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22 aprile 2013 1 22 /04 /aprile /2013 14:38

Prontuario per il Bambino Triste

 

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Mi rivolgo a te Bambino triste, ma so che non potrai leggere tutto questo, anche perché se tu lo facessi sarebbe assai grave.

Sarebbe assai grave se tu potessi navigare su internet indisturbato e solo, dimostrerebbe ancora di più che sei triste e veramente abbandonato a te stesso.

Mi auguro quindi, che questo prontuario ti arrivi attraverso il tuo papà e la tua mamma, attraverso uno zio accorto, una nonna o un insegnante sensibile, oppure …. sarebbe assai bello se arrivasse a quel bimbo di ieri, al bambino che si nasconde nei tuoi genitori, al bambino che sono stati, per poter alleggerire le loro pene, per far pace con la loro storia, col passato, con i propri genitori e permettere così a sé stessi di essere oggi, genitori migliori per te, piccolo mio!

Bhe, dopo questo preambolo, vado ad iniziare con le indicazioni del prontuario stesso, spero di non usare termini troppo difficili per te che sei solo un bambino!

Nel caso, chiedi pure ….

 

-       Primo fra tutti, tieni presente che la tristezza è una condizione comune del bambino.

Sicuramente ti stai rivoltando sulla sedia, ti sembrerà un’ingiustizia e forse lo è, ma per la verità non lo vuole nessuno. E’ così! Una constatazione.

Voglio dire che il mondo degli adulti e dei bambini è tanto vicino quanto lontano. Non è sempre facile capire di cosa hai bisogno, non è facile venir meno ai bisogni propri di adulto per soddisfare i tuoi piccolo, non è sempre possibile perché il mondo va in un certo modo, ci sono ritmi e impegni che non contemplano i bisogni dei bambini!

Il risultato è che voi tutti bambini, provate in certi momenti tristezza e frustrazione, per il mancato incontro con gli adulti che amate tanto, che ammirate e da cui dipendete.

Non voglio dire mal comune mezzo gaudio, ma che ciò di cui soffrite non è fatto a voi specifici bambini, Daniele, Arianna, Manuel, Rita …. ma viene fatto per una mancanza all’origine, da parte di chi vi sta accanto.

Non c’è nulla contro di voi, sono gli adulti che sono carenti!

 

-       In secondo luogo, c’è da dire che i vostri bisogni sono tanti, veramente tanti ed è impossibile soddisfarli tutti! Non che siano sbagliati, ma di fatto è umanamente impossibile.

A voi può sembrare di non poter vivere senza certe risposte, senza la soddisfazione di certi desideri, ma vi assicuro che non è così. La frustrazione permette di crescere  e di fortificarsi, di trovare delle soluzioni creative. Proprio grazie a certi NO, capirete che potete fare a meno di certe cose, o che potete farne a meno in quel momento, ci sono altre soddisfazioni!

Lo so che vi sembrano scuse, che non lo capite sul momento. Vi chiedo unicamente di valutare la buona fede di chi vi sta accanto.

Valutate se, chi vi sta accanto vi dice No per definizione, per il gusto di rifiutare, per sadismo, per indifferenza, vigliaccheria, oppure per incapacità, impossibilità, debolezza, malattia, per il vostro bene, per un’idea educativa, ecc.

Lo so che il risultato non cambia, ma cambia la relazione e la fiducia che avrete in chi vi dice No. Cambia la vostra capacità di accogliere dei rifiuti!

 

-       Comprendo molto bene, piccolo mio, che in certi momenti per te la vita è veramente dura, che non ti senti ascoltato, compreso, accolto, valutato, soddisfatto ed è un’esperienza veramente cruda e dura, mette di fronte ad un muro, di lì non si passa.

Ti chiedo adesso, di mettere insieme il vuoto con il pieno, di recuperare tutti i pezzi del puzzle.

Ti piacciono i puzzle?

Bhe, considera la tua quotidianità come un insieme di pezzi, che messi uno accanto all’altro creano un’immagine più completa, la tua, quella della tua vita.

Eccoci, adesso prendi tutti i pezzi della tua giornata, delle tue giornate che si susseguono, dei momenti e dei contesti e riuniscili. Cosa viene fuori?

Gli adulti che ti circondano sono sempre frustranti?

Ti dicono sempre di no?

Ci sono dei SI? Quali?

Quali sono i momenti che trascorrete insieme piacevolmente?

Quando ti soddisfano nelle tue richieste? E come lo fanno? E tu, come ti senti?

Dopo aver risposto a queste domande, guarda bene l’immagine che hai davanti.

Sono davvero così terribili? Non ti danno assolutamente niente di buono?

Qual è il bilancio dei NO e dei SI?

 

-       Tieni anche a mente che la tristezza è un sentimento importante, rappresenta il vuoto, la mancanza che dà la misura al pieno, che ne permette la valorizzazione.

Sì, scusa, sto parlando difficile. Voglio dire che c’è tristezza quando c’è anche gioia. La tristezza deriva dalla sensazione di aver perso o di non avere più quella sensazione di benessere, equilibrio e gioia, ma riflettete, se manca, vuol dire che è una condizione che conosciamo bene!

Sentirsi un po’ tristi, è vero non fa piacere, però può essere anche una sorta di spinta a fare qualcosa per ritrovare quel senso di spensieratezza tanto desiderato.

 

-       Vorrei anche che ti fermassi a riflettere sulla tua importanza, caro piccolo.

So che non ne sei consapevole, che ti sembra di essere l’ultima ruota del carro, che spesso nessuno ti chiede il parere o cosa vuoi, ma di fatto tante cose girano intorno a te!

Pensa al mercato economico, sì scusa è un parolone, voglio dire che molti negozi vendono e vivono grazie a tutto l’occorrente o ritenuto tale, per bambini: vestiti, scarpe, piatti, piattini, biberon, scalda biberon, gira minestra, seggiolini per auto, per il tavoli, seggioloni a sé, lettini, sdraine, lenzuoli, coperte, mobili per camerette, cibi precotti, liofilizzati, biscotti per il latte, prime pappe, pappe di proseguimento …… non ti dimenticherai mica dei giocattoli, vero? Poi tricicli, biciclette, caschi, pattini, tutti gli accessori per i possibili sport e via via è una lista infinita, te la risparmio perché sei piccolo e ti stai già annoiando.

Poi ci sono tutti i medici, le medicine e le farmacie che lavorano e vivono più che degnamente, grazie a te mio piccolo. Ma anche qui lasciamo fare.

Poi ci sono i parco giochi, le aree addette ai compleanni, nidi, asili, scuole, palestre …..

Ma ancora più di questo, so che è un pensiero difficile da fare per un bambino, ma sappi che i tuoi genitori vivono per te e hanno strutturato la loro vita in funzione di te, dei tuoi orari, ritmi, delle esigenze.

Lo so che non ti sembra, che non lo vedi ma è così, la loro vita si stravolge e cambia radicalmente dal momento in cui nascete, anzi anche un po’ prima.

E i nonni? Avete pensato al fatto che voi ridate un senso a delle persone, che altrimenti non saprebbero come definirsi?

Non hanno più lavoro, non hanno più energie, non possono fare grandi progetti futuri, il corpo non ha più la prontezza di un tempo. Fare i nonni diventa un impegno importante, riconosciuto, talvolta indispensabile. L’affetto che gli dai, è incommensurabile, anche se non lo dicono apertamente, tu offri gratuitamente un affetto che non ha prezzo. E poi …. sai, per alcuni è una sorta di seconda possibilità.

Adesso possono fare ciò che non sono riusciti con i tuoi genitori, ovvero con i loro figli, possono recuperare ad alcuni errori commessi. E’ un gran regalo!

E un’altra grande funzione, sai qual è? Grazie a te, spesso genitori e figli fanno la pace, spesso mettono via rancori e dissapori antichi. Di chi parlo? Dei tuoi genitori e dei tuoi nonni! Per te, per il tuo bene e per l’affetto che mostri loro, possono riuscire a far pace, sai?

Realizzano che l’uno ha bisogno dell’altro, da molti punti di vista!

 

 

Bhe, hai capito ora?

Sei fondamentale, indispensabile, importante, sei un tesoro!

Lo so che spesso non ti sembra, che non vedi tutto questo, che capita troppe volte che i grandi non ti capiscono, che interpretano male i tuoi bisogni o mettono davanti i loro, che non sanno ascoltarti e darti tempo. So tutto questo e capisco la tua tristezza, il rammarico e la rabbia, però …….

Se puoi, fai pace con loro, pensa che loro non sono così perfetti come pensi che siano o come vorresti che siano. Sono sbadati, maldestri, egoisti ed egocentrici, proprio come te che sei un bambino.

Loro sono cresciuti ma talvolta si comportano come bambini! E si sa che coi bambini ci vuol pazienza.

Suvvia, forse fra bambini vi capite e potete giocare allegramente un po’ e anche piangere tristemente un po’!

Hai tutti i motivi di essere triste talvolta e di piangere ciò che non ti hanno dato e non ti danno, pur tuttavia mio caro piccolo pensa che non sei solo, che loro ci sono e sono accanto a te e ora anche dentro di te!

Non cacciarli, non fuggirli, mettili insieme ai tuoi bisogni, alle mancanze, alle carezze, ai doni, ai momenti belli e ….. vediamo cosa succede!

Credo che, dentro te fiorirà qualcosa di importante.

Adesso riposa beato piccolo bambino che sei e sei stato!

 

 

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12 dicembre 2012 3 12 /12 /dicembre /2012 12:15

Automobilista Disperato O Folle?

Automobilista alle prese con sé!

 

 

 

 

Un invito a riflettere sulla guida in auto: occhio ragazzi!

Può sembrare banale, che c’è di difficile?

Basta seguire le vecchie istruzioni dei nostri insegnanti di scuola guida.

 

-      Muoversi all’interno della carreggiata, secondo il giusto senso di marcia

-      Seguire le strisce, di direzione, di prescrizione, di divieto, ecc.

-      Seguire i cartelli stradali, verticali, a terra, in alto (li ricordate no? Gli stop, dare la precedenza, scuole nelle vicinanze, manto sdrucciolevole, ecc.)

-      Mantenere la corretta velocità, in base al tipo di strada di percorrenza

-      Segnalare sempre gli spostamenti di carreggiata

-      Controllare gli specchietti retrovisori per spostamenti, sorpassi, per l’apertura dello sportello, segnalazioni acustiche, ecc.

 

Non sembra difficile, no?

In realtà lo è! Non è mica così semplice viaggiare in auto oggi.

 

Voi procedete per la vostra corsia, secondo una tabella di marcia, rispettando tutti i codici stradali possibili e immaginabili, ma ….. ma ad un certo punto potreste trovarvi a subire un sorpasso a destra, magari uno a destra e uno a sinistra e non sapere più dove guardare.

Se osate andare piano o secondo una velocità prescritta, scatteranno sicuramente gli esigenti, quelli che hanno fretta, che hanno mille impegni e suoneranno, vi taglieranno la strada, imprecheranno i peggiori aggettivi del mondo, chi chiameranno di tutti i nomi…..

 

Lo stesso vale agli incroci, non perdete alcuna occasione, perché sarete finiti. Meglio tirare su con un po’ di coca, che attiva l’attenzione, perché non si può aspettare, bisogna essere scaltri e veloci, via, scattare a più non posso!

 

Succede di tutti colori, magari pedoni che attraversano fuori dalle strisce, con andamento lento e diagonale, che sembra non finiscano mai! Magari neanche guardano, troppo impegnati a pensare ad altro o a parlare al cellulare.

Può capitare poi, che chi vi sta dietro vi incalzi con clacson, sfanalate, accidenti vari, dovete farlo passare a tutti i costi e subito, subito, immediatamente!

 

Può capitare che mentre voi parlate e gesticolate in auto con chi vi accompagna, magari i vostri figli, il fatidico automobilista che vi vuol sorpassare a tutti i costi perché ha molta fretta, la viva come un fatto personale e interpreti i vostri gesti rivolti a lui. Non mancherà allora di farvene a sua volta e magari di sbraitare dal finestrino, quando finalmente riuscirà a sorpassare! Sperate anche, di non fermarvi al semaforo, se è veramente spietato scenderà anche dall’auto per chiedervi cosa volevate dire! I pericoli, si nascondono ad ogni angolo.

Non dimentichiamoci poi, le auto parcheggiate ovunque, dove non c’è posto, subito dopo una curva, nei pressi di un incrocio o in mezzo alla strada.

 

Perché?

Bhe, per chiedere un’informazione, per scambiare un saluto con un amico fermo nella corsia opposta, per far scendere o salire un passeggero, per non dover camminare troppo, insomma per fare i propri comodi!

Non pensate poi, di passare tranquilli il tempo della fila, sicuramente vi salterà a dosso chiunque possa chiedere soldi, per lavare vetri, per chiedere l’elemosina, per derubarvi, ecc.

Poi …. forse la cosa peggiore è che l’auto non scatena solo gli altri automobilisti, ma anche noi stessi. Noi, che pensiamo di esser le persone più equilibrate di questo mondo, che siamo sempre pazienti, gentili, carini, alla fine chiusi in quella scatoletta, quando meno ce l’aspettiamo ….

 

Daremo il via al mostro che c’è in noi.

 

Uscirà fuori la nostra Ombra, il lato peggiore del lato peggiore. I nostri modi passeranno dall’aggressività, alla marcata violenza, ad un linguaggio scurrile, insensato, ad atteggiamenti incontrollati, folli e …. Chissà cos’altro!

Non l’avremmo mai detto, ma accade …. E possiamo anche nasconderlo, far finta che non accade, tanto siamo soli con noi stessi.

Anche questo …. Ci dice come noi stiamo con noi stessi e con gli altri. Alla fine l’auto, diventa una sorta di macchina della verità, la cartina tornasole!

 

Gli altri che conosciamo non ci vedono, ma NOI SI’!

(Tratto dall'Ebook Come sto con me come sto con gli altri)

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8 dicembre 2012 6 08 /12 /dicembre /2012 14:49

Riflettendo su .... L’assenza della Madre

Madre Buona/Madre Cattiva

 

                                                            Dott.sa Sabrina Costantini

 

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Vorrei riflettere con voi, su un elemento presente in molte fiabe: l’assenza della Madre.

Nelle storie che parlano di bambini o adolescenti, l’assenza assoluta della Madre o l’assenza della Madre Buona, è un elemento costante e rappresentativo.

L’assenza assoluta (nel senso che non c’è e non se ne parla) ad esempio la riscontriamo in La bella e la bestia, Il principe ranocchio o Errico di ferro, Storia di uno che se ne andò in cerca della paura, Re bazza di tordo, Il forno, Lo spirito nella bottiglia, Barbablù (storia e non fiaba), ecc.

L’assenza della Madre Buona invece la verifichiamo in Cenerentola, Fratellino e Sorellina, Hänsel e Gretel, Biancaneve, La guardiana delle oche, ecc.

Quest’elemento narrativo costituisce un elemento evolutivo fondamentale, un punto di partenza per un percorso di crescita.

La madre infatti, rappresenta la prima figura fondamentale, colei che ha fornito la vita, il nutrimento, la protezione, il calore, il rapporto esclusivo. Rappresenta anche la prima fonte di identificazione.

Mentre per il maschietto, ad un certo punto passare al legame col padre, diventa una necessità nella formazione dell’identità, per la femmina non è così e le cose si complicano. L’identità sessuata infatti, per il maschio arriva dal padre, per cui il bimbo si rivolgerà naturalmente al padre, modificando il rapporto simbiotico con la madre in una direzione di maggiore autonomia, senza che questo urti emotivamente la madre. La madre non si sentirà rifiutata da tale allontamento, ma lo vivrà come necessario e naturale.

Per la bambina, le cose sono più complesse, apparentemente infatti, non ha nessun motivo per ridurre la forza del legame al femminile. L’identità sessuata proviene ancora dalla madre e qualora se ne allontanasse, rappresenterebbe agli occhi della madre, come un rifiuto.

In verità, è indispensabile che anche la bimba ad un certo punto allenti il legame simbiotico, per trovare la propria identità, fatta di una sua peculiare individualità. Ma, questo processo non è affatto semplice e lineare, perché la madre potrebbe sentirsi deprivata di un ruolo e potrebbe vivere questo processo, come un rifiuto, competizione, perdita, invecchiamento, ecc.

Parimenti, per la bimba è difficile lasciare il legame conosciuto e rassicurante con la madre, per avventurarsi da sola nel mondo, correndo il rischio di perdere l’approvazione, l’appoggio e l’amore sicuro della genitrice.

Bhe, queste fiabe ci suggeriscono un processo necessario e sano. Se non ci si stacca dalla madre, almeno dalla madre buona e non si impara a superare le insidie della madre cattiva, allora non si troverà mai la propria fortuna, la vera strada che ci appartiene.

La madre buona e la madre cattiva (di solito rappresentata dalla matrigna o dalla strega), non rappresentano solo due possibili madri, o meglio due lati della stessa madre, ma anche due aspetti di sé.

La fiaba le separa, ce le presenta come elementi diversi, perché se vissuti su due persone diverse, sono maggiormente accettabili, ma lo scopo finale è di mettere insieme la parte buona e quella cattiva, quella accettabile e quella inaccettabile, sia della madre che di sè.

Dal momento che per il bambino è difficile lasciar andare la buona madre, percorrere una strada diversa, andare verso ciò che è sconosciuto e pauroso, attraverso la morte della madre, o la sua totale assenza, le fiabe introducono le fasi obbligate della crisi, della confusione, della scelta e dell’evoluzione.

Per esempio se guardiamo la famosa fiaba Hänsel e Gretel, vediamo che la cosa è ancora più sottile, in verità la fiaba non si dice che la madre è morta, ma soltanto che un taglialegna viveva con la moglie ed i figli. La donna viene definita matrigna, solo dopo quando propone al marito di abbandonare i bambini nel bosco, sentenziando invisibilmente che è una cattiva madre (matrigna) quando antepone il proprio bene a quello dei bambini. Di fatto però non si parla della morte della madre e della sua sostituzione, come avviene in altre fiabe e questo avvalla l’idea che non si parli di matrigna in termini emotivi, cioè di “cattiva madre” e non di madre “non biologica”.

L’assenza della buona madre, o di aspetti di accudimento (non a caso la madre vuole abbandonarli perché non c’è abbastanza nutrimento per tutti), impone ai due bambini di darsi da fare, di utilizzare le proprie risorse.

Il fatto che Hänsel utilizzi le proprie strategie per tornare a casa, ci mostra la resistenza al cambiamento e l’attaccamento all’oralità, alla dipendenza. Infatti, i genitori, per liberarsi di loro e quindi di due bocche da sfamare, devono portare i bimbi ancora più lontano. Questo imporrà loro di prendere contatto con la propria oralità avida, che li condurrà direttamente nella tana della strega, rischiando di essere divorati. Per sopravvivere, dovranno andare oltre l’oralià, in direzione della separazione- integrazione fra maschile e femminile.

Infatti, per sconfiggere le parti distruttive dell’oralità (strega divorante-madre che risucchia l’identità), è necessario che i bimbi si separino (nel salire sull’oca che li traghetterà da un lato all’altro del fiume) e che uniscano le loro forze diversificate, per tornare a casa.

Se guardiamo bene infatti, il rischio di Hänsel risiede nella possibilità di essere inglobato, quello di Gretel consiste nel rischio di essere serva di una donna, che le comanda fin nelle minime azioni quotidiane.

Non a caso, i bimbi dopo aver sconfitto la strega ed essere passati dal fiume (che all’andata non hanno trovato), torneranno a casa con le tasche piene di ori e preziosi! Sono più ricchi di prima e la matrigna è morta! E al rientro è il maschile ad accoglierli.

Parimenti, Cenerentola inizia il suo percorso da orfana di madre buona, questa condizione le imporrà di confrontarsi con le richieste esigenti di una madre cattiva e con la rivalità di sorelle invidiose ed egoiste. Il confronto quindi, è con varie parti di sé, con un legame simbiotico, ma anche con la competizione al femminile, con la rivalità e l’invidia che ogni donna sperimenta nel proprio processo di crescita.

Grazie al recupero di una magia, della fata, della madre buona internalizzata, troverà la condizione di base per andare verso il proprio destino, la sperimentazione della propria identità di donna, alla ricerca del proprio compagno di vita. E’ attraverso questa forza interna, che contravviene al divieto di mostrarsi al ballo, “occasione mondata di una giovane donna in cerca del principe”.

Questa fiaba ci suggerisce la via per la crescita, costellata dalla giusta misura di intraprendenza, individualità e bontà d’intenti. Infatti, finchè Cenerentola tollera le angherie della matrigna e delle sorellastre, subendo ogni cosa, sarà al massimo della dipendenza, quando invece decide di desiderare una sua partecipazione al ballo, nel mondo, le cose cambieranno, combatterà ad armi pari. Il primo passo è desiderare e per farlo è indispensabile individuarsi, separarsi e contravvenire ai dettami imprigionanti.

Vassilissa, una fiaba russa assai interessante, ci suggerisce in modo assai chiaro quale deve essere la figura di un buon femminile, sia come figlia che sceglie la propria strada, che come madre che le permette di farla.

La storia inizia con la morte della madre (buona), che in punto di morte regala alla figlia una bambolina, vestita come lei, che la guiderà ogni volta che si presenterà una difficoltà. Vassilissa deve fidarsi di lei, interrogarla, ma non deve mai dimenticare di nutrirla. La bambola rappresenta una parte della ragazza, ovvero l’istinto, che sa cosa è bene per lei.

Presto Vassilissa sarà alle prese con una matrigna e due sorellastre, tre “roditori” (come a ricordare la rabbia che rode e macera), che per la loro invidia spingono la ragazza sempre accondiscendente-dipendente oltre il bosco, dalla Baba Jaga, una strega temutissima, per farsi dare il fuoco ormai spento nella loro dimora.

La Baba Jaga, rappresenta la madre ideale per la crescita di una figlia, decisa, forte, consapevole, saggia, ma anche selvaggia, esigente e un’ottima tutor di crescita. Infatti, la strega accetta di donarle il fuoco perché la ragazza lo chiede in modo esplicito e chiaro. E lo avrà ma solo dopo aver portato avanti una serie di compiti, di passaggi reali e simbolici, che rappresentano quanto è necessario per crescere, trovare la propria strada e acquisire le proprie responsabilità, quale saper alimentare l’irrazionale, discernere e separare ciò che è buono da ciò che non lo è, imparare a portare a termine un obiettivo, riplasmare l’ombra.

Al suo ritorno dalla casa della strega, Vassilissa troverà la matrigna e le sorellastre morte dal freddo. Il finale sembra indicare la strada maestra: se perseguiamo i nostri scopi, la parte rabbiosa, invidiosa, aggressiva, viene meno, a favore della costruzione creativa di sé. Questa nuova identità sarà diversa da ciò che la buona madre è stata, essa infatti muore per lasciarle spazi, in un percorso tutto suo. La ragazza da sola, deve scegliere: o continua nella dipendenza e accondiscendenza, accettando tutto come Cenerentola, oppure sceglie di cercare la strada della conoscenza, del fuoco e della luce.

Cappuccetto Rosso è un altro esempio interessante. In questo caso, la madre è presente, anzi vi sono due generazioni di madri, ma il messaggio è lo stesso.

E’ vero che la bimba incorre nel lupaccio cattivo proprio perché non segue i dettami materni, ma è anche vero che da una parte la madre la manda nel mondo a svolgere un compito che spetta a lei e non alla bimba, che usa come tramite con la propria madre, dall’altra quello che molti non sanno è che Cappuccetto Rosso, impara la lezione proprio dal suo errore.

Esiste un proseguio della storia che pochi conoscono, dove il Lupo si fa nuovamente vivo nella casa della nonna, ma questa volta, Cappuccetto Rosso non si fa ingannare e non apre al lupo, ma con la nonna gli prepara una trappola ed il lupo finisce nel paiolo bollente.

In considerazione di ciò, potremmo pensare che in verità la mamma di Cappuccetto Rosso, proietta sulla figlia la propria bambina ed un compito che non ha portato avanti fino in fondo, quello di imparare la strada sulla propria pelle e la bimba le mostra che funziona, ciò accade e si salva la pelle attraverso l’aiuto del maschile, che elimina la belva divorante e astuta la prima volta, attraverso l’apprendimento la seconda volta.

O semplicemente la mamma, pur consigliandole di non passare per il bosco, in verità la lascia crescere facendole fare il percorso, che lei per prima ha compiuto a suo tempo. Ma se fosse così, forse la nonna sarebbe stata più astuta e non si sarebbe fatta ingannare dal lupo.

A questo punto mi chiedo chi sia questa belva. La madre forse (o una parte di lei)?

Ancora vorrei parlarvi di altri due esempi. Prendiamo il Principe Ranocchio o Errico di Ferro, in questa fiaba la principessa, la terza, la più giovane e bella di tre figlie, deve confrontarsi col proprio desiderio e con l’impegno della propria parola, con la responsabilità di ciò che promette.

La ragazza infatti, pur di recuperare la palla d’oro persa nell’acqua, promette al ranocchio di diventare suo amico e di dividere tutto con lui. Ma ottenuta la palla, scappa senza ottemperare alla promessa. Quando il ranocchio si presenta al castello, sarà il padre a spingere la ragazza a mantenere ciò che ha promesso.

In questo caso non si fa menzione della madre, che viene inclusa in modo generico, ma non ha potere nella questione, è il maschile, il padre portatore della regola e della “forma” della condotta, che l’aiuterà a trovare la strada della propria integrità, prendendosi il peso ed i meriti del proprio desiderio. Infatti, grazie a questo e al confronto con la rabbia, la principessa romperà l’incantesimo che vedeva il principe, imprigionato nel corpo di un ranocchio.

Parimenti nella Storia di uno che se ne andò in cerca della pauranon si fa menzione della madre, ma si narra di un padre con due figli. Il secondo dei due è il più stolto e avventato, non conosce la paura. Allora il padre, prima lo affida al sacrestano per fargli imparare un mestiere, dopo lo caccerà del tutto misconoscendolo, dandogli una dote in denaro e niente più.

Non ci sono remore, né rammarichi, né sofferenze, il figlio parte in cerca della paura, del sapere cos’è la pelle d’oca e questa sua qualità, che aveva tanto fatto inorridire il padre, gli farà davvero trovare la sua strada e alla fine conoscerà anche la paura, ma non come tutti volevano insegnargliela, ma sperimentando la pelle d’oca grazie ad una secchiata d’acqua fredda piena di pesciolini.

Anche qui si rimarca che ad un certo punto, la propria strada sta fuori dalle gonne materne e il padre, sembra essere più predisposto a lasciar andare i figli nel mondo ed è proprio quest’atto, condotto con fiducia o disprezzo, che conduce nel luogo migliore di sé. Anche la pelle d’oca, il ragazzo non la scopre grazie ai pensieri che inducono buio e terrore per lo sconosciuto, come passare dal cimitero, vedere spettri, ecc., bensì semplicemente e banalmente attraverso l’esperienza fisica della pelle d’oca. Stratagemma ideato da una domestica, come a ricordare che talvolta, la verità sta nella semplicità delle cose istintive e naturali.

Non a caso, molte fiabe come Fratellino e Sorellina, I tre omini, ecc., presentano un ulteriore prova finale, che si realizza nel momento in cui la ragazza, ormai donna, diventa madre. Spesso in questa fase, riappare la matrigna-strega e la sorellastra a portarle via questo ruolo, che solo la dedizione ed il desiderio autentico, possono far riacquisire.

In questo compito viene messo in questione il suo ruolo di madre, è passata dall’essere figlia all’essere madre e dovrà dimostrare di essere diversa dalla propria cattiva progenitrice.

 

Ora tutto questo, non tanto per dire che le madri devono tirarsi fuori per far crescere i propri figli, ma per indicare la strada dell’evoluzione. Nelle fiabe non si parla realmente di madre o di padre, ma di funzione materna e paterna, entrambe fondamentali e indispensabili.

Quando entrambe le funzioni sono portate avanti in modo sufficientemente adeguato, la natura fa il suo corso, quando si crea un intoppo, il figlio compie uno sforzo maggiore ed il rito di passaggio richiede delle prove più ardue. Questo capita quando la madre vive unicamente in funzione di questo ruolo e i figli rappresentano un elemento narcisistico imprescindibile. Non può permettersi di lasciar andare i figli o di lasciare che scoprano un’identità diversa dalla sua e separata da lei.

Ecco perché simbolicamente molte fiabe parlano di una madre assente o morta.

Per compiere questo passaggio, per trovare sé, è necessario separarsi dalla madre troppo buona, quella eccessivamente amorevole e eccessivamente disponibile, presente. La solitudine, la presa coscienza anche di altri sentimenti ed elementi di sé e della madre (la madre cattiva), la rabbia, la rivalità, l’invidia, ecc., mettono a disposizione ogni possibile parte di sé e quindi permettono di scegliere liberamente il proprio destino.

In verità, il modello di madre adeguata ce lo fernisce ancora una la fiaba. Prendiamo ad esempio Cenerentola, nella versione originale che pochi conoscono, un giorno il padre (che si è risposato), deve recarsi al mercato e prima di andare chiede alla figlia e alle figliastre cosa desiderino in dono (similmente alla fiaba della Bella e la Bestia). Le figliastre chiedono bei vestiti, mentre Cenerentola chiede di portarle il primo ramoscello contro cui sbatterà il suo cappello, durante il ritorno.

Cenerentola pianta il ramoscello sulla tomba della madre, dove si reca ogni giorno e dove piange tristemente. Le sue lacrime alimentano il ramoscello, che si trasforma in un bellissimo albero. L’albero rappresenta proprio ciò che Cenerentola coltiva (la madre buona) e ciò che diventerà: una donna forte. Quello che fa crescere la ragazza è il nutrimento dato dall’interiorizzazione della madre buona, che le permettono di affrontare da sola le avversità, generate dal mondo e da sé stessa.

Alla fine la buona madre è ciò che ci ha suggerito Winnicott, ricordandoci l’importanza della giusta combinazione di pieno e vuoto, di presenza e assenza!

E invece quella che può essere una cattiva madre, agli occhi e nel vissuto di una figlia, è ben descritto da questa descrizione personale tratta da Marie Lion-Julin “Madri, liberate le vostre figlie”.

 

Voglio bene a mia mamma. Lei è tutto per me. Sento che non è contenta della sua vita. Cerco di darle un po’ di felicità. Cerco di occuparmi di lei. E a lei piace molto tutto questo, ma non basta. Sembra sempre scontenta, infelice. E’ convinta che gli altri siano cattivi, egoisti, che nessuno la capisca. Io tento davvero di capirla, con tutta l’anima e provo ad assecondarla.

Ma lei mi dice che anche io sono egoista, che non le voglio bene quanto me ne vuole lei. Non capisco. Mi dice anche che sa benissimo che non mi interesso veramente a lei. Non capisco. Certe volte mi viene persino da piangere.

Perché non capische che le voglio bene e che mi preoccupo molto più di lei che di me stessa? Eppure sono sicura che lei mi vuole bene, me lo ripete in continuazione.

D’altro canto sento che ha bisogno di me, che sono importante per lei e questo significa che ci tiene a me.

Eppure mi sento a disagio cone me stessa. Non mi conosco, non so se ho delle qualità. La mamma mi rimprovera spesso, dice che non penso abbastanza a lei e così via. Mi fa pochissimi complimenti, anzi nessuno. Forse è normale, magari non li merito. Del resto ha ragione, mi vergogno di me stessa.

A volte oso pensare un po’ a me, ho delle amiche e mi piace anche divertirmi. Ma mi accorgo benissimo che questo le dà dispiacere. Non ha bisogno di dirlo, lo sento. Preferisce che resti vicino a lei.

Allora penso che sono terribilmente egoista a volermi divertire, mentre mia mamma non lo fa.

Mi dice che sono tutta la sua vita. E’ una frase molto forte, lei mi vuole bene sopra ogni cosa. Quindi, se lei non sta bene, la responsabilità ricade per forza su di me. Me la prendo con me stessa, mi detesto.

Come faccio a vivere se non riesco neppure a soddisfare la persona che mi vuole bene più di tutti al mondo?

                                                                

 

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3 settembre 2012 1 03 /09 /settembre /2012 07:57

 

Il riccio

                                                                        Fuga di Vita

Sabrina Costantini

 

 

 

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Avete visto il riccio?

Film francese del 2009, regia e sceneggiatura di Mona Achache. Tratto dal romanzo L’eleganza del riccio di Muriel Barbery.

Film assai interessante e ben fatto. Un esempio impareggiabile di “fuga elegante”. Ma andiamo per gradi.

La scena si apre con Paloma, una ragazzina di 11 anni che ci racconta giorno per giorno la sua triste esistenza, non attraverso un diario come fanno la maggior parte delle adolescenti, ma attraverso un proprio video, girato con una telecamera casalinga. La prima inquadratura avviene in uno dei suoi tanti nascondigli domestici, ormai non più segreti.

Paloma si nasconde dalla madre, in analisi e sotto farmaci ormai da una vita, ormai pura consuetudine e moda, si nasconde dalla sua vita, da tutti coloro che la circondano, dalla banalità, dalla noia, dalla sordità e dall’incomprensione.

Non siamo in un quartiere povero, no affatto, anzi in un palazzo abitato da famiglie alto borghesi. Persone infarcite di soldi, parole, fumo, alcool, apparenze.

La sua famiglia è costituita da madre (dedita più alle piante che alle figlie), padre, alto esponente politico che spenge le sigarette sotto il tappetino d’ingresso, assente quanto basta a non esserci, Paloma ed una sorella maggiore, che appare e scompare nelle sue rappresentazioni sceniche, quasi fosse un fantasma, a guisa materna.

La nostra Paloma, ragazzina assai intelligente e perspicace, ci esprime subito il suo intento: si suiciderà al compiere del 12° anno di età!

Perché?

Perché non vuol finire come il pesce rosso nella boccia di vetro. Questa è l’immagine che ha dei grandi, o almeno di quelli che la circondano. Esseri non pensanti, chiusi in una bolla di vetro, a girare sempre nella stessa vasca, pensando che sia il mondo intero.

Paradossalmente, non vuol morire, non vuol essere addomesticata, instupidita, imbrigliata. E così, filma la sua vita e i suoi personaggi e sottrae giorno dopo giorno gli ansiolitici della madre, per compiere il fatidico  gesto finale.

Si è disegnata anche il calendario per tenere il conto alla rovescia, che rappresenta la qualità delle sue giornate e della sua genialità.

Ma ….. un giorno farà due incontri strabilianti.

Uno riguarda un nuovo vicino, un giapponese (Kakuro Ozu) elegante e colto, con cui riuscirà a scambiare pensieri da mammiferi più evoluti del natante, sia in giapponese (lingua che sta studiando egregiamente) che in francese.

Il secondo incontro lo farà attraverso il giapponese, signore affatto snob che vede per primo Michel la portiera, ben oltre il suo ruolo.

Michel vive al piano terra, si occupa di tutte le faccende del condominio e da sempre si presentata come una donna sciatta, dimessa, semplice e taciturna. Quando Ozu viene le viene presentato,  Michel tira fuori una frase significativa di Tolstoj del romando Anna Karenina: “Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice lo è a modo suo”.

Michel si da della stupida, ma il suo inconscio l’ha ormai tradita, è troppo tardi, Ozu ha capito, l’ha stanata.

E così anche Paloma riesce ad intrufolarsi nella casa di Michel e a scoprire che al di là dell’apparenza, quella donna ormai vedova da tempo, di cui nessuno si interessa, è una donna assai colta, con una sua biblioteca nascosta assai fornita, cultrice della lettura, del te e del cioccolato fondente.

Paloma, da ragazza intelligente, le riconosce di essere stata veramente brava, lei si è trovata un ottimo nascondiglio! L’ha stanata e le farà un disegno fedele, che la ritrae beata fra i suoi libri.

Il signor Ozu, invita Michel a cena a casa sua. Invito sorprendente per la portiera, affatto abituata a queste accortezze.

Alla fine accetta e i due sono fatti l’uno per l’altro. Segue la visione di un vecchio film amato da entrambi, segue un altro invito a cena fuori, con abito in omaggio da parte di lui (al primo invito lei, sprovvista, prende in prestito l’abito di una defunta e per la prima volta si reca dal parrucchiere).

Nel frattempo, Paloma esegue la sua prova generale, è quasi arriva al giorno del compleanno e scioglie una capsula della madre nell’acqua del pesce. Ritrova il pesce a galla e lo getta nel WC.

La mattina successiva, Michel che ha cenato con Ozu, trova il pesce nel proprio WC, non capisce ed è profondamente stupita, lo mette in una brocca ed esce al lavoro. Per salvare un vecchio in strada, viene investita stupidamente, morendo all’istante.

Paloma, incredula e addolorata, si reca nelle stanze di Michel e trova il pesce. Non sa spiegarsi come il pesce possa essere arrivato lì, ma c’è e quest’evento insieme al dolore per Michel, insieme al dolore per la fuga, all’insensatezza della fuga, la inducono a ricredersi sul suo intento e a cercare la bellezza della vita.

C’è speranza, ci sono altre persone intelligenti, sensibili con cui essere ……….

Ma Michel ne ha avuto paura. Michel il riccio del film, ispida fuori, tenera dentro, ha avuto paura della vita, dello scambio, delle persone, dell’amore, di sé stessa e non è riuscita ad andare oltre.

Paloma ha capito. La donna aveva tutto, tutte le possibilità, aveva danti il cambiamento, aveva l’amicizia, l’amore, lo scambio, la comprensione, ma non ne era abituata, vi era fuggita tutta la vita e ………. ne ha avuto paura.

Che fuga perfetta ed elegante. Per tutta la vita Michel, fuori casa si è vestita di abiti da portinaia, grigia, insignificante, senza alcuna pretesa, solo dentro un ruolo, niente più, niente di diverso. E’ fuggita dal mondo e ha vissuto unicamente in un mondo tutto suo, fatto di silenzio, di libri, di piaceri solitari e sottili.

Si è abituata così tanto a questo copione che quando ha intravisto la possibilità di cambiarlo, ha provato così tanta paura da fuggire per sempre, andarsene irrimediabilmente. L’intento copionale, è stato inconsapevolmente rivelato fin dal primo incontro fra Michel e Ozu, con la citazione di Anna Karenina, che finisce suicida (si butta sotto un treno).

Per fortuna, questo finale, questa vita sprecata ne ha salvata un’altra: quella di Paloma. La ragazzina ha compreso, ha vissuto e ha scelto per la vita, non più per la rinuncia e la fuga.

Questa maschera infatti, è una rinuncia alla vita, quella vita negata sì dai genitori, ma poi affermata nell’atto stesso della nascita.

Il fuggitivo, finchè fugge, fino a quando tiene in piedi questa maschera, non prende mai in prima persona, la responsabilità di volersi nel mondo, di affermarsi malgrado gli altri e ciò che gli altri desiderino.

Visto che qualcuno non li ha voluti all’origine, loro non si vogliono e non si affermano!

Questo film è veramente emblematico di questa ferita e di questa maschera.

La signora Michel, è una donna veramente interessante, intelligente, piena di umanità e risorse, le è bastato farsi sfuggire una frase in più, qualcosa che segnalasse il suo pensiero e la sua presenza, per darle l’opportunità di essere per qualcuno. Eppure …. è lei che ci dimostra di non volerlo.

In questo caso, la maschera non viene concretizzata in un corpo etereo e leggero, ma in un abito vuoto, insignificante, in uno sguardo comunque assente per gli altri, in un aspetto assolutamente atonico, a- tutto!

Ma ciò che conta è quanto riesca a mostrarci che il copione con la sua ferita e relativa maschera, li portiamo avanti noi e nessun altro, qualunque ne sia l’origine!

Chi c’è dentro non se ne rende conto, ma c’è sempre la possibilità di cambiare, la vita ci appartiene e non dobbiamo cederla ad altri, neanche a chi ci ha messo al mondo, negandoci poi con un non amore, o con un amore offerto in modo non adeguato, non rispondente ai nostri bisogni.

Non è mai così difficile come sembra, l’inizio è veramente banale, basta una frase, un sì, un no, un comportamento diverso e mille altre piccole cose.

A noi appaiono difficili, dolorosi, impossibili passaggi, ma in verità niente è veramente impossibile. Decidiamo di stare almeno per un attimo e vediamo cosa succede.

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19 agosto 2012 7 19 /08 /agosto /2012 14:30

….. Ho visto due gemelli

 

 

 

Un giorno al mare ho visto due gemelli.

Il giorno dopo erano ancora lì e quello seguente ancora lì e poi li ho persi.

Erano sempre nello stesso posto, con le spalle agli scogli, la stessa posizione, stessa faccia, stesso corpo, stessi asciugamani.

Loro solo loro, unicamente loro.

Nessun colore, nessun particolare che li facesse notare, non un ghiuzzo.

Due asciugamani, vicini in una soluzione di continuità imprescindibile, due racchette da spiaggia e una pallina.

Le racchette, l’unico diversivo della loro isola di protezione.

Smunti, magri, gli occhi infossati, sguardo assente, due corpi estranei, scarnificati, esangui, movimenti meccanici.

Il mondo per loro è solo un grande contenitore, da cui fuggire, le persone non esistono, non interessano, non fanno breccia, non esistono.

Giocando a racchette, uno dei due incita l’altro di metterci più energia, si sta guardando unicamente allo specchio.

Ogni movimento misurato, stanco, di una stanchezza che va ben oltre l’età che appartiene loro, la stanchezza di chi è arrivato a termine della propria vita.

Sono ancora nel ventre materno, eppure se ne sono andati da sempre, per sempre.

La loro unione, tuttora siglata da un sacco invisibile e unico, li rende ancora più forti di una fuga dal mondo.

 

 

Questi due gemelli, rappresentano un ottimo esempio della Maschera del Fuggitivo, un esempio estremo. 

Nel corpo, nella qualità del movimento, nello sguardo, nell’assenza di energia, nello scarso investimento verso il mondo animato e non, nella poca attenzione a sé, a come sono recepiti dal mondo.

Sono presenti ma assenti, quasi fantasmi, nessuna passione, nessun guizzo, nessun investimento, nessuno sguardo significativo, nessuno scambio, nessuna presenza.

Ci sono, ma non ci sono, sono in fuga dal mondo e nel mondo, occupano poco spazio, nel momento in cui li guardi non ci sono, non si incrociano neanche per sbaglio con gli umani. Non possiedono alcun peso, né corporeo, né vocale, né spaziale, non sono notati da alcuno.

Ti dimostrano che non hanno alcun interesse verso gli altri, verso la vita, vivono in un loro rituale di vita minimo, ma sono altrove. Inafferrabili, incomprensibili, rifiutanti e rifiutati.

Il loro legame inscindibile, tradisce la presenza di una doppia Maschera: quella del Dipendente.

L’uno non può far a meno dell’altro. Anziché differenziarsi, si uniscono più che mai, più della loro condizione primordiale, in un legame inscindibile, non possono vivere da soli, non hanno significato. Non si differenziano in alcun modo, sono uno e indivisibile, l’uno lo specchio dell’altro.

Certo, questo rappresenta un esempio molto estremo delle due maschere, con le relative ferite. L’estremo isolamento e solitudine, la dipendenza assoluta, lasciano supporre una condizione iniziale, una profonda ferita estrema, l’estremo rifiuto e abbandono.

In verità …. non sappiamo chi siano e quale sia la loro storia.

Non conosciamo nulla di loro.

Capite però che una condotta del genere, non lascia supporre se non una storia molto estrema, tale quale la loro condotta.

Quanto mostrano con la loro rappresentazione scenica di vita, è l’esteriorizzazione di un vissuto interno.

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7 agosto 2012 2 07 /08 /agosto /2012 17:01

Le maschere:

Il Dipendente.

 

Dott.sa Sabrina Costantini

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La seconda ferita in termini evolutivi, è rappresentata dall’Abbandono, da cui ne segue la maschera del Dipendente.

Si tratta della seconda ferita, perchè come già detto, alla nascita o anche prima, si crea lo spazio di pensiero per il nuovo nato e se questo non è desiderato (per vari motivi), si struttura la ferita del rifiuto.

Successivamente, quanto il piccolo ormai è nato e fa parte della famiglia, si crea lo spazio della relazione e potenzialmente lo spazio per un eventuale abbandono. Di solito l’abbandono, avviene per opera del genitore di sesso opposto, dopo l’anno di età .

Mentre con la ferita del rifiuto siamo sul piano dell’essere, cioè viene rifiutata la persona nella sua esistenza stessa, nella ferita dell’abbandono siamo più sul piano del fare e dell’avere.

E’ come se, una volta imparato a camminare, ad avere un minimo di autonomia, il bambino fosse proiettato nel mondo e quindi acquisisse anche più spazio appunto nelle dimensioni del fare, del possesso, dei vari diritti e qui, in base a come rispondono i familiari, si gioca la ferita in questione.

Quanto libero spazio avrà a disposizione? Con quanta libertà può esplorare? Con quanta forza può chiedere? Può desiderare? Quali possessi, quali capacità, gli vengono riconosciute?

Il bambino che vedrà il suo spazio ridotto, in modo concreto, psicologico, morale, sociale, in toto o in parte, svilupperà questa ferita.

La restrizione è derivata dall’abbandono stesso.

Essendosi sentito abbandonato, il bambino cerca in continuazione l’approvazione, il legame col genitore rifiutante o con entrambe e per rinforzarlo, mantenerlo, o crearlo si mostrerà dipendente, come se l’autonomia, l’indipendenza, gli facessero rischiare di perdere il genitore, che con il suo abbandono, mostra indirettamente la non accettazione della crescita, della differenziazione, del minor bisogno.

Nessuno gli dice che non può fare delle cose, che non ha diritti, ma il rifiuto, gli farà perdere di vista sé, a favore dell’altro e del suo appoggio. Di fatto non acquisirà e non sperimenterà mai i propri liberi spazi. Si mostrerà sempre piccolo e bisognoso, nella speranza di non perdere il legame.

La persona che soffre di questa ferita, si mostrerà anche da adulto, bisognoso dell’altro, vissuto come indispensabile. Da solo non sa come cavarsela, è una vera nullità. Il senso di vergogna infatti, costituisce una costante del vissuto del dipendente. E’ un inetto, un incapace e se ne vergogna, deve nascondere queste inettitudini pena l’umiliazione.

A livello fisico, il corpo manca di tono, può essere lungo e sottile, ma fondamentalmente è un corpo che si accascia su sé. Il sistema muscolare sembra insufficiente e incapace di sostenerlo, braccia e gambe deboli, la colonna vertebrale parimenti non sembra capace di sostenere il suo peso, alcune parti possono essere cadenti o flaccide, come le spalle, seni, natiche, guance, pancia, scroto, ecc. Lo sguardo è caratterizzato da grandi occhi tristi, ma luminosi, come in attesa di aggrapparsi al primo che presta loro attenzione e di risucchiargli così la linfa vitale.

La differenza somatica fra il fuggitivo ed il dipendente sta nel fatto che, seppur magri entrambi, il primo è comunque tonico e si presenta con una postura eretta (deve essere pronto a fuggire), mentre il secondo è cadente, debole (deve essere predisposto ad essere sorretto). Lo sguardo del primo sarà inconsistente e assente, quello dell’altro magnetico, ti tiene lì, non sfugge e non fa fuggire, ammalia con il suo profondo bisogno.

Ma a che livello il dipendente è bisognoso?

Può essere a vari livelli, dipende dall’ambito scelto. Potrà esserlo a livello concreto, economico, ad es. una persona che non sa cavarsela da solo, non ha una fonte di reddito né di sostentamento minimo, che non sa sbrigare le faccende di tutti i giorni.

Ad un livello più interno, può trattarsi di una persona capace e indipendente dal punto di vista economico, ma che pensa di non sapersi gestire, di non saper trovare una ragione di vita, un colore, un piacere. A livello ultimo abbiamo una persona che se non si sente amato, pensa di non avere valore, di non essere degno di amore, di attenzione, di capacità, da solo non può farcela!

Naturalmente, come per le altre ferite, ci sono vari livelli di sofferenza e può verificarsi sovrapposizione con altre ferite. Di fatto, di solito chi soffre per la ferita dell’abbandono soffre anche di quella del rifiuto e a causa di ciò, l’abbandono diventa ancora più intollerabile.

A livello più profondo, avremo a che fare con un individuo tendente ad impersonare il ruolo di vittima, di povero soggetto, passivo, succube del mondo cattivo e crudele.

Tende a drammatizzare la sofferenza, il senso di impotenza, il dolore e tutte le emozioni provate. Con grande difficoltà si prende la responsabilità di sé, dei propri agiti aggressivi e delle proprie capacità.

L’aggressività del dipendente, di solito è di tipo passivo, attraverso appunto la lamentosità, la richiesta continua, la proiezione sull’altro di responsabilità, di decisioni, di aggressività, di angoscia, ecc.

La sua più grande angoscia riguarda la solitudine. Pensa di non potercela fare da solo, di non poter tollerare l’angoscia, il senso di vacuità, di inutilità, di indecisione, il senso di impotenza, di inconsistenza, di non amore, di rifiuto. La solitudine, suona per lui, come rifiuto e abbandono appunto. Non riesce a concepire l’idea di una solitudine-vuoto, spazio necessario per far emergere i propri contenuti interni.

In termini di Analisi Transazionale, si potrebbe dire che vive prevalentemente con lo stato dell’Io Bambino Adattato, sottomesso ad un genitore sadico-abbandonante. I giochi preferiti sono sicuramente Prendetemi a calci, l’alcolizzato, Guarda che mi hai fatto fare, Spalle al muro, Tutta colpa tua, Non è la volontà che mi manca, Il goffo pasticcione, Perché non … si ma.

Per ottenere il proprio obiettivo, può usare qualsiasi strategia (mostrando così le proprie capacità reali), la manipolazione, il broncio, il ricatto, la seduzione, il sesso, ecc. E i giochi sopra citati, anche diversi fra loro, rappresentano tutti varianti dello stesso atteggiamento di persona passiva, che desidera evitare a tutti i costi la solitudine, ma che nel contempo non se ne sente il diritto, perché in cuor suo teme e sa che verrà abbandonata e quindi per prima farà in modo che accada. Del resto, già il fatto di porsi come persona infantile, piagnucolosa, bisognosa, ecc. fa sì che l’altro prima o poi si stufi e sentendosi più un genitore che un partner o un amico alla pari, lo molli.

La decisione di porsi in quel modo alla fine, costituisce l’atto abbandonante!

Del resto, già la richiesta di chiedere attenzione è una grande responsabilità. Da una parte, il dipendente desidera averne, dall’altra teme di disturbare e di ricevere un rifiuto, intollerabile per lui, quest’ambivalenza produrrà comportamenti non chiari, spesso di segno opposto, che confonde e tiene lontano chi vi assiste.

Infatti alla fine, con le sue paure, con le sue difese, col suo mettere le mani avanti, ottiene proprio questo. Prima accennavo al gioco psicologico “Prendetemi a calci”, in breve, la persona in questione si presenta come vittima e implora gli altri di non prenderlo a calci, di trattarlo bene, per una serie di motivi e continua a chiedere, a piagnucolare, in vari modi, a tal punto che gli altri non ce la faranno più e lo prenderanno a calci, per mandarlo via. Con le parole dice non prendetemi a calci, ma col comportamento dice il contrario, perché questo è contenuto nel proprio copione, è ciò che sente di meritare.

Di solito, la persona dipendente ha lo sguardo infinitamente triste, spesso pensieri suicidi, che possono sfociare in tentati suicidi o suicidi minacciati. Difficilmente però porterà a termine quest’atto, perché in verità non vuole morire ma solo appoggio incondizionato.

Non di meno, teme profondamente le emozioni e i veri legami. Capita spesso che il dipendente faccia di tutto per sabotare la propria felicità e per terminare un legame. Non si sente realmente capace di portare avanti una relazione, l’abbandono è sempre in agguato e si sente profondamente incapace di tollerarlo. L’abbandono è in agguato proprio perché si sente profondamente incapace, insignificante, inconsistente, privo di valore, non amabile. Del resto se il genitore lo ha abbandonato, vuol dire che ce n’era realmente motivo. E quindi, per non soffrire ancora, lui per primo si saboterà e saboterà la relazione stessa.

Non tutte le persone che hanno sofferto di questa ferita, si comportano in questo modo così supplichevole, alcuni cercheranno di guadagnarsi attenzione, attaccamento e amore, con modi più indiretti, con lavoro, dedizione, impegno, con serietà, disponibilità incondizionata e con un atteggiamento apparentemente indipendente o contro dipendente.

Il modo in cui si esplica la ferita, dipende da una serie di fattori, fra i quali: la presenza di altre ferite, la presenza di figura familiari o extrafamiliari che hanno fornito esperienze diverse, l’insieme di capacità e di risorse, ecc.

E’ molto frequente riscontrare in queste persone, la presenza di agorafobia, che ricorda la condizione della loro infanzia, dove sono rimasti bloccati in un legame esclusivo con la madre. L’esclusività era determinata dal carico di responsabilità della felicità della loro madre, e dall’abbandono dal padre, che li ha lasciati ostaggi dell’altro genitore.

L’abbandono del padre, può avvenire in modi assai diversi, può essere causato dall’assenza fisica per motivi di lavoro, di legame, ecc., ma può anche essere dovuto ad una sorta di non impegno nel ruolo paterno, a causa di paure, incapacità, malattia (fisica, psichica), morte, ecc.

Non si deve pensare che l’abbandono risieda nell’atto di abbandonare fisicamente la casa ed il bambino, spesso l’assenza avviene in modo più sottile, si tratta di una mancanza di presenza emotiva.

Spesso questi bambini, si sono fatti carico, in modo diretto o indiretto, della malattia fisica, psichica, o della morte di qualcuno dei parenti stretti. La paura più grande, che li attanaglierà tutta la vita, riguarderà infatti la morte, la follia o il cambiamento, osteggiato proprio in quanto morte di tutte le abitudini e consuetudini rassicuranti.

La tendenza sarà quella di muoversi divorando in tutte le forme, col sesso, con la richiesta di attenzione continua, con richieste d’aiuto, con una alimentazione di tipo bulimica, ecc.

Di conseguenza a quanto detto, le malattie che più facilmente svilupperà, sono:

-       L’asma e problemi bronchiali, non ha mai abbastanza aria, non riesce a scambiarne con l’ambiente, tende a divorare e trattenere l’aria.

-       Spesso presenta disturbi pancreatici, ipoglicemia e diabete, mostrando una difficoltà anche qui di scambio con l’ambiente, che in questo caso riguardano gli zuccheri e la dolcezza.

-       Apparato digerente fragile, probabilmente fatica a digerire i bocconi amari ma anche a digerire tutto ciò che ingurgita, sotto la pressione dell’ansia inglobante.

-       La miopia ci mostra una certa difficoltà a guardare lontano, la paura del futuro.

-       Può soffrire anche  di emicranie. La pressione alla testa dunque impedisce di pensare, di vivere, di essere serenamente.

-       Può presentare anche malattie rare o incurabili, quelle che richiedono particolari attenzioni, cure e visite continue.

-       Spesso sviluppa forme depressive, più o meno profonde, derivanti dalla sensazione di essere stato abbandonato, di non essere amato a sufficienza, di essere idegno.

-       Anche l’isteria è un disturbo caratteristico del dipendente, costituendo proprio la via strutturata per ottenere attenzione e amore.

 

Come per tutte le altre ferite, anche per questa, il primo passo per il cambiamento è costituito dallo smascheramento.

E’ importante riuscire a vedere la propria maschera, il proprio comportamento e le sue origini, ovvero la ferita sottostante.

E’ assai doloroso recuperare il senso di abbandono originario, quello realmente subito, lo smarrimento, il non amore, la non libertà! Ma accettare di sentire, di vivere, di prendersi il proprio destino su sé, costituisce il primo grande passo per la presa visione di sé e la presa responsabilità delle proprie azioni nelle relazioni.

Comprendere che non si è vittime degli altri, ma attori protagonisti di quanto ci succede oggi, ci aiuterà a trovare le strategie per agire diversamente.

Non sarà facile, perché la formazione della maschera è stata la risultanza di mancanze genitoriali, di ferite che hanno procurato sofferenza, un’immagine di sé carente ed è una modalità cronicizzata nel tempo di vedere e interagire col mondo.

Nonostante ciò, si può cambiare, con cura, attenzione, impegno, si può cambiare.

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18 luglio 2012 3 18 /07 /luglio /2012 12:25

Le maschere:

Il fuggitivo. 

Sabrina Costantini

 

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Ho già parlato delle maschere e della loro funzione psicologica, nell’equilibrio psichico ed evolutivo, dell’individuo che si appresta al mondo.

Ho già anche enumerato le maschere, dalla prima all’ultima.

Rivediamo più approfondito la prima: quella del Fuggitivo.

La maschera del fuggitivo, emerge in seguito alla ferita del Rifiuto.

Il rifiuto si verifica fin da subito alla nascita, talvolta anche prima al momento della presa coscienza della gravidanza. Succede quando un bambino non è atteso, non è desiderato (per una miriadi di motivi: è troppo presto, non c’è il partner adeguato, non è la situazione economica giusta, ecc.), oppure perché non è desiderato di quel sesso, o in quel dato modo (rispetto alle caratteristiche somatiche, a un dato difetto fisico, ecc.).

Il bambino, avverte assai presto, prima di saperlo pensare, questo senso di rifiuto, di non accettazione, non è voluto.

Per poter vivere, per poter avere come oggetto la vita, deve difendersi da questo sentore, deve poter trasformare un vissuto totalmente subito e passivo, in uno attivo e produttivo per lui.

Allora, anziché sentirsi rifiutato, non voluto, non a adeguato, si costruisce la credenza più o meno implicita, più o meno consapevole, di essere lui a rifiutare gli altri, il mondo intero. Fugge appunto e non si fa mai prendere.

In che modo fugge?

In qualunque modo. A partire dal corpo. Svilupperà infatti un corpo filiforme, magro, poco muscoloso e poco consistente, che ha “poco peso”, come se volasse via da un momento all’altro. Gli occhi piccoli e stretti, lo sguardo sfuggente, non si posa mai su niente per molto tempo, non permette neanche all’altro di incontrarlo, non sorride mai in modo gratuito e genuino, sorride poco in genere e con le labbra strette, è pallido, poco vitale, con un’energia molto bassa e volatile, la voce in un filo è scarsamente percettibile, di chi non desidera essere ascoltato appunto, o pensa di non esserlo.

Così i suoi progetti di vita, il lavoro, il modo in cui lo svolge, le relazioni, ecc., tutto sarà rigorosamente portato avanti al minimo essenziale, in modo invisibile e senza un’impronta personale.

Poiché si tratta di un bambino non voluto a priori, quest’individuo crescerà con l’idea di non essere importante, di non meritare attenzione, valore, ecc., che nessuno sforzo riparerà la situazione. Ma essendo un sentire troppo doloroso, farà di tutto per evitare di verificarlo ripetutamente per tutta la vita, quindi lui per primo eviterà in modo sostanziale di farsi vedere, di fermarsi abbastanza, per poter essere accolto oppure no.

Sarà lui a decidere razionalmente che non vale la pena di stare qui, di sprecare energie, tempo, progettazione, azione, coinvolgimento, ecc. Ma in verità, sta solo evitando di sentirsi nuovamente e ripetutamente rifiutato, sarebbe troppo per lui!

Il film “Don Juan De Marco maestro d’amore” (Usa, 1995), ci mostra in modo chiaro che indossare una maschera, costituisce una decisione di vita, un mezzo per nascondere la propria vergogna e la propria colpa. Ne emerge la costruzione di un personaggio, in cui il protagonista crede realmente con anima e corpo, serve per reinterpretare una realtà spiacevole, che non offre spunti di vita. E così, invece di essere il figlio rimasto orfano di padre, abbandonato dalla madre, diventa Don Giovanni, il miglior amante di tutti i tempi!

Il fuggitivo dunque, si trova un difficile compito, trovare un senso alla sua esistenza, il valore alla sua stessa nascita e per farlo deve nascondere la sua colpa attraverso una maschera. Non sono gli altri a non volerlo ma è lui, non è lui che possiede qualcosa di inaccettabile, ma il mondo non merita di fargli sprecare energia. Niente merita la sua presenza!

E’ un modo illusorio, per darsi importanza, ma soprattutto per nascondere una falla incolmabile. Il suo destino è dunque vive in punta di piedi, come se non poggiasse mai il suo peso su questa terra, sempre pronto ad evaporare da un momento all’altro, pronto a defilarsi, a non dover prendere posizione, a non pronunciarsi, a non sentire, a non essere mai fino in fondo.

Del resto è proprio ciò che gli è stato negato: essere!

E’ una vita all’insegna del suicidio. Un lento e inesorabile suicidio, dove ogni minima passione, idea, fantasia, sensazione, si esaurisce progressivamente e lentamente. Il corpo, troppo evanescente e disconosciuto, non sarà abbastanza forte da richiamarlo alla vita o non per un tempo sufficientemente lungo.

Così, il fuggitivo c’è e non c’è, non si sa mai dove veramente sia.

 

Anche i disturbi che potrebbe sviluppare durante la vita, s’inscrivono in questo quadro e riguardano ancora la fuga o l’espressione di un conflitto fra andare e restare. Troveremo quindi:

-       Disturbi respiratori come asma

-       Sbalzi di pressione, svenimenti

-       Eruzioni cutane

-       Problemi col cibo, in entrambe i sensi (o si rifiuta di mangiare sostenendo la propria inconsistenza o si perde dentro il cibo stesso)

-       Cancro

-       Psicosi (perdita di consapevolezza, di esame di realtà, fuga nelle idée deliranti, ecc.)

 

Chiaramente, il grado con cui si manifesta questo quadro dipende dalla profondità della ferita, da quante persone lo hanno rifiutato, dalla possibile presenza di persone che invece l’hanno desiderato e quindi dal successivo incontro con altre persone che gli hanno fornito la possibilità di un sentire diverso.

Alla fine ciò che verrà fuori è la risultante di un bilancio fra il vissuto di rifiuto e quello di importanza, di valore, quale dei due peserà di più dipende da chi ha fatto sentire una cosa o l’altra, da quante persone e dal modo e la persistenza di un tale messaggio.

Per poter decidere di stare, di mettere i piedi per terra, di sentire, di vivere appieno, il fuggitivo deve prima prendere in mano la propria ferita, riconoscere l’origine della sua sofferenza e lasciar andare l’idea che il proprio valore, sia legato a quelle specifiche figure rifiutanti.

Lui per primo deve darsi valore, peso, deve sancirsi il diritto all’esistenza, così il mondo potrà vederlo!

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30 giugno 2012 6 30 /06 /giugno /2012 14:43

La maschera

 

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La maschera è un meccanismo di difesa, innescato in seguito ad una situazione di forte dolore, che crea un vissuto di ferita emotiva profonda, avvenuto in tenera età.

Se vogliamo, possiamo dire che la maschera costituisce una parte strutturante della personalità, la parte più esterna e come tale, è costituita da modi di pensare, di agire, di sentire, di vedere le cose, ecc.

            Sulla base dell’esperienza, della ricerca e dello studio di eminenti studiosi della psicologia (Reich, Lowen, Pierracos, Eva Brooks, Lise Bourbeau), si possono distinguere cinque ferite con le rispettive maschere:

 

-       la ferita del rifiuto e la corrispettiva maschera da fuggitivo,

-       la ferita d’abbandono e la maschera da dipendente,

-       la ferita dell’umiliazione con la corrispondente maschera da masochista,

-       la ferita del tradimento e la maschera del controllo,

-       la ferita dell’ingiustizia e la maschera del rigido.

 

Queste ferite sono procurate dalle persone più vicine, di solito i genitori, in modo inconsapevole, molto spesso loro stessi sono stati oggetto di questa dinamica a loro tempo nell’infanzia, ma non avendola vista e modificata, la ripropongono automaticamente senza saperlo.

            La maschera, come del resto la maschera della tragedia greca, propone un personaggio, con modi di pensare, di parlare, di proporre il corpo, di camminare, di respirare, ecc. Infatti, la diagnosi viene fatto proprio dall’osservazione di tutte queste variabili: corpo, linguaggio, pensiero, affettività.

            La maschera è la risposta che il bambino ha trovato a suo tempo, per sopravvivere nel modo migliore alla ferita, è un meccanismo di difesa, un modo per ritrovare un ruolo attivo e di controllo su una situazione subita, eccessivamente dolorosa.

            Ad esempio chi subisce l’abbandono (di solito dal genitore dell’altro sesso), indosserà la maschera del fuggitivo, come tentativo di ripristinare il proprio potere e volere. Avrà un corpo sottile e lungo, con poco peso e spessore, parlerà in modo non incisivo per rimarcare la non presenza, non prenderà l’iniziativa, userà termini e modi che lasciano intravedere che non garantisce la sua presenza, ecc.

            E’ un modo per illudersi che non è l’altro ad abbandonarlo, ma è lui che se ne va, è sua la responsabilità di quanto sta succedendo e come tale, può modificare la situazione quando e come vuole. Di fatto, ci crede e si mostra così, in fuga, con poco peso e poca presenza.

            Ma di fatto è come mettere un cerotto ad una ferita, non si vede, è nascosta ma non è cancellata, c’è e pulsa.

            Per cui, smascherarsi è importante, è il primo passo per andare a scoprire la ferita e poterla finalmente curare.

            Ciascuno di noi può avere più maschere, anche se generalmente ce n’è  una, che risulta maggiormente predominante e strutturante rispetto alle altre. Talvolta la ferita principale, quella più profonda, è quella meno visibile, si nasconde sotto altre più evidenti ed superficiali. Capita infatti che una volta guariti da una ferita, ne salti fuori un’altra, sorprendendoci e lasciandoci nello sgomento.

Ma in realtà la cura e la guarigione, è un po’ un processo a strati e progressivo.

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2 aprile 2012 1 02 /04 /aprile /2012 10:06

Relazioni, Eros e Amore Tantrico

 

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

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Vorrei condividere alcune riflessioni sulle relazioni umane. Un tema di difficile trattazione, perché veramente vasto e di complessa definizione.

Rileggendo del materiale sull’amore tantrico e sui chakra, ho pensato che questi elementi siano assai esemplificativi rispetto a ciò che succede nelle relazioni, in particolare in quelle fra i due sessi.

Di fatto non so se sia proprio così, ovvero che vi siano punti nel nostro corpo dove l’energia assume determinati ruoli e significati (chakra), in linea generale mi sembra plausibile e in ogni caso, mi sembra un’ottima metafora per descrivere alcune funzioni umane e specifiche caratteristiche relazionali.

Molto spesso intorno a questi concetti si crea una certa confusione, un’informazione non del tutto completa e corretta.

Partiamo dal concetto di Tantra.

Il Tantra (Osho) non è una filosofia né una religione, bensì una predisposizione alla vita così com’è, si tratta di un modo di fronteggiarla privi del filtro mentale. La mente infatti, distorce la realtà, impedendoci di viverla per ciò che è. Il Tantra quindi tende a dire Sì a tutto e non dice No a niente, perché il no produce conflitto. Nel momento in cui si pronuncia il no rispetto a qualunque cosa, ci s’identifica con l’ego e s’innesca il conflitto.

Il Tantra ama incondizionatamente, ogni cosa fa parte del tutto e ha il suo posto nel tutto, che esiste come unità organica e non meramente meccanica. Affermando il sì nei confronti del tutto, scompare il conflitto, ci fondiamo con l’unità, ci sciogliamo perché non c’è più opposizione a niente, non ci sono più confini con cui scontrarsi.

Il vero teista dice di sì a tutto, non solo a Dio, infatti il credente che dice sì a Dio ma no alla vita o ad una sua parte, possiede un credo che non ha valore, è solo superstizione, perché crea una scissione, nega il mondo per accettare Dio ed è una situazione paradossale e insensata. Come si può accettare il Creatore senza accettare il Creato?

Secondo il Tantra, chi rinuncia al mondo è egoista, pone l’ego al centro del mondo, dimenticandosi e tralasciando tutto il resto. Dicendo sì a tutto invece, si crea accettazione profonda e così, non può esserci che felicità.

La vera accettazione però, non ha niente a che fare con il senso d’impotenza che impone di arrendersi e accettare in quanto ultima risorsa, in questo caso è una situazione di comodo, serve solo per salvare la faccia, rappresenta l’ultima risorsa prima del baratro. Non si tratta neanche del frutto della disciplina, di un’imposizione che, obbligando verso una data scelta, comporta una scissione. Anche in questo caso, si tratterebbe di un’apparente accettazione, che in verità nasconde un’interiore turbolenza.

L’accettazione tantrica nasce dalla sovrabbondanza e da una soddisfazione profonda, dall’unione del tutto. E’ una scelta, non una forzatura.

Questo concetto di accettazione è strettamente connesso a noi stessi e agli altri, perché comporta l’accoglimento di ogni parte di noi. Non ha senso dire che una parte è buona e una cattiva, che uno è l’angelo, l’altro il diavolo, ogni elemento, che sia ira, tristezza, sensualità, avidità, dolcezza, tenerezza, ci appartiene e non può essere eliminata. Ogni pensiero, emozione, riflessione, fantasia, è nostro, niente è vergognoso o deprecabile, è solo ciò che è.

Negare una parte comporta produrre senso di colpa e velenosa vergogna, la repressione di una parte di sé e l’ignoranza, l’inconsapevolezza di ciò che c’è. L’accettazione del tutto, comporta trasformazione, non distruzione.

Osho ci invita a riflettere sulla differenza fra rumore e musica. Si tratta delle stesse onde sonore, che pure producono un effetto assai diverso. Nel rumore non c’è centro, si tratta di una pura folla di note che non lascia scia dentro di noi, perché si succedono caoticamente, confusamente, senza senso, mentre quando le stesse note acquistano un centro, diventando un insieme organico, allora produrranno musica, qualcosa con una sua piacevolezza, con un andamento che parte da una parte e conduce lungo un percorso. Per cui, l’arte della musica consiste nel far entrare le note in un rapporto d’amore, diventando così, armonia. Non è la singola nota a fare la differenza, ma il suo rapporto col tutto, con ciò che la circonda e con il suo punto di riferimento.

Lo stesso vale per noi stessi, se ogni cosa viene accolta e integrata nell’insieme di ciò che siamo, intorno ad un centro propositivo, allora si crea un’armonia di emotività, pensiero, fisicità, relazioni, ecc. Ugualmente per quello che ci riguarda come entità singole, rispetto al tutto.

Tagliare via parti di noi indesiderate, vergognose, sbagliate, ci rende degli storpi. Tutto ci appartiene, l’errore ci insegna, lo smarrimento della retta via ci fornirà la gioia e l’importanza dell’illuminazione, ci porterà alla semplicità autentica.

Il risultato porterà ad essere semplici, non sempliciotti.

La semplicità infatti racchiude un’esperienza profonda e completa, un percorso che conduce alla scelta e all’arrivo in quella data condizione. Parafrasando Nietzsche “Se un albero vuole innalzare i suoi rami fino al cielo, le sue radici devono sprofondare fino all’inferno”. Il grande e completo è tale perché ha sperimentato la voce della diversità, ha vissuto nell’assenza e nello sbaglio.

Il sempliciotto invece è ignorante e superbo di una superbia vuota, non s’innalza al cielo realmente, perché non ha compiuto il suo percorso nelle profondità.

Ancora Osho ci mette in guardia da alcuni agiti, quali la recita di mantra, di preghiere, la pratica di riti, che non rappresentano accoglimento del tutto, meditazione, bensì un processo auto ipnotico, molto utile a calmare l’inquietitudine, una specie di droga sottile, che addormenta la mente e l’emotività e non fa entrare la vita, costituita da altro da noi.  

Aggiungerei che di droghe nel nostro tempo ve ne sono molte, pensate ai mezzi ipnotici quali TV, pubblicità, internet, cellulare, moda, lo sport, gli orientamenti politici, le ideologie, le teorie, i numeri, le statistiche, ecc. Siamo circondati da elementi che ci tengono appiattiti e quieti, che calmano la nostra vitalità, sotterrandola prima del tempo.

E non è attraverso le scritture che s’impara la verità, non è attraverso la teoria o la vita vissuta da altri, la verità la si conosce perché si è vissuta, tutte le scritture del mondo ne danno solo conferma (Osho). Questo ci ricorda di vivere la vita per come si presenta, senza estraniarsi da essa attraverso il pensiero, l’intellettualizzazione, la distanza, ecc. La vita non sta nei libri, nelle teorie, nelle ipotesi, ma sta dove nasce e si sviluppa.

Ora, tenendo conto di questo cappello conoscitivo, cerchiamo di vedere cos’è la relazione e come si sviluppa. Possiamo cercare di inserirla in quest’ottica, organizzandola in un tutto intero e complesso. Spesso infatti, capita che si dissezionino le relazioni, scindendole in elementi, decidendo ciò che va bene e ciò che non va, ciò che è maturo da ciò che è immaturo, ciò che è adeguato, morale da ciò che non lo è, eliminando parti della vita e di noi stessi.

La concezione tantrica rappresenta un ottimo spunto per guardare la relazione come un insieme di fattori, coinvolti in ciascun partner della coppia, senza eliminarne nessuno, sessualità compresa.

La sessualità, più di ogni altra condotta è stata da sempre additata con connotazioni negative, restrittive, relegata ad angoli bui, sotterranei e vergognosi della persona, proprio perché vista in una componente limitata. Parimenti la religione continua a proporne una visione ristretta, fornendole dignità solo in quanto fonte di procreazione e conservazione della specie.

Lo stesso Kāma Sūtra è stato ed è visto come una sorta di vademecum pratico, sulle posizioni da adottare durante il rapporto sessuale, utili per sfuggire alla noia.

In verità il Kāma Sūtra è un antico testo indiano sul comportamento umano, è considerato l’opera più importante della letteratura indiana, sull’amore. Questo testo infatti, è costituito da 36 capitoli, suddivisi in sette parti, specificatamente:

1)    Introduzione sull’amore, sul suo ruolo nella vita dell’uomo. Descrizione e classificazione delle donne (4 capitoli).

2)    Disquisizione sull’unione sessuale, considerazioni approfondite sul bacio, sui preliminari, sull’orgasmo, una lista di posizioni sessuali, sesso orale, parafilia, gestione a tre del rapporto sessuale (10 capitoli).

3)    Il matrimonio, avvicinamento alla futura moglie attraverso il corteggiamento e al matrimonio (5 capitoli).

4)    Trattato su una moglie, comportamento adeguato di una moglie (2 capitoli).

5)    Trattato sulle mogli degli altri, seduzione e avvicinamento delle mogli altrui (6 capitoli).

6)    Considerazioni sulle cortigiane (6 capitoli).

7)    Mezzi e meccanismi per attrarre gli altri a qualcuno (2 capitoli).

 

Il capitolo che maggiormente tratta le posizioni sessuali, è troppo spesso scambiato per l’intera opera, ma in realtà ne costituisce solo il 20%. Come abbiamo visto dalla descrizione delle varie parti, il Kāma Sūtra, oltre che un testo storico sull’ideologia e sul costume dell’india dei primi secoli dopo Cristo, rappresenta una disquisizione ed indicazione su come essere buoni cittadini e sull’andamento delle relazioni fra uomini e donne, a tutti i livelli. Il sesso viene descritto come una cosa divina ed è sbagliato solo se praticato in modo frivolo.

Il Kāma, in sanscrito piacere o benessere, costituisce uno dei quattro scopi della vita, ma non può essere ridotto al puro atto sessuale, esso ne è solo la forma finale e conclusiva, che se completa e include ogni elemento della relazione, crea spazio ad un nuovo inizio.

Tutto queste riflessioni possono esserci utili a riconsiderare le relazioni uomo-donna, troppo spesso viste in modo estremo e parziale, alcuni facendosi forza di alcune posizioni teoriche (travisate e non comprese) ritengono che il sesso sia il fine ultimo, l’unica meta della relazione fra sessi, altri negano questa stessa convinzione, per poi rafforzarla nella misura in cui spingono a trascendere l’istinto sessuale, per fini più elevati. C’è poi la visione biologica della conservazione della specie, quella sociologica che ne sottolinea i rispettivi ruoli nel contesto comunitario, quella antropologica definisce la relatività culturale di molte condotte, ecc. In verità, ciascuna componente è presente e di ugual importanza.

Se adesso prendiamo a prestito il concetto di chakra per definire la relazione sessuale, vediamo come questa non sia affatto isolata dal resto né primaria, ma una parte dell’insieme.

Per rendere chiaro il concetto, spendo due parole sui chakra, ricordando che sono sette (Brennan) (li descriverò in modo molto sommario).

Il primo chakra è associato al funzionamento istintivo e autonomo,  ai meccanismi e alle sensazioni corporee (dolore fisico, prurito, piacere, ecc.), è localizzato appena sopra gli organi genitali. Il secondo chakra è associato alla vita emotiva, è lo spazio dove prendono vita i sentimenti, le sensazioni che partono dal corpo e lo trascendono, è localizzato all’altezza dell’ombelico circa, il terzo è legato all’attività mentale, al pensiero lineare ed è localizzato nel plesso solare (alla bocca dello stomaco), il quarto chakra è quello del cuore, è il luogo dove si crea l’amore nei confronti degli altri, del mondo, la capacità di accogliere affettivamente, una modalità di dare incentrata sul movimento verso l’esterno. Il quinto è legato ad una volontà superiore, localizzato sulla gola ed è infatti collegato alla parola, alla capacità di realizzare le cose dicendole, di tramutare uno stato interno in uno esterno oggettivato dal linguaggio, nonché di ascoltare e di assumersi la responsabilità delle proprie azioni. Il sesto chakra, localizzato sulla fronte, viene detto del terzo occhio perché rappresenta la capacità di vedere al di là della concretezza e dell’immediatezza spazio-temporale, si focalizza sul senso e sull’armonia di ogni cosa dell’universo. Infine il settimo, collocato sulla sommità del cranio, costituisce il centro superiore di conoscenza, in quanto luogo di integrazione della composizione fisica e spirituale. L’ultimo si riconnette al primo, creando un connubio fra cielo e terra, fra idee e sensazioni corporee. Si crea un pensiero complesso e articolato.

La polarizzazione dei chakra è contrapposta nell’uomo e nella donna, vale a dire che il primo chakra è positivo nell’uomo e negativo nella donna, per cui a questo livello, come si evince anche dall’anatomia dei due sessi (il pene e la vagina) l’uomo dà e la donna prende. Il secondo chakra dell’uomo è negativo e quello della donna è positivo, per cui a questo livello la donna dà e l’uomo riceve (il ventre femminile è più sporgente di quello maschile e durante la gravidanza lo è in modo visibile). Il terzo, vede l’uomo caricato positivamente e la donna negativamente, ancora l’uomo dà e la donna prende e via dicendo. Questo crea un flusso continuo di scambio energetico e di attrazione fisica, biologica, erotica, emotiva, mentale, ecc. Lo scambio completo però non avviene fra chakra dello stesso individuo, ma all’interno di questo movimento, dell’onda di andata e ritorno fra uomo e donna.

Ora prendiamo la relazione sessuale di una coppia, di primo acchito diremmo che si esplica grazie al primo chakra e in effetti è così, ma solo come risultante finale di una processo più articolato, che vede gli altri chakra in scambio reciproco. Abbiamo detto che il primo chakra dell’uomo è caricato positivamente e ancestralmente è connesso con il fare, col prendersi cura fisicamente della propria famiglia, fornendogli un riparo e dei viveri, con l’impegno per la continuazione della specie, ecc. Per creare un legame con la donna è necessario che lei sia disposta ad accogliere tale energia e a farla fruttare. Ma come avviene questo?

Per rendere possibile in modo effettivo e fluido questo scambio è necessario che prima la donna sia disposta a scambiare e donare l’energia al secondo chakra, cioè che senta un investimento emotivo, energetico, sensuale verso l’uomo con cui è in relazione e soprattutto che lui, sia disposto ad accogliere e ricevere tutto quest’investimento emotivo, nel suo secondo chakra. Il contatto corporeo a questo livello, è legato strettamente alla qualità emotiva e al messaggio relazionale, infatti è costituito da carezze, abbracci, coccole, ecc. Tale scambio non è così scontato, perché prevede che l’uomo, abituato a viversi come il polo propositivo ed attivo, sia disposto ad assumere una posizione più ricettiva e passiva, ma ancora di più che sia familiare al linguaggio emotivo, cosa per niente scontata, essendo una dimensione più propria della donna. Se c’è chiusura da parte dell’uomo, se non è “disposto” (nel senso di capace emotivamente, abbastanza fiducioso di sé e degli altri, ecc.) a vivere un coinvolgimento affettivo, di qualunque entità e misura sia, la donna si sentirà frustrata, menomata nel suo mondo interno, nella dimensione che le è più connaturale, nel suo preminente linguaggio relazionale.

A sua volta, questo scambio al secondo chakra è connesso e condizionato dallo scambio al terzo, dove l’uomo primeggia nella spinta propositiva. Qui l’energia maschile si esprime nel senso del dispiegarsi della sua natura mascolina, sessuale, ma anche aggressiva, seduttiva, proponitrice, nel forte bisogno di tenere il controllo per poter dominare. Se la donna non si lascia sedurre, affascinare, se non riesce a farlo sentire piacevole, adeguato, soddisfacente sessualmente, se non gli lascia spazio d’espressione lui si sentirà minato nella propria personalità e non sarà propenso ad accogliere l’emotività della donna, che a sua volta non sarà disposta ad accogliere effettivamente la sua energia sessuale del primo chakra. Ma ancora, tutti questi livelli sono associati al quarto chakra, dove il seno femminile primeggia come portatore di amore, di nutrimento emotivo, che l’uomo deve saper accogliere, diventandone l’oggetto. Questo livello, rappresenta il ruolo femminile e materno, contraddistinto da emotività, mediazione e tutte componenti evocative dell’unione.

Nello stesso andamento, troviamo il rapporto fra tutti gli altri chakra. Tutti e sette sono strettamente connessi con questo movimento e scambio d’energia, tutti concorrono all’unione e all’integrazione finale.

L’espressione di ciascun membro della coppia, nella sua individualità e unicità, deve trovare spazio e tempo di accoglimento nell’altro, pena il senso di non ritorno, di mancato scambio, di scarsa circolarità. L’energia (a livello di chakra), il dialogo, la riflessione, l’espressione verbale, comportamentale, emotiva, deve trovare un riscontro nell’altro, in qualcuno in grado di ascoltare, vedere, accogliere, nutrire e fornire la risposta appropriata al giusto livello. Se manca la parte di accoglimento, quella caratterizzata dal segno meno, dal vuoto che contiene il pieno, si produce solo una lotta per ottenere spazio, ascolto, posizione, potere, decisione, per primeggiare insomma e non si crea movimento.

Le persone non sono uguali ma hanno ugual diritto di ascolto, attenzione, amore, risposte, ecc., ma questo spazio non lo si trova certo con la lotta e la pretesa, bensì con uno scambio reciproco. Nelle relazioni fra uomini e donne, quando non si compie tutto il passaggio dei vari chakra, la sessualità diventa superficiale e non soddisfacente, un puro atto esecutivo ed esibizionistico.

I chakra, che esistano o meno, sono un’ottima espressione simbolica di ciò che le persone hanno bisogno, per poter dare sé stesse nel proprio intimo, senza sentirsi minacciate, derubate, truffate, depauperate, sedotte, ecc. E’ importante sentirsi amati, stimati dall’altro per le proprie capacità, sentirsi compresi, aiutati, sostenuti, visti nel loro intero, ma ancora di più sentire la libertà di dare ciò che sappiamo dare e di farlo al nostro meglio, per come sappiamo farlo. Se l’altro tarpa la nostra libertà, l’espressività più totale e disinibita, allora ci sarà una mutilazione di sé, della relazione. Non ci sarà vera relazione, non ci sarà scambio profondo.

La mancata espressione di sé, può avvenire in modi molto sottili e inconsapevoli, di solito si tratta di uno spazio rifiutato, negato, allontanato, attraverso piccoli rimproveri, disapprovazioni velate, ascolto parziale, mancato appoggio, ecc. Ad esempio, l’uomo che teme di innamorarsi per paura dell’eventuale sofferenza, non permetterà alla donna di esprimere tutto il suo amore, pena il rischio di  lasciarsi andare e predisporsi al sentire e alla propria fragilità. Di fatto, è un meccanismo che scatta in automatico e in modo inconsapevole, ma la donna si sentirà privata del suo spazio naturale, del suo slancio, sentirà che una parte di lei non viene accettata e deve rimanere inespressa. A sua volta, può darsi che alla lunga lei stessa si saboterà in ogni forma d’espressione emotiva e senza rendersene conto, si costruirà una barriera fra loro, la relazione non potrà andare a fondo, non potrà crearsi uno stato di intimità, né emotiva né sessuale. E così capita che la donna fa entrare fisicamente l’uomo nel proprio corpo, ma non gli concederà la piena espressione, non gli fornirà un reale spazio di accoglimento. Dietro un’apparente accettazione, si nasconderà un rifiuto, che si esprimerà nei modi più sottili (impotenza, eiaculazione precoce, insoddisfazione, mancato trasporto, senso di incompletezza incomprensibile, senso di rifiuto, frustrazione, ecc.).

Ricordiamo inoltre che la relazione d’amore, proprio perché è una relazione contraddistinta da forte vicinanza, da intimità, da caduta di restrizioni, tabù, ecc., è contraddistinta da un alto livello di aspettative. Proprio grazie al legame così importante, ci aspettiamo maggiore ascolto, comprensione, tempo, energia, disponibilità, attenzione, ecc., rispetto a quanto ci fornisce il mondo e come tale, il livello di scambio può vibrare con note molto sottili e preziose ma, ad un orecchio tanto raffinato, può stonare assai visibilmente. Tanto investimento, tanto scambio, tanta relazione, conduce inevitabilmente ad aspettative elevate e ad altrettante frustrazioni.

Tutto questo però non è negativo in sé e non conduce a risultati necessariamente distruttivi, se siamo disposti ad investire nella relazione, a comprendere le ragioni dell’altro, le ferite, i dispiaceri, a stare, se siamo disposti a vedere anche la parte frustrante e deludente di noi stessi e dell’altro, se teniamo conto delle tante pretese ingiustificate, allora tutto diventa fonte di trasformazione e completamento, fino ad ottenere un unione sempre più profonda e importante. In caso contrario, avremo un ricco vivaio che si seccherà gradualmente, lasciando solo terra bruciata.

L’eros dunque è qualcosa di molto delicato, perché poggia in tutto questo, in questo delicato equilibrio di emotività, conoscenza, comprensione, ma anche di stimolo reciproco, di un percorso non concluso, di un porto, non d’approdo ma di passaggio. Nessun elemento di noi stessi può essere eliminato, nello stesso modo nessuna componente dell’altro e della relazione deve venir trascurata. L’eros arriva dalla vitalità, dalla vita vibrante, dalla pulsazione dei bisogni e dei desideri.

La sessualità e lo scambio totale quindi, saranno pienamente effettivi solo quando entrambe i membri della coppia saranno recettivi alla vita e allo scambio, altrimenti ci sarà una lotta, una competizione continua per stabilire chi conduce il rapporto, o semplicemente un’accettazione passiva e fasulla da parte di uno dei due.

Il concetto di Eros nella Grecia antica è sinonimo di pura forza ed attrazione, per Omero è un magnetismo irresistibile fra due persone, che può portare a perdere la ragione o alla distruzione. E’ solo successivamente che Eros diventa un dio, non più terribile ma divinità dell’amore, nonostante ciò possiede ancora un grande e pericoloso potere, vedi ad esempio le rappresentazioni di Euripide. E via via assume sempre connotati diversificati, in base alle origini attribuite, alle relazioni e funzioni. In Amore e Psiche rappresenta il futuro sposo di Psiche, che non deve essere guardato in volto, ma vissuto col sentire della notte.

L’Eros ellenico poi denota una relazione amorosa fra individui dello stesso sesso, solitamente un giovinetto ed un uomo più maturo. La relazione comprende solo in minima parte la relazione sessuale, per abbracciare fini educativi, a favore della futura vita pubblica.

Successivamente, grazie a Freud abbiamo compreso più chiaramente come l’attrazione erotica, spirituale e fisica, può essere vissuta verso una persona dell’altro sesso, del proprio sesso, ma anche nei confronti della sua rappresentazione, questo ci ricorda l’importanza, l’investimento della qualità emotiva e mentale, che vi ruota intorno, complessificandone la natura.

Inoltre, ancora sulla stessa scia possiamo guardare ciò che contraddistingue l’erotismo dalla pornografia. Nella pornografia si applica una separazione netta fra sessualità rappresentata ed emotività, generalmente esclusa, il sesso infatti è trattato e usato come un oggetto, che si compra, si baratta, si vende, si usa a proprio piacimento. L’erotismo invece, è caratterizzato dalla presenza di un vissuto emotivo, di una relazione piena e complessa ed il sesso è parte integrante e inscindibile di esso.

La tramutazione di questi concetti nel corso dei secoli, non ne modifica l’essenza di base, ovvero la complessità e l’interscambio di parti diverse. Tutto questo ci ricorda anche che parliamo solo di ciò che conosciamo, parimenti agiamo e siamo solo ciò che conosciamo, ciò che abbiamo sperimentato e ci appartiene profondamente. Ed è in visione di ciò, che una sessualità troppo precoce è assai restrittiva e prematura, poco compresa, talvolta abusata e dannosa. Ci vuole tempo, esperienza, conoscenza, saggezza, sviluppo psico-educativo-emotivo perché la sessualità assuma un valore pieno ed uno scambio totalmente soddisfacente e reciprocamente costruttivo.

Ci ricorda l’importanza della relazione, dell’impegno e della costruzione del legame, qualcosa di assai complesso e articolato, frutto di continuo investimento. Invece capita di pensare di poter saltare alcuni passaggi fondamentali, di comprare qualcosa che non è in vendita, di pretendere ciò che non ci siamo guadagnati, di vivere privi di alcuni elementi fondamentali.

Sembra che sempre più, facciamo a meno di molte cose, compreso della sessualità, della relazione più piena, dello scambio emotivo, della profondità di noi stessi, dell’onestà.

Mi viene da pensare alle tante coppie che, nonostante non presentino effettivi problemi di fertilità, ricorrono alla procreazione assistita. Spesso se si indaga a fondo, si scopre che il numero di rapporti è assai basso, talvolta quasi inesistente. Questo lascia molto da pensare. Come si fa poi a dire: Non riusciamo ad avere un figlio! Eppure, queste persone ne sono convinti, perché ormai le cose sono andate avanti e hanno perso la radice della loro condizione, non si ricordano più da dove sono partiti, dei sogni, dei progetti, delle aspettative, del sentire vivo, della passione iniziale.

Parimenti, l’adozione predispone ad una realtà troppo precoce per quella coppia, spesso immatura perché non ha compiuto tutte le fasi che si succedono in un normale processo relazionale. Non a caso, spesso i figli arrivati a noi attraverso l’inseminazione, attraverso l’adozione, portano alla separazione della coppia che non regge ad una serie di difficoltà, presentatesi in modo brusco, inaspettato e la coppia si trova impreparata ad affrontarli.

Per poter vivere e superare i momenti critici delle coppie, legati alle varie fasi di crescita dei figli naturali, è necessario tutto un processo di trasformazione della coppia stessa, questo è ancora più evidente nelle situazioni di figli non naturali, dove le complicazioni ed i passaggi possono essere macroscopici. Del resto l’infertilità o la mancata gravidanza senza cause organiche, denunciano qualche intoppo nella coppia a livello emotivo e relazionale.

La nascita di un figlio, comunque sia, ci pone di fronte ad un importante specchio di noi stessi, della nostra qualità emotivo-relazionale, del nostro modo di affrontare le cose, le persone, del modo di rivolgersi a loro, di guardarle. I figli impareranno non da ciò che diciamo ma da ciò che siamo, da quanto facciamo e da come lo facciamo, senza esclusione di colpi. Tutto questo ci sorprenderà, ma è inevitabile, quando vedremo loro usare le nostre stesse frasi, le espressioni del viso, lo stesso modo di sorridere o di accigliarci, l’identico modo di esprimere la rabbia, la stessa quantità di energia nell’affrontare le cose. Tutto ci tornerà indietro come un bumerang.

Estés citando la storia di Manawee, ci ricorda che per la donna selvaggia è necessario un compagno che sappia coglierne la sua duplicità, nella storia espresse dalle donne gemelle, rappresentati la parte femminile esterna, visibile ed esplicita e quella interna e sotterranea, guidata dall’inconscio. Solo l’uomo che è disposto a mostrare tutta la propria volontà nell’interagire con loro, che sappia trovare il loro nome e chiamarle, l’uomo che sa stare nel mondo esterno e sotterraneo, solo quell’uomo sarà in grado di meritarla e di goderne.

La qualità della relazione sarà il primo elemento che ricadrà su noi e sui nostri figli. Quante volte, loro agiscono le dinamiche distorte? Quante volte, attirano l’attenzione con condotte anomale, con malattie e disturbi? Quante volte ci obbligano con il loro malessere ad andare a vedere il perché, il cosa sta succedendo?

I figli spesso agiscono le dinamiche della coppia, “spingendoli” (se così si può dire) a separarsi o all’inverso a rimanere uniti.

Certamente poi ognuno fa ciò che sente di fare e in base a quanto e come sappiamo dare, a come investiamo, avremmo un ritorno corrispettivo. Possiamo credere di fare a meno di tante cose, ma il risultato sarà la privazione, sarà una relazione piatta, sarà una doppia vita, una dimensione segreta di noi, una parte inespressa, una parte sconosciuta anche a noi stessi.

Alla fine, la cosa che ci appare più semplice e gratuita, in realtà è quanto di più importante ed impegnativo ci troviamo a vivere. La relazione con l’altro e prima ancora con noi stessi, misura il grado della nostra forza, della persistenza, dell’impegno, della consapevolezza, del desiderio che ciascuno di noi mette nel vivere.

E del resto è proprio l’amore per l’altro che ci porta al cambiamento, che ci permette di farlo. Spesso infatti per amore di noi stessi ci rintaniamo nel nostro guscio e nella nostra insindacabile quotidianità, fatta di abitudini e di certezze cristallizzate, rimanendo ciechi e sordi alla vita e al cambiamento. L’altro invece, che ci mette di fronte alla sua diversità e ai suoi bisogni, ci impone di muoverci, di spostarci dalla nostra fissità, di guardare oltre, di comprendere e annusare aria nuova. L’amore che proviamo per l’altro ci veicola là dove non avremmo mai il coraggio e la forza di andare, o meglio dove noi crediamo che non avremmo mai il coraggio e la forza di andare.

Direi che è meraviglioso e misterioso come l’emotività, vada poi ad influire sul fare, sulla comprensione, sull’ampliamento delle conoscenze, sulla qualità relazionale ed emotiva stessa. Parimenti l’assenza dell’altro da amare, l’assenza di una risposta emotiva dell’altro, ci pone di fronte ad una mancanza che ci muove a dismisura.

La forza della solitudine, del vuoto o all’inverso della pienezza, ci darà la misura di tutte questi elementi che ci mettono alla prova in continuazione e ci chiedono di esserci senza posa.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Brennan B.A. (1997). Mani di luce. Come curarsi e curare tramite il campo energetico umano. Cuneo, Longanesi.

Estés C.P. (1993). Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna Selvaggia. Piacenza, Frassinelli.

Osho R. (1981). Tantra. La comprensione suprema. Bompiani.

Wadud S.D., Waduda M.P. (1995). L’alchimia della trasformazione. Guida pratica all’esplorazione di sé. Milano, Urra.

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26 gennaio 2012 4 26 /01 /gennaio /2012 14:52

In risposta a Claudia

 

 

Riporto di seguito il quesito di Claudia (nato dalla lettura dell'articolo La strada del ritorno) e successivamente la risposta a quanto mi sta chiedendo.

 

 

 

Molto interessante.

Voglio condividere questo link, che è un po' in tema.

http://www.sololibri.net/Il-nido-dei-sogni-Rosa-Montero.html

 

Una cosa non riesco a figurarmi: in che senso il masochismo può essere inteso come una maschera? La dipendenza e il controllo sugli altri mi è chiaro, ma il masochismo ha una funzione che non
riesco a classificare.
Grazie!


Claudia

 

 

Ciao Claudia,

leggerò volentieri il tuo suggerimento, grazie!

Riguardo a quanto mi chiedi,

bhe partiamo da ciò che comprendi meglio.

Nella ferita di Rifiuto, il bambino s’è sentito rifiutato dal genitore (di solito quello dello stesso sesso) e come reazione, come meccanismo di difesa, per proteggersi dal dolore del rifiuto attuale con i genitori e poi con altre figure presenti e future, adotta la maschera del Fuggitivo. E’ una controreazione che gli rifornisce il controllo emotivo sulla situazione e sulla vita. Non è l’altro che lo rifiuta ma è lui che fugge. Tutto sembra più accettabile e meno doloroso.

Naturalmente è un processo inconsapevole.

Nella ferita di Abbandono (di solito attuata dal genitore dell’altro sesso), parimenti il bambino per il timore di essere abbandonato nuovamente, adotta la maschera del Dipendente, ha assolutamente bisogno degli altri, non può fare niente senza, “è poverino, ingenuo, incapace, fragile” ecc. e chiunque lo abbandonasse sarebbe veramente un “Vigliacco! Cattivo, sadico, ecc.”. Questo il messaggio implicito che genera il processo psichico.

Ora veniamo al masochismo. Nel caso della ferita dell’Umiliazione, succede che i genitori, di solito la madre, umilia il bambino continuando a dirgli cosa deve fare e come farlo, continuando a farlo sentire incapace e inadatto, invadendo il suo spazio personale e fisico, umiliandolo appunto nella sua individualità e indipendenza. In risposta a questa situazione così frustrante e incastrante il bambino e poi l’adulto assume la maschera del Masochista, con questa maschera (costituita da atteggiamenti, modi di fare, di dire, sentire, ecc.) assume il controllo e la condizione attiva della situazione.

Lui/lei, fa ciò che gli viene chiesto o che gli altri si aspettano che faccia o dica, perché è una persona gentile, accomodante, generosa, dedita agli altri, ecc. e non perché qualcuno lo costringe o perché è incapace di decidere autonomamente.

Come capita anche per le altre maschere, questa serve per ristabilire un senso di potere su sé, sulla propria vita e sulle proprie scelte, ma è solo un’illusione, perché la ferita permane ed è inconsapevole.

La maschera è la risposta che il bambino trova , per sopravvivere nel modo migliore alla ferita, ma di fatto è come mettere un cerotto ad una ferita, non si vede, è nascosta ma non è cancellata. Per cui, smascherarsi è importante, è il primo passo per andare a scoprire la ferita e poterla finalmente curare.

Naturalmente ciascuno di noi può avere più maschere, anche se generalmente ce n’è  una che risulta maggiormente predominante e strutturante rispetto alle altre. Talvolta la ferita principale, quella più profonda è quella meno visibile, che si nasconde sotto altre più evidenti ed superficiali. Capita infatti che una volta guariti da una ferita, ne salti fuori un’altra, sorprendendoci e lasciandoci nello sgomento.

Ma non c’è nulla di cui preoccuparsi, la cura e la guarigione è un po’ un processo a strati e progressivo.

 

Spero di essere stata esplicativa.

Un saluto

Sabrina

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