con loro, ha voltato le spalle e ha chiuso senza possibilità di replica, portando via tutto l’impegno e la dedizione rivolta alla vostra famiglia, che era rimasta la sua unica famiglia, rivolta anche alla tua famiglia, l’impegno come mamma dei tuoi figli, mai richiestole, l’impegno a dare indicazioni morali, consigli di vita, a fare da esempio.

Che dio ce ne scampi e liberi, piccola dai capelli color del grano! Tu non devi niente a nessuno, tu non hai debiti, tu non hai colpe, tu non sei una donnaccia, tu non hai sobillato nessuno.

Anzi, sei tu che hai un conto sospeso con la vita, che hai dei crediti attivi. Prenditi tutto ciò che ti spetta. Amati e rispettati, rivolgi a te, tutte le tue cure ed il tuo amore. Perdonati, per la tua fragilità. Prendi per mano quella piccola bambina dai capelli color del grano.

Perdonati per la fragilità della tua infanzia e della tua innocenza!

Poi c’eri tu, nata da altri tempi, piccola che beveva solo latte. Fino a sei anni, hai bevuto solo latte e solo dalle mani di tua madre. Avevi tante sorelle e fratelli, più di quanti ne riuscivi a vedere e a contare, piccola!

Era una famiglia molto attenta alla forma, all’educazione, alle maniere gentili, alla generosità, alla rispettabilità.

Che parola la rispettabilità! Purtroppo solo una parola! Per altro, una di quelle parole di cui ci si riempie la bocca, usata unicamente per farne un canone di vita, una regola ferrea, una linea guida.

Tua madre ci teneva molto e si sforzava che non si mancasse, che non si uscisse dai canoni, dalla rispettabilità, che non si mostrasse, che non si facesse parlare e sparlare, ma poi lei per prima a suo tempo era uscita dagli schemi, ma quella era un’altra storia, una di quelle che non si può conoscere, quelle sepolte nel dimenticatoio e nel silenzio.

Lei teneva ben nascosta la sua verità, la sua realtà e tu a tua volta, quando l’hai conosciuta l’hai portata segretamente con te, fino alla tomba, senza mai rivelarla a nessuno, guai! Ne sarebbe andato del buon nome, del rispetto di quella famiglia, di tua madre soprattutto.  Quella madre infaticabile, instancabile solo per voi. Lei faceva di tutto e tutto da sola, si toglieva anche il pane di bocca per voi. Tutto da sola, col sudore della fronte ed il lavoro delle sue uniche braccia, senza dire una parola, ma nutrendo segretamente un odio e un rancore crescente per quell’uomo, che è diventato suo marito solo molti anni dopo e ha seppellito molto presto.

Vostro padre tornava ogni tanto, per farsi vedere, ma poi ripartiva in men che non si dica, senza contribuire alla famiglia e ai figli, se non depredandola. Aveva sì un nome importante, una famiglia importante e possedimenti, ma voi non ne avete mai visti, non ne avete mai potuto godere di tutto questo sfarzo, presente solo nelle parole e nei racconti.

Non per niente lo chiamavate Babbo Natale!

Compariva una volta all’anno coi suoi bei doni e i racconti fantastici, ma in breve era già andato a fare il Babbo Natale, da un’altra parte del mondo.

Tuo padre non aveva fatto certo di meglio, in termini di correttezza e rispettabilità, anzi, lui sì che ne aveva fatte! Aveva girato per lungo e largo e in ogni luogo aveva messo su un nido, con moglie e figli annessi e connessi, ma anche questo, per quanto hai potuto l’hai taciuto, a chi veniva dopo di te, almeno! Certo, a chi viveva accanto a te, al vicinato, al piccolo paese era quasi impossibile nascondere, le voci corrono veloci, c’è sempre qualcuno che vede, che interpreta un dettaglio, una frase, un’azione ….. e poi al bar, sotto i fumi dell’alcool e dell’illusoria vanagloria si narrano molte cose indicibili.

Di cose se ne sapeva e ne giravano, di parole, dicerie, allusioni, frasi troncate ma la famiglia è la cosa più importante, deve essere salvaguardata a tutti i costi, anche a costo dell’amore e della vita. A tutti i santi costi, non dimenticarlo piccola!

Un giorno, molti anni dopo, ti sei lasciata sfuggire che quando andavi a scuola i tuoi compagni ti hanno rincorso e preso a sassate. Non si sa bene perché l’hai raccontato e con quale finalità. Quando ti è stato chiesto perché, tu hai risposto “Perché avevo la cartella di cartone. Non potevo permettermi altro!”

Ma tu, c’avrai veramente creduto a quello che stavi dicendo? Ci credevi davvero?

Perché per quanto i bambini possono essere crudeli, forse i motivi erano altri. Lo sai piccola, che erano altri. Dentro di te, lo sai molto bene. Ma è sicuramente più lieve pensare che loro erano così crudeli, verso una compagna più sfortuna, più povera di loro, insensatamente crudeli.

E sicuramente tu non ti difendevi, non ti opponevi, non presentavi nessuna rimostranza. Non facevi nulla perché i motivi erano altri. Ameno i motivi di cui vergognarsi.

Non era certo la povertà o la cartella di cartone, ciò di cui ti vergognavi mia piccola, ma il disonore della famiglia, le mille vicende impossibili da nascondere, l’origine della tua nascita, dei tuoi fratelli e sorelle.

Tu lo sapevi, ma presa da quel tuo mutismo, da quel grande rispetto, da quel patto mortifero non hai mai aggiunto altro. Quel patto con tua madre e i tuoi fratelli conviventi, era così forte che ti saresti buttata anche nel fuoco pur di non rivelare, pur di non mettere a nudo, pur di non svelare. C’era un’omertà insensata e rischiosa che tu non hai mai infranto, come se l’origine fosse molto più importante di tutto ciò che viene dopo, di te stessa, dei frutti del tuo coltivare, sentire, amare, fare.

Tu, hai abbandonato te stessa da sempre!

Non si sa bene perché, ma quel legame con tua madre era così forte, inespugnabile, ma anche deleterio e insano. Ti aveva insegnato che ci si può fidare solo della famiglia, che il mondo è pericoloso, che i panni sporchi si lavano assolutamente in casa, che il legame con i genitori è indissolubile, oltre la vita e la morte stessa.

Avevi creduto e portato avanti questo patto oltre ogni ragionevole senso. Anche quando lei ti ha abbandonato e tradito, sì ti ha tradito nella tua decisione di vita più importante, imponendoti la sua scelta, pena il perderla per sempre, tu avevi dolorosamente ceduto. Tu piccola, non hai osato andarle contro, contraddirla, dire sì a te e alla vita, hai ceduto per sempre il tuo destino, per un amore incastrante, imprigionante, che ti nutriva solo di latte, ormai annacquato da tempo.

E così hai proceduto per tutta la vita, sottomessa e ubbidiente, repressa ma anche depressa e piena di rimpianti, sogni nascosti. Da lì in poi hai fuggito costantemente il presente, non hai vissuto, né goduto dei piccini che ti sei regalata. Sei fuggita sempre.

Alla fine, senza saperlo li hai traditi, esattamente come lei aveva tradito te. Non ti sei donata pienamente e hai passato loro il tuo pacchetto, il tuo destino, esattamente come lei ha fatto con te!

Col silenzio ha mantenuto una catena forte e resistente, hai portato quei segreti con te nella tomba e loro portano sulla loro schiena un peso di molte persone, di molte sofferenze, di tanti destini infausti, di persone non viste né riconosciute nel loro diritto.

Ti hanno tolto la vita, piccola che beve solo latte dalla mamma. Hai mantenuto un silenzio che non aveva senso di essere, perché la realtà non cambia comunque. Quel patto tacito non ha reso onesto chi non lo era, non ha restituito dignità ad una famiglia che non l’aveva, non ha prodigato calore e presenza a chi non lo riceveva. La parola però, poteva cambiare la tua sorte e quella della tua famiglia, la verità poteva fornirti altre strade e tu c’hai rinunciato.

Tu sei stata abbandonata, ti sei abbandonata e hai abbandonato a tua volta! Era un destino segnato, che nessuno ha osato scalfire, contraddire e così è andata.

C’era una bambina molto coraggiosa, che era sempre contro tutto e tutti, lei andava per la sua strada imperterrita, era la pecora nera in casa e fuori casa, era bollata qualunque cosa facesse, non aveva più molto scampo, ormai da nessuna parte.

Aveva uno specchio nella sua camera e talvolta ci si guardava, capitava  di riconoscersi in quello specchio, ma ancora più spesso capitava di non sapere chi fosse! Talvolta, quell’immagine le suonava estranea, interrogante, incerta, dubbia, rabbiosa, si chiedeva perché senza trovar risposta.

Era il periodo di Natale quanto tu, allegro canarino, che amavi cantare facevi parte del coro della parrocchia. Ti avevano dato da studiare alcune canzoni in inglese, quelle in italiano non avevano bisogno di essere studiate, le imparavi alla perfezione in un attimo. Per quelle in inglese occorreva un po’ più d’impegno, eri ancora piccola e quelle parole erano estranee ed incomprensibili. E’ arrivata la tua cara mamma e ti ha chiesto, si fa per dire chiesto:

“Cosa stai facendo?”

Naturalmente, senza aspettare la risposta, che non le interessava.

“Invece di perdere tempo con le sciocchezze, perché non studi?”, il contraccolpo dissacrante.

E tu, hai smesso, hai messo via per sempre quelle carte. Non per ubbidirle, non per accontentarla, del resto tu eri l’oppositiva per definizione, le hai messe via per desolazione, delusione, per sfinimento, come se rappresentasse l’ultimo barlume di piacere, che ti veniva inesorabilmente tolto.

Non ne hai diritto, cara mia! Devi piegarti, fare ciò che ti dicono, ciò che è giusto fare, ciò che fanno tutti. Le sciocchezze le devi lasciar perdere, non ti danno il pane! Non si può sempre giocare.

Ma ….. penso proprio che non ti sia dimenticata, cos’è successo quando al momento del coro, tu cantavi solo le canzoni italiane. Hai sentito una voce a fianco a te “Hai visto? Gli altri cantano anche in inglese, tu no! Hai visto come sono bravi, loro?”

Lo specchio ha rimandato un’immagine che non ti apparteneva. Non la riconoscevi più. E non si sa quale fosse vera e quale no. Desolazione.

E’ mai possibile che non si ricordasse cosa aveva detto? Possibile che non si rendesse conto?

No, in effetti non si rendeva conto, lei non aveva aspettato la risposta, lei non l’aveva neanche fatta la domanda, lei non voleva effettivamente sapere cosa stavi facendo, cosa fossero quelle carte.

Così, s’è rinnovato il senso di svilimento, di deprivazione, d’incomprensione, di solitudine più profonda, inesorabile, ineluttabile, l’abbandono. Ti sei presa quel rimprovero e non hai mosso ciglio, hai ingoiato e sei sprofondata un altro po’, ti sei inchiodata al suolo ancora un altro po’.

E, tu con te stessa hai imparato a fare esattamente la stessa cosa, mia cara piccina. Ti sei sempre lasciata sola! Ti sei abbandonata. Ti sei tagliata le gambe, ti sei inchiodata e appesantita. Non ti sei riconosciuta nello specchio, per molti molti anni. Non hai coltivato te stessa ed il tuo animo che aveva tanta musica dentro.

In mille e mille occasioni hai trascinato la tua stessa vita con solitudine e sofferenza.

Forse per estraniarti, forse per ritrovarti, per sfidarti o non si sa perché, amavi andare sulle montagne russe fin da piccola, ma quella volta, che non sembrava diversa da tutte le altre, quella volta tu sei salita e hai chiuso gli occhi, ti sei lasciata sola, profondamente sola anche lì!

E’ stata l’angoscia più totale. Non c’era scampo. Hai tremato di spavento e ti sei rintanata dentro di te, fino allo spasmo, fino quasi a scomparire, a scoppiare di spavento. Ti sei aggrappata fortemente a quell’asta, fino alla fine, senza più riuscire ad aprire lo sguardo sul mondo, senza più guardarti in uno specchio diverso dal tuo.

Nascondendoti la vista del mondo che si muove vorticosamente, hai nascosto anche la vista di te stessa, di una te che può muoversi insieme al mondo. Hai subito tutto, tutte le strapazzate, tutte le sterzate, tutte le accelerazioni, le salite e le discese vorticose da sola, senza risorse, senza confine. Inesorabilmente.

E così è stato, da lì in poi hai compiuto il tuo destino, sei scomparsa agli occhi del mondo, hai vissuto tutto da invisibile, da persona insignificante, che si nasconde agli occhi di tutti, che teme ogni minima cosa e guarda per prendere, per capire, imparare silenziosamente, per succhiare e nutrirsi, nascondendo quel mostro che si celava dentro di te, nascondendo l’immagine dietro lo specchio.

Continuavi a guardarti allo specchio, continuavi a non riconoscerti. Ti eri nascosta davanti alla vita, ti eri vergognata di te, annullando ogni tua risorsa, annullando il potere degli occhi per guardare, della voce per farti sentire, dell’imposizione del corpo per farti vedere! Sei salita e scesa da quelle montagne russe, senza guardare cosa ti stava succedendo, senza poter scegliere di esserci e così hai fatto per tanta parte della tua vita.

Hai perso la vita e nessun rimpianto ti farà tornare indietro.

Alla fine, per non continuare a rincorrerla vanamente hai dovuto rinunciare a lei, hai dovuto lasciarla andare, permetterti di perderla, l’ultima cosa che volevi. O te o lei! Hai dovuto scegliere per la cosa più dolorosa, che potesse capitarti!

Hai rinunciato a quella madre tanto importante e inafferrabile, quella grande donna che non aveva saputo trovare sé stessa e aveva trovato il suo posto, unicamente come mamma. Ormai eravate tutti grandi e lei un po’ faceva notare fra le righe della libertà, che non vi vedeva poi così tanto, che non chiamavate, sì che in fin dei conti non avevate più bisogno di lei. Come dire che c’era una scelta da compiere, bisognava andare da una parte o dall’altra.

Lei sentiva questa scelta.

Erano parole misteriose e confuse, che echeggiavano sotto lievi gesti d’amore e di rimprovero. E così un giorno, l’ultimo giorno in cui l’hai vista mia piccina, lei con una frase sibillina, di avvertimento ti ha detto “se mi dovesse succedere qualcosa, la collana che ti spetta la trovi là, i libretti sono là e ……”

Ma tu, non l’hai neanche ascoltata, hai preso quella frase come una delle tante raccomandazioni, una delle infinite preoccupazioni e ansie inutili, te ne sei andata senza ascoltare, ridendo e un po’ deridendola. “Non ridere” ti ha detto. Queste parole ti hanno un po’ inquietato, ma non potevi che continuare ad andare e ignorarle.

Era già un po’ che se n’era andata, aveva cominciato a ritirarsi dal mondo, a sentirsi male, ad avvicinarvi agli ospedali, come per prepararvi, come per ammonirvi, come per ricordarvi della sua presenza e della sua partenza. C’era qualcosa che non ti tornava, che suonava come un contrappunto, ma non osavi indagare, rifletterci, non osavi, non potevi, altrimenti non saresti più andata davvero e sarebbe stata la morte per te.

Certo, avresti potuto darle un bambino, qualcuno da farle accudire, il suo nuovo impegno, molte cose da fare, di cui occuparsi, l’avresti fatta sentire nuovamente utile, importante, indispensabile.

In questo modo si sarebbe rinnovato e rinsaldato il rapporto. Ma tu non volevi creare un altro bambino-ostaggio, tu non eri pronta per avere un bambino, tu eri ancora una bambina spaventata e disorientata, non avevi ancora trovato la strada! Non potevi, non ce la facevi. In fondo a te, lo desideravi tanto, tantissimo, ma non potevi, non era ancora arrivato tempo per questo. Volevi finalmente vederti con lo sguardo del mondo e sul mondo.

Non avevi ancora cominciato a vivere, stavi timidamente riaprendo gli occhi, per vedere cosa succedeva su quella giostra e non ce la facevi proprio a caricare un altro passeggero.

Se avessi avuto un bambino, sicuramente lei non se ne sarebbe andata, si sarebbe sentita nuovamente chiamata alla vita, al ruolo, all’amore da dare e ricevere, ma tu non saresti più tornata e il bambino-ostaggio forse non te l’avrebbe mai perdonata!

E così, come preannunciato lei se n’è andata, è stata portata via con gran violenza, da un momento con l’altro, ma lei è riuscita ad andare con classe anche questa volta, compiendo l’ultimo gesto di grande amore e generosità.

Mia piccola bambina, a questa e a tante altre cose hai rinunciato! Quanta sofferenza, quanto dolore, quanta umiliazione, quanta desolazione hai sofferto! Sei sola, sola, completamente sola!

Sei cresciuta sola e abbandonata, dovevi solo stare zitta, non farti vedere, né sentire, non essere punto e basta. Dovevi solo ubbidire e piegarti, niente più! Rigare dritta come un soldatino, occuparti dei fratelli più piccoli, essere riconoscente, fare, studiare, guarire …….

Questa era la tua sorte. Stare rinchiusa in uno scantinato, in un baule e non disturbare chi sapeva il fatto suo! Lasciar fare a chi era grande e capace, lasciare il posto alla razionalità, al raziocinio e al duro impegno quotidiano, senta tanti grilli in testa.

Ti abbiamo sepolta piccola, sotterrata, depredata, offesa, bistrattata, ma tu non sei morta. Neppure questo ti ha ucciso! Per fortuna!

Ancora oggi sei viva e straviva! Non ti sei mai arresa, vivi nell’ombra oppressa e soppressa, ma ci sei, scavi nel buio, ti aggiri furtiva, senza diritti ma ci sei, niente si è acquietato in te!

E’ un mistero da dove arrivi tanta energia, tanta vitalità, tanta forza e capacità di vivere.

C’è ancora la rabbia, la tristezza, il dolore più profondo, c’è paura. Una paura inesorabile. Non hai diritti, non hai diritto a nulla, ma tu non ti arrendi, non ti puoi arrendere, non ce la fai.

Tu sei viva!

Hai rinunciato a tante cose, a tutto, alla dignità, al posto che ti spettava, all’attenzione, alla realizzazione, alla tua ingenuità, alla genuinità, a mille persone, cose, occasioni, giochi, eventi, alle canzoni in inglese, ai riconoscimenti, ma non hai mai rinunciato alla vita. Poteva essere una povera vita, misera, depauperata, rattristata, rancorosa, ma tu non c’hai rinunciato, mai!

In fin dei conti, hai un unico grande bisogno: essere amata! Hai tanto amore da dare e vuoi solo essere amata!

E allora credo proprio che ti spetti piccola Gruffalina. Sì ti spetta giustamente. E’ giusto che tu venga amata, che tu abbia ciò che chiedi.

 

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