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25 gennaio 2012 3 25 /01 /gennaio /2012 09:39

La strada del ritorno

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

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I viaggi, le partenze e le fughe, rappresentano temi dominati e ripetuti della vita delle persone. La vita è tutto un viaggio, un percorso in varie direzioni, con terreni e ambienti svariati, ha inizio come fuoriuscita da un “habitat” (ventre materno) per entrarne in un altro assai diverso, più rumoroso, pieno di colori, odori, movimenti e ampi spazi, ecc. Così procede, così fino al suo termine.

Viene da sé che la vita è tutta una partenza, uno spostamento da un posto ad un altro, sia fisico che mentale, emotivo, evolutivo, talvolta involutivo. Ci spostiamo da una scuola ad un’altra, da un’abitazione ad un’altra, da una convivenza a un’altra, da un piccolo mondo di certezze a mille altri (ipotetici e reali), si comincia ad oltrepassare una piccola siepe per abbracciare crescenti oscurità, paure ed incertezze.

La partenza ed il cambiamento dunque, ci accompagnano naturalmente.

Capita poi che anziché partire si fugga e ciò comporta una dinamica diversa. La partenza è rivolta ad uno specifico obiettivo, una meta, secondo una spinta direttiva e propositiva, un bisogno, un desiderio, la fuga invece è il prodotto di un allontanamento da qualcosa, si nega l’esistenza di quel qualcosa dalla nostra vita, non si va verso ciò che si vuol raggiungere ma semplicemente si taglia con ciò che non ci piace, ci fa soffrire, con ciò che non sappiamo integrare, con ciò che vogliamo sopprimere, di cui non riconosciamo l’esistenza. La partenza arricchisce, integra, mette insieme parti diverse di noi, la fuga taglia, riduce, impoverisce queste parti, depaupera l’essere.

Comprendiamo bene che esiste una differenza sostanziale di percorso e di qualità, fra andare e fuggire, fra una vita all’insegna della costruzione, della conquista, della comprensione e quella all’insegna del rifiuto, della distruzione, dell’ignoranza. La partenza infatti conduce nuovamente là dove siamo partiti, produce un ritorno all’origine, con un’identità intrisa di una diversa consapevolezza, mentre la fuga che in verità non ha mai permesso una vera partenza, non produrrà nessun ritorno e nessuna trasformazione evolutiva, ma solo stasi.

Dobbiamo intendere la partenza e la fuga non unicamente come processi concreti e spaziali, ma anche e soprattutto come percorsi interiori intrapsichici. Pensiamo ad esempio alle ferite e alle loro maschere (Lise Bourbeau). Le maschere (intese come comportamenti, atteggiamenti, credenze, ecc.) rappresentano dei meccanismi di fuga e di nascondimento dalla ferita stessa. Per cui, ad esempio chi vive la ferita dell’abbandono si nasconderà e fuggirà dietro la maschera della dipendenza, chi ha subito la ferita dell’umiliazione si celerà dietro la maschera del masochismo, chi si è sentito tradito si ammanterà della maschera del controllo e così via. Quel che ci interessa qui è comprendere che se ci ammantiamo di una maschera, se ci nascondiamo, se fuggiamo dalla nostra realtà, non abbiamo l’opportunità di comprenderla, di modificarla e ma senza saperlo, cadremo sempre lì, in modo circolare e ripetitivo. Nessuna partenza, nessuna trasformazione, nessun ritorno.

Parimenti si tratta di fuga, quando a livello relazionale non siamo disposti alla reciprocità e alla messa in discussione di noi stessi e delle nostre responsabilità, sia in relazioni alla pari con coetanei, amici, colleghi, ecc., che in relazioni asimmetriche come con figli, genitori, datori di lavoro, impiegati, pazienti, ecc. Noi non siamo lì, nel nostro posto, nel nostro ruolo, con possibilità e responsabilità, ma lo abbandoniamo, lasciando solo una figura esterna, una maschera di noi stessi. Partire invece, ci concede il lusso di vedere riflessa negli altri la nostra ferita, di vedere i nostri misfatti, le ferite che noi stessi procuriamo agli altri e ancora di più a noi stessi, comporta anche vedere la via risolutiva, prendersi la responsabilità di ciò che siamo, di ciò che agiamo e di come lo agiamo, infatti, ci fornisce il potere della visibilità e del cambiamento.

Le fiabe, le storie tramandate, i miti, parlano proprio di questo, di un percorso, di un’evoluzione e di un’involuzione, del cambiamento e della trasformazione. Questo ritroviamo quando abbiamo a che fare con il bene e con il male, col bianco e col nero, con le fate e le streghe, con le streghe del male e del bene, con il cielo e con la terra.

Le fiabe, costituiscono uno dei regali più importanti che possiamo fare ai nostri figli. E’ un regalo che facciamo a loro, come bambini e a loro, come futuri adulti. E’ un regalo che noi facciamo a noi stessi, adulti di oggi e bambini di ieri.

Le fiabe, come ci ha insegnato Bettelheim, sono uno strumento di crescita, la strada per la risoluzione dei conflitti, senza il ricorso a giudizi o moralismi, come invece succede nelle favole o in altri tipi di storie.  

Utilizzano il linguaggio simbolico e parlano ad una parte della nostra psiche, che si esprime ed si organizza intorno al simbolo: l’inconscio. E’ proprio attraverso l’utilizzo del simbolo, ciò che può apparire eccessivamente violento, doloroso e triste, in realtà non lo è, rappresenta in modo adeguato una realtà interna, una condizione evolutiva intra- e inter- psichica. Non si tratta della realtà concreta, di un reale abbandono, di una reale ferita, rifiuto, ecc. ma di un vissuto di abbandono, di dolore, di rifiuto, di rabbia, di trionfo, ecc.

La fiaba inoltre fa ricorso alla magia nelle sue varie vesti, chiamando così in causa un mondo al di là di quello razionale e concreto, un mondo emotivo, inconscio, onirico, con leggi proprie, con regole-non regole, dove “Desiderare serve ancora a qualcosa” (come citato in il Principe Ranocchio o Errico di Ferro, fratelli Grimm).

La realtà dello schermo (TV, PC, playstation, game boy, ecc.) al contrario, ci mostra una realtà concreta, dove la violenza ed il dolore rappresentati sono reali e cruenti, per tanto shoccanti e traumatizzanti (Costantini, 30/06/09, 16/04/08).

L’individuo grande e piccino, è a rischio di dipendenza dallo schermo, che ipnotizza una parte importante del cervello, rendendolo ricettacolo inerme di contenuti e forme, che rimangono insospettatamente sepolte nell’inconscio, pronte ad emergere quando meno ce lo aspettiamo. Lo schermo dunque, è violento sia nel contenuto che nella struttura.

Non sono esclusi da questa realtà, i programmi per bambini, come cartoni animati, video giochi, ecc. Recentemente si sono aggiunte le immagini delle carte e dei libri sadico-umoristici, quali i libri di Andy Riley Scott (Costantini, 23/02/09), ecc.

Tutto è esplicito e sovrarappresentato a livello visivo, veloce ed ambiguo.  Si tratta di un’ambiguità che ci si ritorce contro, perché inconsapevolmente mostra una condizione ridicolizzata o svalutata, ma che invia emotivamente un altro tipo di messaggio, che ferisce la nostra sensibilità ed il nostro equilibrio.

La fiaba, come del resto la lettura, sono anch’essi ambigui, ma di un’ambiguità nutriente. In questo caso, non è il messaggio ad essere ambiguo ma la percezione, perché la vista viene frustrata con l’assenza di immagini. Si forniscono dei concetti, che parlano il linguaggio della realtà emotiva in modo inconfondibile, lasciando che la persona cerchi al proprio interno, le immagini corrispettive del mondo che gli appartiene.

In questo senso, le fiabe sono un seme in continuo germogliare, un materiale vivo e presente dentro di noi, pronto a rispuntare quando meno ce lo aspettiamo, ma questa volta nutriente e costruttivo. Una fiaba è per sempre. E’ un percorso che, anche dopo tanti anni, ti permette di ritornare a casa, esattamente come Hänsel e Gretel.

Questa fiaba rappresenta il superamento della fase orale. La prova insita in questa fiaba infatti, permette al bambino di passare dalla fase in cui si è nutriti unicamente dalla madre, alla fase dell’individuazione e dell’indipendenza, spingendo ad “alimentarsi” da soli.

La storia ci mostra una scissione e successiva riconciliazione importante, fra una madre buona, che nutre e ama, con una madre cattiva, che divora ed odia. Mette anche in risalto il pagamento del nutrimento, il costo di questa funzione per la madre, che si riversa necessariamente anche sui figli. Questa fiaba, permette ai bambini di tornare a casa, dopo l’allontanamento e la vittoria sulla madre cattiva, che scaccia e depriva, ma non in modo gratuito, bensì sotto la spinta di un’evoluzione personale, sotto l’invito a prendersi la responsabilità della distruttività insita nella propria oralità. Non c’è solo una Madre cattiva ma anche un Bambino cattivo.

Quale altro strumento, può essere capace di far compiere un processo psichico articolato ed evolutivo, come questo?

Vediamo la storia nello specifico (fratelli Grimm).

C’era una volta due bambini che avevano perso la mamma ed il padre ben presto si risposò, con una donna cattiva e malvagia.

 No, in realtà questa non è la storia come in origine viene narrata!

La storia narra che nel bosco viveva un povero taglialegna con la moglie e i due figli. Era un periodo di grande difficoltà e non avevano molto da mettere sotto i denti. La matrigna dunque, una sera disse al marito di lasciare i bambini nel bosco, perché presto sarebbe arrivato l’inverno, erano troppe bocche da sfamare e sarebbero morti tutti di fame. Il padre non se la sentì di lasciare i figli nel bosco e così andarono avanti ancora, fino a che la matrigna non riprese a fare lo stesso discorso.

Dopo tanta insistenza l’uomo acconsentì e Hänsel, che aveva udito tutto da dietro la porta, andò in giardino e raccolse una manciata di sassolini bianchi.

 Il giorno successivo, la madre diede un pezzo di pane ai due bambini e i due li condussero nel bosco. Lungo il percorso, Hänsel disseminò i suoi sassolini. Arrivati al centro del bosco, il padre disse ai bambini di aspettarlo lì, ma quando fu sera Gretel, accorgendosi che il padre non sarebbe tornato, si mise a piangere disperata, il fratello le disse di non preoccuparsi, sarebbero tornati a casa grazie ai sassolini lasciati lungo la via e così fu, aspettarono il buio ed i sassolini mostrarono loro la strada del ritorno, grazie alla loro luce riflessa.

Tornati a casa, la matrigna riprese a fare lo stesso discorso, il padre doveva portare i bambini nel bosco ma questa volta ancora più lontano, in modo che non potessero tornare, nello stesso tempo chiuse la porta della cucina e Hänsel che udì tutto anche questa volta, non poté raccogliere i suoi sassolini. Per cui il giorno seguente, lungo il percorso il piccolo lasciò le bricioline di pane fornitogli dalla madre e arrivati nel bosco si ripeté la scena precedente. A sera i due bambini cercarono di rientrare grazie alle bricioline, questa volta però non fu possibile perché gli uccellini le avevano mangiate tutte. I due piccini disperati e affranti si misero a piangere, stringendosi forte forte.

Dopo un po’ riuscirono a farsi coraggio e si misero a girare per il bosco, camminarono tutta la notte e anche il giorno seguente, erano stanchi e affamati, si fermarono sotto un albero e si addormentarono. Era la terza mattina, ripresero a camminare addentrandosi sempre più nel centro del bosco, se non avessero trovato qualcuno sarebbero presto morti di fame. A mezzogiorno videro su un ramo, un bell’uccellino che cantava, si fermarono ad ascoltarlo, poi l’uccellino volò via, lo seguirono fino a che si posò sul tetto di una casa.

Da non credere, la casa era fatta di pane e focaccia, le finestre erano di zucchero trasparente, i piccoli fecero proprio una gran scorpacciata. Ma ad un certo punto sentirono una vocina

                                           Rodi, rodi, mordicchia

                                           La casina chi rosicchia?

 

                                  Il vento, il venticello,

                                  il celeste bambinello (risposero  loro)

 

Non se ne curarono e continuarono a mangiare, fino a che si aprì la porta e uscì una vecchia decrepita, i piccoli si spaventarono tanto al punto da lasciarsi cadere ciò che avevano in mano.

Così la strega seducendoli li invitò ad entrare, preparò una gustosa cena e li mise a dormire in due bei lettini. La vecchia, fingeva di essere benevola ma in realtà era una strega cattiva, con gli occhi rossi e vista corta, ma con un finissimo fiuto, tanto da annusare presenza umana fin da lontano, esattamente come gli animali. Attirava i bambini con la casa ricoperta di squisitezze, per poi ucciderli, cucinarli e mangiarli. La mattina seguente infatti, prese Hänsel, lo rinchiuse in una stia con l’idea di ingrassarlo e poi divorarlo, poi prese Gretel per un braccio ordinandole di cucinare, pulire e quant’altro servisse.

Giorno dopo giorno, la bimba sfaccendava dalla mattina alla sera, mangiando miseri avanzi, mentre il fratello veniva servito di piatti sontuosi e poi palpato dalla strega, per verificare quanto fosse ingrassato. Ma il piccolo, anziché mostrare il braccino, mostrava un osso di pollo, così che la strega cieca non se ne accorgesse e pensasse stupita che il bimbo non ingrassava.

Alla fine però, dopo quattro settimane lei si stufò di aspettare, era arrivato il momento di  mangiarlo magro o grasso che fosse. Disse a Gretel di andare a prendere l’acqua, accese il forno e le intimò di controllare che fosse ben caldo, ma la bambina che aveva intuito l’intenzione malevola della strega, disse che non sapeva come fare e la strega per presunzione e cecità cadde nel tranello, entrò nel forno per insegnarle, Gretel la chiuse dentro così che bruciò miseramente e Hänsel fu prontamente liberato.

Nel vagare per la casa trovarono molti forzieri con oggetti preziosi, ori e perle, ne presero un po’ e presero la strada del bosco per tornare a casa. Dopo due ore di cammino trovarono un fiume che non aveva passaggio, così Gretel chiese ad un’oca bianca di aiutarli, saggiamente la piccola non si fece traghettare con Hänsel come lui desiderava,  per evitare che l’oca si stancasse troppo e li facesse morire tutti e due, aspettò che lui fosse già stato trasportato.

Giunti a casa, il padre fu tanto contento di rivederli. Da quando li aveva lasciati nel bosco, non aveva più avuto un attimo di tranquillità, la donna invece era morta. Gretel mostrò il suo grembiule colmo di perle e ori e così  vissero insieme felici e contenti.

Ora riguardando tutta la storia ed esaminiamo il falso inizio: “C’era una volta due bambini che avevano perso la mamma ed il padre ben presto si risposò, con una donna cattiva e malvagia”, esso non è il vero inizio della storia marappresenta la traduzione mentale e la trasformazione inconsapevole, che spesse volte le fiabe subiscono durante la narrazione orale. Nella versione originale non viene mai detto che la madre muore ed il padre si risposa, frequentemente però chi la racconta, fornisce questa versione.

Nella fiaba originale, in alcuni punti si parla di madre, in altri di matrigna, ad esempio si cita la parola matrigna quando la donna chiede all’uomo di abbandonare i bambini nel bosco. Questo ci fa pensare che la donna non sia realmente una matrigna ma lo sia da un punto di vista emotivo, cioè che rappresenti il vissuto del bambino di una “madre cattiva”, una madre che si sente deprivata dalle esigenze dei propri figli, un vissuto in parte reale e sano, che si sviluppa verso l’anno di età quando la simbiosi viene meno, ma qui espletato in modo eccessivo e deprivante (nella proposta risolutiva). Si tratta di una funzione negativa, espressa anche linguisticamente dal suffisso dispregiativo –igna, ma in realtà negativa solo nel modo in cui può essere espressa, non nel bisogno primario.

E’ naturale che ad un certo punto la madre senta il bisogno di riprendersi la propria vita e di rendere più autonomo il bambino, creandogli degli spazi anche all’esterno della famiglia (ad es. mandandolo all’asilo, al nido, dai nonni, ecc.), non lo è quando questo bisogno viene vissuto in modo impellente, urgente, pena la propria sopravvivenza, al punto che ne emergono soluzioni drastiche e violente (abbandono, rifiuto, delega totale, uccisione, ecc.)

Come ci suggerisce Bettelheim inoltre, la fiaba inizia in modo realistico e ci ricorda una triste realtà, ovvero le persone che si trovano in difficoltà non abbondano in generosità, anzi spesso mostrano i lati peggiori di sé, il sentirsi deprivati, porta a proteggere le proprie misere cose, all’incapacità di condividere, al tenere tutto per sé, ecc. Ma anche questa condizione è rappresentativa anche di una realtà interna: quando l’individuo si trova in una sorta di carestia emotiva, quando ogni equilibrio è vissuto in modo precario, alla stessa stregua di un momento di recessione economica estrema, allora si ritira ogni forma di contatto, di scambio che possa far disperdere energie, che possa procurare una qualche forma di cambiamento, che possa minimamente far crollare il delicatissimo equilibrio. Si rimane fermi nella posizione di partenza, imbalsamati nella paura, che intravede pericoli in ogni dove.

Riflettendoci su, ci diviene chiaro che questa realtà concreta è anche rappresentativa del mondo interno dei bambini, che svegliatisi nel mezzo della notte per la “fame”, temono di essere abbandonati e fatti morire di stenti. Si evince l’enorme ansia, nello scoprire che la madre non è più disposta a soddisfare i propri bisogni orali, che desidera separarsi e disfarsi di loro. Viene rappresentata una sorta di competizione: sia la madre che i bambini temono di essere deprivati di qualcosa, la madre della propria individualità, i figli della totale disponibilità materna e del nutrimento assoluto.

Nell’inizio della storia, si sottolinea anche una dimensione individuale, rappresentata dal padre: “C’era un taglialegna, con la moglie e i due figli”. In questa frase risalta l’identità dell’uomo, che possiede una moglie e due figli, ci rammenta la dimensione paterna, più separata, razionale e improntata all’agire, rispetto a quella materna, diadica ed inizialmente simbiotica. Al termine della storia, quando anche i bambini si sono individuati e distanziati dalla madre, è ancora lui in primo piano, indicando così non tanto la figura (il padre), quanto la funzione: quella individuale e separata.

I bambini spaventati e adagiati nella condizione di totale legame con la madre, dopo il primo abbandono, usano impegno e astuzia, per ritornare a casa e ripristinare così la situazione iniziale di dipendenza. Ma la cosa non funziona per molto ed ancora si ripresenta la spinta che va a spezzare quest’equilibrio, ovvero il volere e l’insoddisfazione materna. La seconda volta infatti, Hänsel indebolito dallo sforzo precedente e dall’incertezza, non utilizza bene le proprie risorse ed essendo regredito, cerca una soluzione di tipo orale (le bricioline), che risulta però inappropriata. I bambini sbaglieranno anche di seguito, quando si faranno prendere dall’ingordigia di fronte alla casetta di marzapane. Così facendo, pur di divorare il tetto e le finestre, si dimostrano pronti a privare qualcuno della propria dimora: la rappresentazione di un proprio fantasma, precedentemente proiettato sui genitori, che nella storia agiscono tale dinamica.

La storia ci mostra cosa succede quando si cede all’avidità orale, negando la propria responsabilità (alla domanda della strega i bambini rispondono “il vento”). La regressione a questa paradisiaca condizione di oralità più totale, sopprime ogni forma di individuazione e indipendenza. Infatti, i bambini si ritroveranno l’uno in gabbia e l’altra alla totale servitù della strega, che rappresenta appunto la parte distruttiva dell’oralità. La strega conduce i bambini in casa per mano, prepara un’ottima cena e due lettini puliti, con l’intento di mangiarseli, questa condizione rappresenta un po’ la sensazione di ogni bambino di essere stato fregato dalla madre, soddisfatto in ogni suo bisogno per poi essere frustrato. D’altra parte è proprio per la loro avidità orale che si trovano in quella condizione: volere troppo, volere a qualsiasi costo, far proprio ad ogni condizione, ingabbia, perché lega in modo indelebile fino a diventarne dipendenti e schiavi!

La loro salvezza poi è rappresentata proprio nell’individuazione e nella progettazione intelligente dell’azione, vedi l’utilizzo dell’osso al posto del dito, il raggiro della strega per indurla ad affacciarsi nel forno, il farsi traghettare uno per volta, ecc. Dopo aver superato la componente distruttiva dell’oralità, i bambini ritrovano la ricchezza e l’abbondanza, scoprono forzieri pieni di pietre e perle preziose, ritrovano la matrigna morta ed un padre felice di rivederli.

Si noti inoltre come gli uccellini siano presenti in tre momenti cruciali della storia. Sono loro che mangiano le briciole impedendo il ritorno a casa, seguendo uno di loro i bambini arrivano nella casa della strega ed è grazie all’oca bianca che fanno ritorno nella casa genitoriale. Ora, se consideriamo che i figli sono spesso rappresentati come uccellini che stanno nel nido e che prima o poi voleranno via, vediamo come questi cugini del mondo naturale, siano il tramite rappresentativo di due tipi di “casa genitoriale”, quella accogliente e quella divoratrice.

Inoltre, i tre uccellini rammentano tre funzioni e tre aspetti: il canto, il volo ed il nuoto, quindi tre forme di spostamento e di espansione nello spazio (con la voce e col mondo interno, attraverso le ali e l’aria esattamente come fanno i pensieri, attraverso l’acqua quale rappresentante dell’inconscio). Come a dire che, da una condizione beata di spensieratezza, si passa a volare via dal nido verso qualcosa da raggiungere ed infine si passa ad oltrepassare un ostacolo, cambiando livello e condizione (dalla totale dipendenza ad una prima forma di indipendenza).

Il fatto che solo al ritorno incontrino il corso d’acqua, sta ad indicare il passaggio ad uno stadio diverso, superiore, un po’ come nel battesimo, è una sorta di sublimazione di stato.  Non a caso, per attraversarlo devono separarsi per la prima volta, facendosi traghettare uno per volta.

La fiaba stimola a lasciare andare gradualmente il legame univoco con i genitori, a favore di una relazione alla pari fra coetanei, infatti i due bambini si salvano a vicenda. Dunque il bambino impara che con l’intelligenza, con lo sforzo, con l’aiuto dei coetanei (quindi di altre parti di sé) si possono superare gli ostacoli e si può tornare a casa, nel luogo di origine, più arricchiti e felici. Insegna che ci si può liberare dalle streghe, grazie alle proprie risorse, insegna però che è necessario prendersi le proprie responsabilità e far cadere il ruolo di bisognosi totali e indifesi (i bambini riescono a vincere la strega, la madre cattiva).

Una storia con un significato assai simile lo ritroviamo in Vassilissa, fiaba russa di antica memoria (Estès). La ricordo brevemente nelle sue costituenti fondamentali.

“C’era una volta e una volta non c’era” un giovane donna sul letto di morte, giaceva mentre la figlia ed il marito pregavano in fondo al letto per raccomandare la sua anima a Dio. La madre chiamò a sé la figlia Vassilissa, vestita con stivaletti rossi e grembiule bianco e tirò fuori dalle coperte una bambolina per lei, vestita esattamente come la piccola. “Sono le mie ultime parole bambina, se ti perderai o avrai bisogno d’aiuto, domanda a questa bambola che fare, e sarai assistita. Tieni la bambola sempre con te. Non parlarne a nessuno e nutrila quando ha fame. Questa è la promessa di mia madre e la mia benedizione.” Il respiro cadde nella profondità del corpo, dove raccolse l’anima e fuggì dalle labbra: la mamma era morta.

Per un po’ padre e figlia piansero il lutto ma dopo un po’ il padre si risposò con una donna, che aveva due figlie, tutte apparentemente sorridenti ma con qualcosa di roditore che il padre non vedeva. Quando erano sole, la matrigna e le figlie, prese dall’invidia per la bellezza e per la dolcezza di Vassilissa, le  imponevano  lavori pesanti. La ragazza si rendeva utile senza mai lamentarsi, mentre le tre erano come topi che di notte rovistano tra i rifiuti.

Un giorno la matrigna fece estinguere il fuoco e poi chiamò la ragazza perché andasse dalla Baba Jaga, la strega, per farselo ridare, con l’intento sottostante di farla uccidere e mangiare. Vassilissa partì attraverso il bosco, piena di spavento per il buio e per i rumori sinistri, ma poi metteva mano nella tasca ed il solo contatto con la bambola la rassicurava e la aiutava nella scelta dei sentieri da intraprendere. Non dimenticò certo di dividere con lei il suo pane, di alimentarla come raccomandato dalla madre.

Improvvisamente incontrò un uomo vestito di bianco, al galoppo di un bianco cavallo e si fece più chiaro, poi passò un uomo vestito di rosso su un cavallo rosso e sorse il sole. Quando poi arrivò alla tana della Baba Jaga, in quel momento arrivò un uomo vestito di nero al trotto su un cavallo nero, entrò nella baracca e subito si fece notte. Lo steccato di ossa e teschi intorno cominciò ad ardere di fuoco interno e tutto intorno fu illuminato da una luce fantastica.

La strega era proprio un essere spaventoso, dall’aspetto bizzarro e anomalo, così la casa, costellata di zampe di galline, ossa umane, denti, ecc. Appena vista Vassilissa, le si precipitò davanti chiedendole cosa facesse lì.

“Nonna, sono venuta per il fuoco. La mia casa è fredda …. I mie moriranno …. Ho bisogno di fuoco”

“Oh, siiiiii, ti conosco e conosco i tuoi. Dunque essere inutile …. Hai lasciato spegnere il fuoco. Non è una bella cosa da farsi. E per giunta, che cosa ti fa pensare che ti darò la fiamma?”

Sotto suggerimento della bambola rispose: “Parchè chiedo”.

“Sei fortunata, è la risposta giusta.”

Le disse che le avrebbe dato il fuoco ma solo dopo che avesse fatto del lavoro per lei, altrimenti sarebbe morta. Le sue mansioni erano lavare i vestiti, scopare il cortile e la casa, cucinare, separare il grano buono da quello cattivo e tenere tutto in ordine. La ragazza chiese consiglio alla bambola, questa le disse di rifocillarsi e di andare a dormire, di non preoccuparsi. Così fece, la mattina seguente era tutto fatto.

La Baba Jaga non ebbe nulla da ridire, le ordinò un nuovo compito: in un mucchio doveva separare semi di papavero e sporcizia, per farne due nuovi mucchi distinti. Anche sta volta il compito fu portato a termine grazie alla bambola.

Così il giorno dopo, mentre la strega mangiava Vassilissa le chiese se poteva porgerle delle domande.

“Domanda  pure, ma ricorda che troppo saprai presto invecchierai”.

Allora chiese dei tre uomini visti a cavallo, la strega spiegò che l’uomo vestito di bianco era il suo giorno, quello vestito di rosso il suo sole nascente e quello vestito di nero, la sua notte.

Vassillissa avrebbe voluto chiedere altro ma la bambola in tasca si mosse, facendole capire che doveva tacere e così Baba Jaga si congratulò della sua saggezza e le chiese da dove arrivasse.

“Grazie alla benedizione della mia mamma”.

“Benedizione?! Non abbiamo bisogno di benedizione qui attorno! Meglio che tu te ne vada figliola”. Prese un teschio dagli occhi ardenti dal recinto e lo infilò su un bastone, lo donò alla ragazza e la congedò. Vassilissa voleva ringraziarla, ma la bambola le fece capire che doveva andare e basta, così si incamminò con quel teschio che sprizzava fuoco dalle orecchie, dagli occhi, dal naso e dalla bocca, ne ebbe paura e voleva gettarlo, ma questi le parlò dicendole di calmarsi e di tornare a casa.

Giunse nella sua dimora con un senso di trionfo, la matrigna e le figlie convinte che orami fosse morta, le dissero che erano rimaste senza fuoco dal giorno della sua partenza. Il teschio osservò tutto ed il giorno seguente incenerì le tre donne malvagie.

Anche questa narrazione ci parla di una partenza, di un percorso e di un successivo ritorno. Si tratta di un passaggio da madre a figlia, una sorta di iniziazione alla vita adulta, al recupero del proprio intuito, foriero di saggezza. Se notate, la ragazza chiama la Baba Jaga “Nonna”, come a rimarcare il passaggio generazione “familiare” al femminile. E’ un percorso esterno, ma ancora di più è un percorso interno.

L’inizio “C’era una volta e una volta non c’era” avverte l’ascoltatore che questa storia si colloca in un mondo fra i mondi, dove niente è ciò che appare. Non si parla di una realtà tangibile e univoca, ma di qualcosa che sembra in un modo e poi si rivela in un altro, in un processo di profonda trasformazione, quale solo l’inconscio può creare. Ci avverte che il viaggio che stiamo compiendo aprirà ad un percorso interno e misterioso. La frase finale della Baba Jaga, pronunciata come frase di commiato e di chiusura di un cerchio “Non abbiamo bisogno di benedizione”, appare brusca e brutale e lo è, ci ricorda ancora questo concetto, ci dice che non ci si deve accontentare di un percorso prestabilito da qualcun altro, attraverso un’indicazione, un consiglio, un suggerimento, un appoggio, una benedizione, ma di sentire tutta la forza e la possibilità di decidere per la propria vita, senza curarsi di quanti saranno d’accordo o meno.

Si noti inoltre la bellezza, l’eleganza e la significatività di questa frase:“Il respiro cadde nella profondità del corpo, dove raccolse l’anima e fuggì dalle labbra: la mamma era morta”. Questo modo di figurare la morte è assai rappresentativo del processo naturale della morte, dove il respiro è l’aer, l’aria, il vento che porta con sé tutto ciò che riesce a trasportare, polvere, foglie, pollini, semi, cose che si trasformano e si creano, cambiando stato. Il respiro porta con sé l’anima facendola uscire dalle labbra, esattamente come fa la nostra essenza trasudando nel linguaggio, nell’aria che emette suono, nel colore delle parole, che una volta pronunciate abbandonano il corpo, per volare altrove e trasportare qualcosa di noi.

Addentriamoci in questo viaggio e procediamo per quello che Estés descrive come un percorso a nove successivi passaggi-compiti.

Il primo compito è segnalato dall’avvenimento iniziale: la morte della madre. Ci ricorda che la madre psichica vigilante, protettiva, lungimirante, la madre troppo buona, ad un certo punto deve perire. Ciò segna una sorta di de-idealizzazione, l’inizio di una visione più realistica, a favore dello sviluppo della fiducia in sé e dell’intuizione, si smette di prendere un altro come punto di riferimento per sperimentare in prima persona, ciò di cui siamo capaci. Finché si trova in vita la madre troppo buona, non è possibile procedere con le proprie gambe, perché lei proteggendo, decidendo al posto di, impedisce la ricerca e la scelta autonoma, è una vita comoda e non si può certo lasciarla, a favore di qualcosa di sconosciuto e spaventoso.

La madre buona cede il posto ad una madre amorosa, ma anche fiera ed esigente, una donna che vive nelle lande profonde della psiche, un po’ selvaggia, brutale e misteriosa. Nessuno è mai del tutto pronto a svolgere questo passaggio, nessuno ci insegna a farlo, ma la madre buona affida la figlia alla bambolina, vestita come Vassilissa, proprio per rappresentare una parte di lei: l’intuito, che deve essere nutrito costantemente.

Quando la madre buona muore (in senso reale o simbolico per una qualche forma di separazione, scelta o per evento forzato), allora non c’è più alternativa, si deve finalmente mettere a confronto le proprie capacità nel mondo, in relazione al nuovo, a tutto ciò che pensavamo di non saper affrontare, troppo grande per noi.

Inizia il viaggio con il nostro compagno più fidato: l’intuito, la rappresentazione di sé nella sua essenza, il talismano portafortuna. E’ triste separarsi, lasciar andare, ma è l’unico modo per scoprire sé, è l’unico modo per smettere di appoggiarsi e pensare di non riuscirci da soli. Si smette così di pretendere e ci si riappropria delle proprie capacità, ma anche delle responsabilità, niente è dovuto, tutto è conquistato e meritato.

Il secondo compito consiste nel prendere contatto con le parti oscure di sé, per poterle superare. Vassilissa fa esperienza del fatto che essere sempre gentili e carine non risolve tutti i conflitti e non rende migliore la vita, ma deve ricercare anche le parti più antiche e selvatiche, quelle rabbiose, salvifiche.

Entrando poi in contatto con la matrigna e le sorellastre, avvicina la parte in ombra di sé, quella celata dal sorriso e dall’accondiscendenza, ovvero l’invidia, l’avidità, la gelosia, lo sfruttamento, la pretesa dell’io nei confronti del mondo. Anche Vassilissa possiede queste parti, non le riconosce come proprie ma le appartengono ed è costretta a confrontarvicisi proprio attraverso queste tre figure, che hanno qualcosa del “roditore”, di “topi che di notte frugano fra rifiuti”. Questa descrizione ci rimanda al potere distruttivo dell’inconscio, alimentato da rabbia, avidità e invidia, che conduce a raccogliere solo avanzi e rifiuti, a non costruire niente di buono, autonomo e originale.

La ragazza, che sceglie altro, si sente esiliata dalla propria famiglia. E’ sola! Se mostra sé stessa non viene accettata e compresa dagli altri, se compiace le aspettative altrui, non è accettata e compresa da sé stessa. E’ un po’ come essere una lingua di terra circondata da mare, non c’è collegamento con il resto del mondo calpestabile, si è isolati e soli.

Le tre donne rappresentano un po’ il predatore naturale della psiche, che svaluta, fa richieste improprie, risucchia e Vassilissa si trova a dover scegliere la consapevolezza al posto della gentilezza. Non è un caso che proprio questo predatore la spinge a cercare il fuoco, ad andare nelle fauci della strega, lì si misurerà la sua forza e capacità, o morirà (nella sua forza e unicità) o tornerà vittoriosa.

Si noti inoltre che, sia la strega della fiaba precedente che le tre donne di questa storia, muoiono tutte incenerite dal fuoco, ricordandoci che l’odio, l’invidia, ci rode da dentro e ci brucia in ogni minima possibilità costruttiva, mette in fumo ogni nostra risorsa.

La terza tappa la conduce verso la Navigazione nell’Oscurità, infatti grazie all’eredità della mamma morta, intraprenderà la strada dell’iniziazione nella foresta profonda. Deve lasciar andare la fragile fanciulla ignorante e tremolante, per intraprendere la strada di Madre Selvaggia, tornare salda e lungimirante.

La bambola come i talismani, ridona potere e fiducia, perché rappresenta simbolicamente una parte di noi, l’intuito, la veridicità che alberga nel fondo di noi e che ci guida nelle tenebre. La bambola le parla lungo il percorso e la ragazza ascolta, dando spazio così al proprio intuito, nutrito con l’ascolto e la fiducia (il pane della psiche più ricca e profonda). Questa tappa ci ricorda che si può andare avanti solo fidandoci di noi e più ci fidiamo e più ci fideremo, perché sempre più verifichiamo la forza del nostro intuito, del sapere istintivo e naturale. E’ una “visione” speciale che permette appunto la navigazione, dove l’occhio materiale non riesce a discernere.

Arriviamo al quarto compito: affrontare la Strega Selvaggia. L’incontro con lei, la permanenza nella sua casa, nutrirsi dei suoi alimenti, comporta familiarizzare con l’arcano, con lo strano, con l’alterità del selvaggio, assumere alcuni suoi valori nella propria vita, dunque lasciar morire la bambina fragile e troppo amabile, l’ipernormalità e la vita appiattita, che fa perire l’intuito e la creatività.

La Baba Jaga incute timore perché rappresenta la forza distruttrice, è quella che dona il calore e la luce, ma anche la notte ed il fuoco che incenerisce, contiene entrambe gli aspetti, la vita e la morte, ciò che si esplicherà dipende unicamente da quale domanda faremo, da quale sentiero imbocchiamo e Vassilissa chiede il fuoco, la luce della visibilità. Ed è proprio la domanda semplice, chiara e diretta che le concederà l’opportunità di trovare tutto questo. “Perché lo chiedo” risponde alla strega.

Ricordandoci che le cose stanno là dove devono stare, chiedendo otterremo ciò che cerchiamo e nulla più, per cui è inutile girare intorno con false promesse, obiettivi nascosti, ecc. Ci ricorda anche il diritto di chiedere, abbiamo diritto ad una risposta solo per il semplice fatto che chiediamo. Cosa poi otterremo dipende solo da noi, da quello che siamo disposti a dare e a fare, per ottenere ciò che desideriamo, da quanto ce lo meritiamo.

L’aspetto della strega inoltre, è orrendo quasi a rimandare la fragilità ed inutilità dell’investimento estetico-narcisistico, dell’eccessiva amabilità, piacevolezza, seduttività della donna schiava, passiva nei confronti del mondo, che deve accattivare e compiacere a tutti i costi. Il suo aspetto richiama anche qualcosa di strano, spiacevole e attraente nel contempo, perché connesso con un potere ed una forza superiore, legato al mondo animale e naturale, quindi ad una forza originaria.

Si noti la somiglianza fra la Baba Jaga e la strega della storia precedente, seppur quest’ultima sia caratterizzata da limitazioni notevoli quali la vista corta, non di meno anch’essa presenta un aspetto animale, selvaggio e fiuto sottile. Anche i compiti delle due bambine sono assai simili, ma nel caso di Vassilisa lo scopo risiede nel dirigersi verso una funzione evolutiva, nel caso di Gretel risiede nell’indirizzare verso una funzione regressiva e distruttiva. La prima infatti viene spinta ad andare, la seconda a restare, ad essere divorata.

Il quinto compito consiste nel servire l’irrazionale. La strega le fornirà il fuoco solo dopo che avrà compiuto alcuni compiti psichici. Nel chiederle di pulire, cucinare, lavare, riordinare e separare infatti, le fornisce la strada che la conduce a sé: il potere della purificazione interiore, la non contaminazione, l’ordine, il nutrimento, la creazione di energia e idee.

Pensate al significato simbolico della casa, quale rappresentazione del proprio corpo e di noi nel nostro insieme, all’azione del lavare con ripetute ablazioni i panni nel fiume, quale antico rituale purificatorio e socializzante, allo scopare e alla scopa stessa, spesso fatta con rami e radici quali strumenti naturali di pulizia, pensate al senso del dare ordine, in quanto attribuzione della giusta importanza ad ogni elemento, al cucinare e al nutrire una parte tanto selvaggia ed esigente, alla funzione di alimentare il fuoco in quanto parte più profonda e vitale della casa, ma anche di noi, ecc. Ricordiamo inoltre le tre Parche, le madri di Vita-Morte-Vita che insegnano ciò che deve morire, ciò che deve essere cardato, tessuto,  riportato all’aperto e lavato. Vassilissa deve imparare ad impersonare ciascuna di esse, a svolgere i loro compiti e a all’occorrenza, servirsene.

Complessivamente i compiti psichici consisteranno nel liberare la psiche dalle banalità, dalle scorze inutili, dai fronzoli esterni e fatui, nel ramazzare l’Io, ripulire i pensieri e i sentimenti, curare il fuoco creativo e alimentarlo con idee, fidarsi del fondo di sé, dare una priorità di valori nella propria vita ed eliminare ciò che crea caos inutile. La Baba Jaga la spinge anche a perseverare, non basta compiere tutte queste mansioni il primo giorno, non basta una giornata da eroi, è necessario tessere la tela della nostra vita giorno per giorno, perseverare nei proprio valori con impegno, sforzo e costanza. Dietro la costanza si cela la vera forza e la vera fiducia in noi.

Il sesto compito: selezionare e separare. Il compito che viene chiesto a Vassilissa, attraverso la separazione del frumento buono da quello cattivo, i semi di papavero dai rifiuti, riguarda l’apprendimento profondo. Apprendere infatti comporta comprendere fino in fondo, facendo un’opera di discriminazione di una cosa da un’altra, l’abilità di identificare la natura e l’appartenenza di un dato fenomeno, osservare il potere dell’inconscio anche quando opera fuori della consapevolezza (le mani che appaiono in aria), riflettere e conoscere maggiormente la vita (frumento) e la morte (papaveri).

Del resto, niente in sé e per sé è positivo o negativo, deve solo essere conosciuto e distinto dal mucchio, in base al suo uso prenderà una connotazione anziché un’altra. Infatti, sia il frumento buono che cattivo, i semi di papavero che la sporcizia sono tutti elementi utilizzati nell’antica farmacopea. Il grano cattivo (toccato dalla ruggine) ad esempio, può essere usato o come bevanda inebriante o come farmaco. Sono tutti elementi del ciclo Vita/Morte/Vita.

Conoscere dunque permette di utilizzare in modo appropriato, dare ciò che viene chiesto e nulla più, andare verso ciò di cui si abbiamo bisogno e non farsi abbagliare dai fiorellini colorati (questo un po’ il senso di Cappuccetto Rosso che ancora inconsapevole, perde la strada maestra, la direzione, facendosi confondere dai sapori e colori sfavillanti).

Settimo compito: domande sui misteri. Dopo aver svolto le mansioni concrete, Vassilissa passa al piano della comprensione superiore e chiede alla Baba Jaga il permesso di porgerle dei quesiti, questa risponde affermativamente però l’avverte anticipatamente: “Troppo saprai, presto invecchierai”. Con questa frase le rimanda la responsabilità di ciò che chiederà e di quanto vorrà sapere, nonché la voglia e la capacità di saper attendere il tempo dell’esperienza e della conoscenza diretta.

Sapere troppo infatti anticipa le tappe evolutive, affretta l’esperienza, fa saltare alcuni passaggi, fa perdere la veracità, lo scalpitare, la curiosità tipici della giovinezza, indispensabili per il rinnovamento di sé e per l’incessante domandarsi, che non deve necessariamente condurre ad una risposta definitiva, univoca, appiattente e mortifera. Ritengo infatti, che la risposta migliore sia quella che apre ad altre domande, essenziali per la vitalità della psiche. La posizione migliore dunque è la curiosità e l’interrogarsi, la ricerca di risposte, bilanciati dalla capacità di tollerare delle domande aperte.

La ragazza dunque, fa domande sui cavalieri e sui cavalli, questo rimanda alla natura della strega, che come Demetra è un’antica madre, associata al potere e alla fecondità di una giumenta. Le varie coppie (cavallo e cavaliere) fanno sorgere il sole, gli permettono percorrere il cielo e portano l’oscurità, connotando quindi la nascita, la morte e la rinascita. E’ la coppia, il connubio dei due che conduce a questi grandiosi fenomeni di vita, che fecondamente e fertilmente danno vita e alternano luce e ombra, a breve e lunga distanza, in piccolo e in grande.

Il nero infatti è il colore del fango, del fertile, della materia fondamentale in cui vengono seminate le idee, ma è anche rappresentativo della morte, del mondo fra i mondi, il colore della discesa. E’ l’origine ed il ritorno, il destino.

Il rosso è rappresentativo del sacrificio, della collera, del delitto, dell’essere uccisi, ma anche della vita vibrante, dell’eccitazione, dell’eros e del desiderio. In molte culture esiste una “madre rossa” a cui si rivolgono le partorienti, non a caso si fa ingresso nel mondo attraversando un fiume rosso.

Il bianco poi è il colore del nuovo, del puro, dell’intatto, dell’anima libera dal corpo, del nutrimento essenziale, del latte materno. E’ anche il colore dei morti, di coloro che hanno perso il roseo flusso di vitalità, è la tabula rasa, è la speranza di uno spazio per ricominciare. E’ il vuoto che contiene la possibilità di uno spazio per riordinare il caos, in una nuova creazione.

Anche Vassilissa e la bambola sono vestite di questi tre colori e anche altre storie ricordano gli stessi colori, La signora Trude (vedi i fratelli Grimm) ad esempio, che narra di una giovane ingenua e desiderosa di conoscenza a tutti i costi (non mitigata da pazienza e saggezza), incontra tre uomini, uno vestito di nero, uno di rosso e uno di verde. Non a caso la ragazza in questa storia muore, finisce per fare il ceppo nel camino della strega, che ne ricava “una luce chiara”. Infatti, sia la Baba Jaga con il suo avvertimento, che la bambola, voglio proteggere Vassilissa dal troppo sapere, che comporta il richiamo a troppa numinosità dal mondo sotterraneo tutto in una volta, che porta a farsi intrappolare laggiù, a ricavarne un eccesso di conoscenza che invece di essere utile, diventa pesante e caotica, disorientante e schiacciante, una luce abbagliante. Tutto ha un suo tempo ed un ritmo inalterabile.

Ottava tappa: stare a quattro zampe. La Baba Jaga fornisce due indicazioni prima di accomiatarla, aborrisce la benedizione della madre, che suona come una strada predeterminata e suggerisce quindi di seguire la propria individualità, fornendole un teschio con il fuoco. Il teschio, rappresenta l’anima della persona,  il fondo, non a caso il teschio rischiara attraverso gli organi di senso bocca, naso, occhi, è da questi fori che fuoriesce la luce che indica la strada del ritorno. E la ragazza torna a casa più sicura, trionfante, vincente rispetto all’espletamento del proprio percorso e del proprio intuito, ha chiuso il suo cerchio, è tornata.

Stare a quattro zampe significa tornare all’origine di noi, alla parte animale, intuitiva, all’anima di noi stessi, senza tener conto di sovrastrutture e fronzoli intellettuali, carichi familiari e generazionali, tornare alla luce di noi stessi e niente altro, utilizzando la nostra capacità di vedere, fiutare ed udire, rafforzati dalla luce del fuoco intero.

Il nono compito comporta riplasmare l’Ombra. Sulla strada del ritorno, Vassilissa è tentata di buttare via il teschio, quasi fosse per un attimo spaventata da questo grande strumento, da questo potere nelle sue mani, ma questi la rassicura, così che lei può giungere a destinazione finale. Il compito quindi, risiede nel far uso della vista acuta (gli occhi di fuoco), per riconoscere e reagire all’ombra negativa della propria psiche e agli aspetti negativi delle persone, infatti la famiglia, osservata attentamente da uno sguardo diverso, viene incenerita definitivamente.

Le tre donne, senza Vassilissa sono rimaste al buio, mostrando che le parti negative, risucchianti della psiche, senza libido, senza l’investimento e l’attenzione che gli aveva dedicato in precedenza, hanno perso potere e si sono indebolite ulteriormente. Ciò suggerisce che in base a quanto investimento offriamo alle cose, alle idee, ad alcuni progetti anziché ad altri, cambierà molto il nostro destino, la direzione della nostra vita, Vassilissa ad esempio passa da essere deprivata e sfinita ad essere rafforzata e rivitalizzata. La conoscenza, l’equilibrio, la scelta, comportano un lavoro continuo faticoso e doloroso, necessario però affinché la libido e l’intuito non si spegnano e con esse anche la vita si impoverisca.

Dobbiamo anche prenderci la responsabilità delle nostre scelte, interne ed esterne. Gli amici, i partner, i colleghi che ci circondano, rappresentano una scelta di vita, l’erotizzazione di una parte di noi, delle nostre idee, affetti, nutrimenti, ecc. Siamo noi che scegliamo intorno buone madri o matrigne, sorelle affettuose o sorellastre, maghi benevoli o malvagi, ecc. E’ importante essere selvaggi come la Baba Jaga, andare al fondo di noi, chiederci, cosa Noi desideriamo. Spesso invece scegliamo, non perché realmente desideriamo qualcosa ma solo perché c’è capitata, è lì disponibile ed il mondo attuale è assai ricco di stimoli seduttivi che abboccano in strade, che in realtà non ci interessano affatto.

La fine del racconto ci mette in contatto con un grande compito: lasciar morire. Molte persone sono assai riluttanti, ma in verità “lasciar morire non è contro natura ma solo contro l’educazione” (Estés). Scegliere comporta lasciar morire ciò che non serve più, ciò che non è sano, a favore di quanto realmente desideriamo: questo è un vero ritorno a casa. E’ la fondazione delle radici profonde e salde nella propria casa.

Sia Gretel che Vassilissa indossano un grembiule bianco, questo mi fa pensare al significato di questo elemento, al destino fornito ad entrambe: quello di servire, di accudire, pulire, acconsentire, obbedire! Fin da piccole le bambine, culturalmente hanno già il loro destino segnato, nello stesso modo i bambini devono ingegnarsi, trovare strategie di sopravvivenza. Alla fine della storia però, il grembiule di Gretel è pieno di ricchezze, Vassilissa riporta il fuoco a casa, quasi a voler ricordare che la femminilità può essere servile o creativa, dipende dal viaggio che si riesce a compiere, da quelle scelte di vita fondamentali, dal coraggio che esibiamo a noi stessi.

Entrambe le storie, Hänsel e Gretel e Vassilissa, parlano di una partenza, di un viaggio (che non è una fuga) ed un ritorno al punto di partenza, un ritorno con un bagaglio diverso, con un salto di consapevolezza, compiuto grazie all’esperienza diretta con la vita e con la morte, con le parti più accettabili di noi (acquiescenza, sorriso, adattamento) e con quelle oscure e spiacevoli (avidità, usurpazione, menzogna, rabbia, paura, ecc.).

Sempre in questa direzione mi viene in mente l’intenso film “Cigno Nero”. Anche in questo caso come nella storia Vassilissa, ci troviamo di fronte a due elementi del femminile, ma se vogliamo possiamo allargarlo a tutto il genere umano, quello buono, accondiscendente, sorridente, mite (il cigno bianco) e quello che esce dagli schemi, animalesco, brusco, sincero fino a diventare tagliente, essenziale, in contatto con la vita pulsante (il cigno nero).

Si badi bene, la Baba Jaga non è crudele, ma è in contatto con la natura, con le cose per quello che sono e che potrebbero essere grazie al potere della trasformazione personale. Siamo di fronte a qualcosa che orripila ma risana, che sembra cattivo ma guarisce, la strada del ritorno appunto. Così il cigno nero, che appare così  spregiudicato e amorale, è solo il grano toccato dalla ruggine, che usato con sapienza diventa farmaco.

Nel film Cigno Nero la logica è meno sibillina e più esplicita, la ballerina scelta per impersonare questo doppio ruolo del cigno bianco e del cigno nero nella rappresentazione “Il lago dei cigni”, si ritrova a dover scovare nel profondo di sé, con mezzi anche bruschi e brutali, la parte assassina, quella che è disposta ad uccidere un elemento di sé, che è disposta a fare un salto nel vuoto, a godere di questa parte oscura e sconosciuta, per poter volare con le ali nere del mistero e della trasmutazione con immenso piacere. Perché il cigno (un altro uccello) sia veramente completo, sia pronto a volare via, deve lasciare che la parte ingenua, infantile, delicata, protetta fino allo sfinimento, la parte che aspira alla perfezione ceda il posto ad una parte più totale, capace di prendersi la propria esistenza, di scegliere sulla propria pelle a rischio della vita, andare nel mondo ed osare, credere in sé.

La madre buona deve  morire perché è quella che tiene anacronisticamente ancora nel lettino, infiocchettati con l’orsacchiotto, induce un desiderio e poi ne nega l’espletamento perché vorrebbe per amore, parare ogni colpo della vita, che lei non è riuscita a parare per sé. Alla fin fine, la madre buona svaluta perché non crede fino in fondo alle risorse dei figli, non li lascia andare, non li lascia scegliere e sbagliare, si appropria della loro vita, perché lei in questo ruolo non può fare a meno di loro.

Non a caso nella storia di Hänsel e Gretel, i bambini sono spinti fuori casa, dalla cattiva madre (matrigna), in realtà la madre originaria, la buona madre che nutre incondizionatamente, ma che adesso indossa abiti esigenti, fa i conti, si sente deprivata e mette di fronte all’oralità avida. Lei sacrifica totalmente sé ed esige un sacrificio analogo. In Vassilissa, la Baba Jaga non regala nulla, è esigente, pretende di non rimetterci niente, desidera una reciprocità, uno scambio ed un impegno, una costanza in termini personali, la fiducia in una saggezza interna, la capacità di parlare e stare zitti, di lavorare e stare fermi, di andare dov’è necessario. Nel film la ballerina viene accompagnata da un’altra collega in questa sua ricerca, senza insegnamenti o percorsi certi, aprendo unicamente la strada inconscia della passionalità, della vita, dello sbalordimento, della ribellione, della scoperta e dell’esibizione s-vergognata, deprivata dal pudore infantile ed ingenuo.

Ricollegando queste figure femminili, possiamo dire che la “madre-donna carina” che vive unicamente in funzione di, si dedicherà in modo abnorme e totale, sottraendo così all’altro la libertà di scegliere e di vivere. Mentre la “madre-donna strega” che vive riappropriandosi anche delle proprie risorse, passioni, interessi, si contenderà lo spazio, pretenderà delle domande e delle risposte, una relazione di reciproca responsabilità, fornendo la fiducia nelle proprie capacità e risorse. Alla fine la madre buona non è così totalmente buona e quella cattiva non è totalmente cattiva. In Hänsel e Gretel e in Cigno Nero infatti, la madre buona diventa matrigna, mentre in Vassilissa la strega diventa madre generosa, commisurata e giusta.

Nel film, la madre della protagonista, spinge da sempre la figlia verso quel percorso che lei non è riuscita a portare a termine, ballare, ma, non sopportando il confronto, la sconfitta, la frustrazione personale e la perdita dell’unico ruolo posseduto, sul più bello la sabota ingozzandola di dolci seduttivi, simbolo del suo amore, impedendole la vita e la scelta. Anche la strega di Hansel e Gretel offre loro per cena latte caldo, miele e noci, richiamando il ruolo di una madre nutriente, dolce, protettiva, in definitiva di una buona madre, che però il giorno seguente li tradisce e li imprigiona, esattamente come nel film. Si rimarca l’altra faccia della medaglia, il rimanere impigliati nelle maglie dell’accoglienza, del lusso e del nutrimento gratuito. Diventare attori della propria vita è un passaggio forte, disorientante e pauroso, ma ridona potere e vita.

Dopo tutto questo percorso, dopo aver superato la folta selva selvatica, dopo aver scelto bivi ad ogni incrocio, dopo essere sopravvissuti al selvaggio e alle proprie angosce profonde, dopo aver imparato a discernere ciò che è bene e ciò che non lo è per noi, allora è possibile tornare a casa, un luogo uguale a come lo si è lasciato, ma diverso nei nostri occhi e nel modo in cui lo affrontiamo, ormai capaci di dissezionarlo in elementi costruttivi e distruttivi, nel grano buono e cattivo, negli elementi amorosi e invidiosi. Il percorso non elimina certe parti di sé, le rende più chiare, consapevoli, dà un peso diverso ai singoli elementi, fornendo il percorso interno di un costante e rigoroso riassestamento della psiche, delle abitudini, delle relazioni, degli affetti.

Ad un certo punto, partire è necessario, è richiesto dalla vita, è un naturale processo per cercare la propria luce, il fuoco che ci riscalda e ci alimenta. Fuggire comporta la perdita inesorabile della strada del ritorno, lasciandoci incatenati all’ombra che ci attanaglia.

Può succedere che le persone viaggino senza sapere dove stiano andando e cosa stiano facendo, percorrono semplicemente un circuito predeterminato ad occhi chiusi, pensano che uscendo di casa, costruendo una propria casa, una propria indipendenza economica, conquistando la libertà decisione, costruendo una propria famiglia, abbiano compiuto il percorso naturale degli eventi. Non è così, perché non è una scelta, né un desiderio ma un binario scelto da altri e quindi subito. Non è una partenza, ma un vicolo cieco.

Per poter partire è necessario rendersi conto del punto di partenza, di quanto ci spinge, di cosa ci spinge, di cosa desideriamo ottenere (che non sempre coincide con ciò che otterremo, nel bene e nel male), di cosa ci manca e di ciò di cui ci vogliamo sbarazzare. E’ un viaggio alla ricerca di sé e conduce necessariamente in qualche meandro del nostro mondo.

E’ un viaggio coraggioso nella terra dei titani, ma chi sarà valoroso tornerà con la luce.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

    Bettelheim B. (1977). Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Milano, Saggi Feltrinelli.

Bourbeau L. (2002). Le cinque ferite e come guarirle. Torino, Edizioni Armita.

Costantini  S. “ Internet, quale realtà?” 16/04/08, www.vertici.com

Costantini  S. “Video Giochi: una dipendenza nascosta”, 30/06/09. www.psiconline.it

Costantini S.“Mamma mi compri i coniglietti suicidi?”, 23/02/09 www.nienteansia.it

Darren Aronofsky (regista). Cigno Nero. Attori protagonisti: Portman Natalie, Mila Kunis. 2010, Gen. Dram.

Estés C.P. (1993). Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna Selvaggia. Piacenza, Frassinelli.

Grimm J., Grimm W. (1951). Fiabe. Torino, Enaudi.

        

 

 

 

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21 novembre 2011 1 21 /11 /novembre /2011 11:01

Perverso, Predatore,

Ammazzafemmine!

 

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

 

Una delle situazioni che coinvolgono e accomunano frequentemente le donne, forse in una sorta d’iniziazione alla vita e all’adultità, è rappresentata dalla relazione perversa.

Si tratta della relazione con un individuo, di solito il partner di una relazione sentimentale, con una struttura prettamente narcisistica. In quanto tale, la relazione è caratterizzata da asimmetria, abuso, uso narcisistico, violenza psicologica, talvolta violenza fisica, prevaricazione, ecc.

L’etimologia stessa della parola “perverso” ci rimanda al latino “pervertere”, ovvero rivoltare, rovesciare. Di fronte ad un individuo perverso ci troviamo ad un rovesciamento continuo della realtà e della posizione. Non si sa mai dove trovarli, creano fascino e obnubilamento, dicono e subito dopo negano quanto detto, non vogliono essere trovati e al di là della posizione cosciente, loro stessi non sanno dove realmente sono, di conseguenza l’ambivalenza regna sovrana, all’insegna dell’inconsapevolezza e della violenza. Gli umani oggetto della loro manipolazione, di solito donne, si sentono disorientate, affascinate, “sotto sopra”, rivoltate nella loro integrità e continuità, predate della loro essenza.

La storia di Barbablù è assai interessante e connotativa rispetto a questa condizione. Ne troviamo versioni differenti, da quelle raccolte dai fratelli Grimm (vedi ad esempio L’uccello di Fichter o il Maiale fatato), alla versione anglosassone del Signor Fox, alla produzione di Charles Perrault, di Henri Pourrat, alle versioni orali narrate in tutta l’Asia e l’America Centrale, a quella facente parte delle fiabe di Mille ed una notte, ecc.

Ciascuna con una qualche variante, ma accomunate dal tema centrale coerente in tutte quante. Il fatto che ce ne sia tante versioni sparse in posti così lontani, lascia pensare all’universalità del suo tema di fondo, all’elevato valore simbolico dell’ossatura.

Bettelheim ci ricorda che questa non è una fiaba, perché manca l’elemento magico e soprannaturale (eccetto per il sangue sulla chiave) ed inoltre, nonostante il male venga punito, questo esito non produce consolazione né salvezza.

Malgrado ciò, la storia contiene dei significati simbolici importanti e la mancata consolazione si traduce in una sorta di morte, che apre ad una nuova consapevolezza. Rappresenta la morte di una parte di noi, per lasciare spazio ad altri elementi. Muore l’ingenuità, la fatuità, l’instabilità, la vanagloria, a favore della consapevolezza, della scelta, della forza.

Partiamo dalla storia, almeno da una delle versioni, quella che deriva dalla mescolanza della versione francese e slava.

La storia narra di un uomo di nome Barbablù che corteggiava tre sorelle, ma queste si nascondevano perché spaventate dallo strano colore della sua barba, da un non so che sinistro e insidioso. Per cui un giorno l’uomo le invitò a fare una passeggiata nel bosco, in quest’occasione le intrattenne con ogni sorta di squisitezza, per il palato, per le orecchie, per il divertimento. Alla fine le sedusse tutte, ma al ritorno nella loro casa, le più grandi mitigarono quest’impressione con i sospetti iniziali, la piccola invece si lasciò trasportare totalmente da quest’alone di gentilezza e fascino.

E così lui la chiese in moglie, si sposarono e tutto sembrava andare bene, fino a che un giorno lui le disse di dover partire e lei era libera di fare tutto ciò che voleva, poteva invitare la sua famiglia, fare un banchetto, una festa e quant’altro desiderasse. Le lasciò le chiavi del castello, poteva aprire tutte le porte, da quella della dispensa a quella degli ori e fare come meglio credeva, eccetto per una porta, aperta dalla piccola chiave con la spirale in cima.

Lei ne fu felice e lo lasciò andare tranquilla. Arrivarono le sue sorelle, che saputo quanto comandato dallo sposo, curiose più che mai, si divertirono un mondo a scoprire quale chiave, aprisse quale porta, fino a che arrivarono alla cantina e lì la porticina che si aprì fu proprio quella della piccola chiave. Dentro era buio, fu necessario portare una candela che rischiarasse e fu così che le tre donne tutte insieme urlarono dall’orrore nel vedere un lago di sangue, ossa annerite, teschi impilati. Erano i resti delle mogli precedenti, che Barbablù aveva fatto a pezzi.

Uscirono immediatamente e la giovane prese la chiave che si era macchiata di sangue, la mise in tasca e quando arrivò in cucina si accorse che aveva macchiato il suo abito bianco, perché gocciolava ancora. Tentò di portar via quella traccia con vari mezzi, strofinando la chiave con un cencio, cauterizzandola, strusciandola con cenere, cospargendola di ragnatele, ma niente portò al risultato sperato. Disperata la nascose nell’armadio e ben presto tornò lo sposo, che la interrogò sul soggiorno e quando si accorse della mancanza della piccola chiave, la interrogò più brutalmente, lei allora cercò di inventare delle scuse inutili. Gridandole “infedele” la trascinò giù in cantina per ucciderla, ma quando furono nella stanza dell’orrore la giovane moglie gli chiese di concedergli un quarto d’ora prima di morire, per potersi riconciliare con Dio. Lui glielo concesse.

Lei corse in fretta nella sua stanza e ad ogni istante interrogava le sorelle: “Sorelle, sorelle. Vedete arrivare i nostri fratelli?” e loro “Non vediamo nulla, sulle pianure aperte”, dopo un po’ ancora “Sorelle, sorelle. Vedete arrivare i nostri fratelli?”, all’ennesima domanda sempre uguale “Vediamo un turbine in lontananza, forse un polverone. Intanto Barbablù tuonò dalla cantina, chiamando la moglie, prese poi a salire i gradini di pietra chiamandola sempre più adirato, lei ancora interrogava le sorelle. Alla fine “Sì, li vediamo, i nostri fratelli sono appena arrivati e sono entrati nel castello”. Barbablù si precipitò nella stanza della giovane moglie, con le mani protese ad afferrarla, ma i fratelli proruppero a cavallo con le spade sguainate, colpendo, fendendo, tagliando e sferzando, lo uccisero e lasciarono il suo sangue e le cartilagini alle poiane.

Questa storia mi ha sempre lasciato un po’ interdetta. Nell’ascoltarla, ti percorre un brivido lungo la schiena ed un retrogusto amaro ti gira in bocca senza posa, forse il sapore del pericolo appena scampato, del mistero che si aggira nel suo significato più recondito e incomprensibile. Mha … lascia un po’ attoniti e perplessi.

Barbablù rappresenta un uomo malvagio e violento, un individuo sinistro che si aggira intorno a noi, il predatore della psiche femminile. Alcuni racconti orali dicono che Barbablù fosse un mago mancato (Estés) e nell’Uccello di Fichter, di fatto il protagonista è un mago (cattivo).

Ora questa condizione di mago mancato, ci fa pensare ad un individuo che aspirasse a qualcosa di superiore, ad un piano più misterioso e spirituale, un piano su cui ha fallito, un po’ come il narcisista che non riesce a raggiungere quello splendore tanto desiderato, quella lucentezza a cui mira tutta la vita, che cerca di accaparrarsi depredando gli altri, attraverso relazioni perverse e deprivanti. Dato questo suo mancato traguardo, è pieno d’invidia, d’odio e più o meno consapevolmente cerca di spegnere il femminile, la psiche, la forza interna, per portarla via, negandola e stravolgendola. Qual è l’obiettivo? Sottraendo il termine di confronto, evita di sentirsi troppo inferiore e si vendica della donna che non ha saputo donargli quella stessa luce: la madre.

Ora, uscendo dalla storia e cercando di tradurla nella realtà, possiamo identificare Barbablù sia in un personaggio esterno che interno, un predatore della psiche che attacca da fuori e da dentro.

Nella prima accezione, Barbablù può costituire un ipotetico partner di relazione amorosa o amicale, in cui vi sia un coinvolgimento ed una relazione perversa, come inteso da M.F. Hirigoyen, dove si stabilisce uno scambio asimmetrico, a vantaggio solo di uno dei due componenti della coppia, a discapito dell’altro, che si sente depauperato, sfruttato, umiliato, svalutato in ogni aspetto. Come nella storia, la donna si lega ad un uomo che di primo acchito non vuol riconoscere come predatore, negando il suo istinto primario, se ne lascia ammaliate e si fa sedurre, ovvero se-durre, portare a sé da parte dell’uomo, che sotto una luce di fascino, mistero, interesse, amore, inganna la donna circa le proprie intenzioni.

L’uomo non ama realmente quella donna per ciò che è ma per ciò che lui desidera sia, per ciò a cui vuol limitarla, per come lei e la sua limitazione lo fa sentire. Lo scopo ultimo consiste proprio nel sentirsi forte, grande, potente, furbo, dominatore, negando ogni propria mancanza ed inconsistenza. Proiettando sulla donna la componente deprivata, cioè quella di persona debole e incapace, può vivere l’altra faccia del continuum, sentendosi il polo decisivo, forte, potente, indispensabile, il dominatore, il signore del castello.

Nella storia, Barbablù dà alla moglie tutte le chiavi del castello, lasciandola supporre di essere la regina della casa, la padrona, libera di andare dove vuole e di fare quanto desidera, ma di fatto nel momento in cui afferma questo lo nega, perché le vieta la vera libertà di decidere e la stanza della conoscenza. Addirittura la indirizza anche nella trasgressione, inducendole la condotta vietata, proprio nel momento in cui la vieta. Lui fa e dispone e lei deve solo recitare la parte.

Non a caso nel film Lezioni di Piano, Jane Campion mette in scena nel teatrino natalizio della colonia britannica sita in Nuova Zelanda, proprio la storia di Barbablù, che riproduce pari pari ciò che il marito della protagonista farà alla moglie. La sceglie per posta, mettendosi d’accordo con i genitori di lei, le impone una vita e delle regole stabilite da lui senza chiederle parere, la priva della sua voce, dello strumento che la fa parlare, il piano appunto, inoltre di fronte alla passione di lei, interviene drasticamente prima rinchiudendola in casa, poi tagliandole brutalmente un dito.

Dall’altra però, Barbablù rappresenta anche il predatore interno di lei, che la sabota fin da piccola, togliendole la voce per dire, per urlare, per scegliere, inducendola a ritirarsi in un mondo lontano dal mondo, lontano dalla vita. Anche la protagonista del film, affronterà un’iniziazione ed un passaggio, il dito perso ed il sangue che scorre, ma ancora di più il pianoforte in fondo al mare e con esso la sua possibile fine, la farà scegliere definitivamente per la vita, niente e nessuno potrà opporsi al suo desiderio ed il marito infatti la lascerà andare, consapevole di poterla fare a pezzi, ma di non poterla piegare al suo volere.

In questo film esiste il Barbablù esterno, il marito, ma esiste anche quello interno precedente a questo, rappresentato da un’esistenza che mette a tacere i propri desideri ed i propri voleri. Un tema riproposto in un film successivo, sempre della stessa regista “Ritratto di signora”, dove la violenza è espressa in modo più sottile e psicologico, qui il marito-padrone la induce al suo volere facendola sedere su una sedia più alta, un po’ come si farebbe con un bambino, per metterlo alla propria altezza, non in segno di parità, ma per favorire un contatto visivo più diretto e quindi più pressante. “Lezioni di piano” invece, oltre a contenere forti elementi di violenza psicologica, arriva fino a mostrarci le estreme conseguenze di una violenza, materializzata in atti crudi e indicibili.

Guardando Bettelheim, la storia di Barbablù tratterebbe di un tabù di tipo sessuale, ovvero il divieto al tradimento. Ovvero, Barbablù fingendo di partire ed invitando la moglie a divertirsi, la sottoporrebbe ad un test di fedeltà e la chiave insanguinata che macchia l’abito bianco ne sarebbe la prova, rappresentando la rottura dell’imene e la perdita della verginità-ingenuità. Questa visione relegherebbe la morale della storia ad uno spazio limitato, spingendo verso valori quali l’onesta e la fedeltà, sia di uomini che di donne, che non devono infrangere la promessa fatta al coniuge. Vista così, la storia ci mostrerebbe anche una visuale altamente maschile e maschilista, attribuendo all’uomo la legge, la decisione di quali stanze aprire e quali no.

Ritengo, d’accordo con Estés che la storia rimandi a qualcos’altro di più profondo del tradimento coniugale, si riferisce sì ad un tradimento, ma di un altro tipo e qui si torna al secondo elemento rappresentativo del personaggio, l’elemento predatorio interno.

E’ la donna che tradisce sé stessa fin dall’inizio, dal momento in cui decide di farsi traviare e negare il proprio istinto, il primo istinto che le ha fatto diffidare di quest’uomo tanto bizzarro e anomalo, nel colore della barba e nei modi. L’abito bianco rappresenta l’inesperienza, la verginità rispetto alle esperienze della vita, all’inconsapevolezza della propria sorte.

Le sorelle più grandi invece, non si lasciano mai sedurre e nonostante la bella giornata trascorsa, i cavalli dai finimenti d’oro, la splendida passeggiata, i racconti, le leccornie ed i complimenti, non cambiano idea e non si fidano. Apparentemente ne sono sedotte, ma al rientro a casa, nella propria dimora fisica e psichica, ritornano a sé e al proprio sentire. La più piccola invece, dimentica il suo sentire, per lasciarsi ammaliare da quel fumo ed è condotta fuori da sé, dal rispetto del proprio bene e del proprio intuito.

Ma perché, cade proprio la più giovane? Proprio in quanto più giovane, non tanto per l’età quanto per l’inesperienza, per l’impulsività tipica di chi ancora non crede in sé, per l’ingenuità e la fatuità. Questo è essenzialmente un valore simbolico, infatti la vittima non è necessariamente giovane, ma giovane rispetto all’espressione libera di sé, rispetto all’esplicamento delle proprie forze interiori. Si tratta di una donna che si fa ancora catturare dai piaceri dell’Io, che non crede in sé, non si fida fino in fondo del proprio sentire e attribuisce il proprio potere ad un altro, che le direzionerà la vita, in termini economici, sociali, relazionali, decisionali, in termini del senso di sé e della propria identità.

Le sorelle maggiori rappresentano la parte in ombra di lei, la donna potenziale che ancora non ha spazio, quella saggia, quella che crede nella propria intuizione, quella che lascia che curiosità e scoperta emergano. Non a caso la trasformazione, sia nella terapia che nella storia, è anticipata e permessa dalla domanda giusta. Formularsi la domanda appropriata nel momento appropriato, permette di aprire la porta per il disvelamento, per la scoperta ed il cambiamento. La sorella giovane è pronta ad obbedire e a seppellire ogni possibile dubbio. Sono infatti le sorelle maggiori, che prese dalla curiosità si chiedono dove fosse quella porta, aperta da quella piccola chiave con la spirale (simbolo di cambiamento ed evoluzione) e cosa avrebbero trovato al di là.

E la porta condusse ad una stanza buia, che richiedeva un lume per poter far chiarezza, il lume della consapevolezza che mostrò appunto un carneficio, di cui vi era traccia solo attraverso le ossa ed il sangue. Due elementi rappresentativi e basilari dell’individuo. Le ossa denotano le fondamenta, la struttura base, la colonna portante, la parte solida, ciò che tiene in piedi la persona, il sangue denota la fluidità, la vitalità, la forza, una presenza pulsante e vibrante. Il sangue rappresenta la vita che scorre, che è stata portata via, quindi anche la sua mancanza, la ferita dell’esserne stati sottratti, deturpati e usurpati. Quella stanza degli orrori, rappresenta il luogo della psiche femminile, dove risiede il sabotatore, il carnefice, il non senso, la parte distruttiva, svilente della propria natura.

E che orrore ha provato la giovane sposa, ma pur scappando, pur cercando di eliminare le tracce di quella consapevolezza, la chiave-ferita-feritoia-finestra non ha smesso si sanguinare. Ha provato in tutti i modi, con mezzi più propriamente femminili (strofinare con uno straccio di cucina), con metodi naturali (la cenere), con metodi più scientifici (fuoco), con la superstizione (le ragnatele), ma niente è valso quello sforzo. La ferita non si è rimarginata, non si è chiusa, la chiave non ha smesso di sanguinare, neanche operando tutti gli elementi per filare la vita e la morte delle Parche, quel luogo non poteva essere cancellato.

Qui arriviamo al Barbablù interno, ovvero a quel luogo della psiche che sabota e si unisce in un connubio distruttivo con il Barbablù esterno in carne ed ossa. E’ la parte distruttiva, quella razionale, concreta e brutale, che nega nel suo essere la sensibilità, l’intuito, l’emotività e la creatività femminile, è il maschile imbrigliante, una regola che seduce e prostituisce ad un ordine esterno (i ritmi quotidiani, il lavoro, la moda, la produttività, il denaro, i numeri, l’apparenza, l’aspetto civettuolo, seduttivo e compiacente).  Così la donna compie il sacrificio di sé, della parte più creativa, appiattendosi nell’affettività, nelle idee, nella capacità di stare in relazione, sanguina silenziosamente, diventando anemica.

Nella storia, l’abito della moglie e gli abiti nell’armadio si tingono di rosso, si macchiano di questo crimine. L’abito nella psicologia archetipa personifica la presenza esterna, ma del resto la stessa origine etimologia habitus rimanda alle sembianze esterne, alla parte più visibile di noi, espressa attraverso azioni, modi di fare e dire. La parte esterna è una maschera che si presenta al mondo, più  o meno congruente con l’interno, si può decidere di allearsi col sabotatore ed accrescere l’immagine di efficienza, impegno, serietà, fascino, ma una volta raggiunta la consapevolezza, illuminata la stanza degli orrori e svelate ossa e sangue di precedenti vittime, le parti fondamentali della psiche femminile, non possono più essere cancellate e trasudano anche dalla maschera.

Le ossa delle donne uccise, rappresentano la parte indistruttibile, quella più dura e resistente, l’anima che traspare anche dalla maschera-abito. Per quanto represse, le parti fondamentali di noi, non possono essere cancellate, nulla della psiche si perderà.

Del resto la cantina, la prigione, la caverna, la stanza segreta, rappresentano tutti antichi ambienti iniziatici, il luogo dove sterminare l’assassino della psiche, dove smettere di far finta di essere altro, dove smettere di credere ad una parte di sé, alleata con lo sterminatore, una parte più volatile e frivola, quella che si fa sedurre dai bisogni narcisistici di facile riempimento.

Adesso la donna non è più ingenua, ha visto e non può più nasconderlo a sé, fino a quel momento aveva negato la luce della propria intuizione, ma adesso non è più possibile. O crede in sé, recupera tutta la forza necessaria e affronta l’ammazzafemmine o perirà inesorabilmente.

A tal proposito, mi viene in mente il film Ti do i miei occhi, incentrato su una

relazione perversa. All’interno del gioco amoroso-sessuale di una coppia legata in modo insano, i due si donano parti di sé, del proprio corpo e la donna regala al partner i propri occhi. La donna nega a sé stessa, finge di non vedere la violenza del marito predatore e continua a credergli ogni volta che lui torna amoroso. Lui la bistratta, maltratta, fino a picchiarla, ma lei resiste giustificandolo, fuggendo nei momenti di maggiori intolleranza ma poi tornando nuovamente da lui, sedotta dal fumo che gli confonde la mente ed il sentire. Finge di non vedere e dona i suoi occhi a lui, si nasconde la vista di ciò che si dispiega di fronte a lei, senza ragionevole dubbio.

Solo al momento di far ingresso nella stanza degli orrori non potrà più far finta di non vedere, solo allora riprenderà i propri occhi e lo sguardo. E questo avverrà quando lui la spoglierà e la chiuderà fuori di casa, sul terrazzo, nuda. Solo allora, solo dopo essere stata messa in vetrina, esposta alla profonda vergogna, allo svilimento più totale, quando sarà denudata di ogni dignità e decisività, allora vedrà veramente. Quando una donna sente di essere stata preda sia del mondo esterno, di un uomo che mondo interno, della propria cecità non può più ignorarlo, non può tollerarlo oltre, non può più nascondersi a sé stessa.

E come in questo caso, anche per la giovane moglie di Barbablù, la donna finge di ritirarsi, di prepararsi alla morte, per recuperare tutte le proprie forze per sferrare il colpo finale.

Nella storia la donna chiede alle sorelle di far arrivare i fratelli e sono proprio questi, annunciati da un turbine, da un polverone, che arrivando sferrano colpi che uccidono il marito. Questo sta ad indicare l’importanza dell’integrità di ogni parte di noi, delle parti femminili più consapevoli e intuitive, più astute ed esperte (le sorelle) e delle parti maschili, l’azione, la forza, guidata dall’intuizione e dall’emotività, dalla rabbia vitale. Il turbine rimanda proprio alla rabbia che travolge e rovescia tutto, una rabbia necessaria, distanziante, differenziante e risanatrice.

Il finale ci ricorda l’importanza dell’integrazione della parte maschile e femminile, fuori ma anche dentro di noi, ci ricorda anche che le relazioni riuscite, vincenti, sono quelle alla pari (come quelle fra fratelli e sorelle) e non quelle asimmetriche e perverse, di chi comanda e subisce. La fanciulla che apre gli occhi, avrà al suo fianco dei validi guerrieri, pronti a difenderla e a portare avanti i suoi diritti.

Barbablù viene smembrato e lasciato in pasto alle poiane, non per crudeltà ma come rito di purificazione. Nei tempi antichi infatti, esistevano figure rappresentate da spiriti, animali, talvolta da uomini, che in qualità di capro espiatorio prendevano su sé tutti i peccati, purificando l’umanità. Questo rimando della storia, sta un po’ a simbolizzare un’operazione di purificazione della donna, che proiettando all’esterno da sé, la parte distruttiva sabotante e allontanandose, redime sé stessa dalla caduta, in questa possibile triste sorte.

C’è inoltre da sottolineare una differenza significativa fra l’azione del predatore e quella dei fratelli. Barbablù lascia macerare in cantina le donne vittime del suo delitto, nascoste dagli occhi e dalla conoscenza. I fratelli invece, lo smembramento e lasciato alle poiane, alla luce del giorno, pubblicamente. Anche in questo caso non c’è un delitto, ma un passaggio evolutivo, pertanto non c’è bisogno di nascondere e la finalità non è distruggere ma recare trasformazione.

Se dovessimo poi, guardare meglio cosa rappresenta il sabotatore interno, potremmo definirlo in tanti modi. Forse Freud lo definirebbe come derivato dell’istinto di morte. L’analisi transazionale (Eric Berne) potrebbe definirlo come il connubio fra Bambino Adattato e Genitore Normativo, ovvero l’espressione della distruttività di un Bambino Adattato (inteso come parte della personalità), rimasto impigliato in una lotta con il Genitore Normativo, prima esterno poi interiorizzato. E potremmo andare avanti ancora per un po’.

Io direi in modo più generico che il predatore rappresenta una parte fragile della nostra psiche, che in quanto tale è maggiormente scoperta, soggetta ad aderire a dinamiche non evolutive, contorte e spesso distruttive. Queste fragilità potrebbero essere successive e conseguenti a situazioni traumatiche precoci, a condizioni di deprivazione, ad elementi mancanti nella relazione madre-figlio e padre-figlio, ad esperienze fondamentali di non amore, ecc. E’ un po’ come se questa parte fosse un bambino indifeso, con delle grosse capacità in termini di intuizione e sensibilità, ma carente per motivi evolutivi, di un pensiero più strutturato, carente di conoscenze ed esperienze, in conseguenza di questa condizione, si trova ad essere facile preda di fascinazioni esterne e superficiali, quali possono arrivare da un individuo perverso, ciò crea un vincolo difficilmente dissolubile, se non in seguito, attraverso un passaggio evolutivo-iniziatico.

In questo senso direi che in realtà la vittima di Barbablù non è necessariamente una donna, può essere anche un uomo. Generalmente è più facile che il ruolo di vittima sia impersonato dal femminile e viceversa il ruolo di carnefice da quello maschile, ma solo per una sorta di prevalenza di disagi nell’una o nell’altra categoria. Per una serie complessa di fattori infatti, le donne sono più facilmente rintracciabili in alcune strutture di personalità, mentre gli uomini più facilmente in altre e questo crea il ruolo in certi tipi di incastri.

Comunque può capitare anche il contrario, vedi ad esempio il film The Reader, che ci narra un chiaro esempio in questo senso. Il protagonista è un ragazzo di circa 16-17 anni che viene soccorso per un malore da una giovane donna, si sente visto e aiutato da lei che è esterna alla sua famiglia e per lui è un’esperienza importante da qui si forma un aggancio importante per lui, che una volta ristabilitosi dalla malattia, il ragazzo tornerà da lei per ringraziarla. Di lì inizia una relazione sessuale con lei, che lo usa e abusa psicologicamente. Più dell’abuso sessuale c’è quello psicologico, gli attribuisce un ruolo da cui lui non riesce a scappare, lei stabilisce le regole, gli orari, i modi della relazione, non c’è spazio per sue decisioni o voleri. Lo usa come lettore, lei non sa leggere e gli chiede continuamente di farlo per lei, arriverà a fare scelte importanti nella sua vita proprio per non mostrare a nessuno questa sua incapacità, arriverà ad essere processata come guardia nazista, tacciata di unica responsabile di un atroce crimine di guerra e lei si accollerà la colpa pur di non dire. Durante gli anni di carcere, il ragazzo ormai adulto le invia delle cassette, su cui ha registrato la sua voce che legge dei libri, da lì lei impara a leggere, ma una volta fuori ancora si aspetta che lui legga per lei, mentre lui si sente finalmente sdebitato.

La relazione con questa donna, dura molto tempo ed è una relazione subita, dove lei mantiene ancora il suo potere anche dal carcere, proprio perché si è stabilita una sudditanza psicologica, senza possibilità di cambiamento di ruoli. Lui è suddito e predato perché è giovane, inesperto, ma soprattutto perché è fragile, non visto e lei lo ha visto e lo ha raccolto mentre vomitava, lei ha raccolto le parti peggiori di lui, quelle che lui rigurgita, butta fuori, in cui lei evidentemente s’è rispecchiata. Lui sente un debito profondo con lei, colluderà persino nel suo silenzio in aula circa l’analfabetismo, che la porterà alla condanna. Scioglierà questa collusione solo molti anni dopo, quando riuscirà a renderla autonoma e a indurla indirettamente, ad imparare a leggere.

Ritengo che, a quello appena citato, si debba aggiungere un ulteriore caso, quello dove la relazione perversa si sviluppa fra persone della stesso sesso. Pensiamo ad esempio ad un’amicizia fra donne, dove una trascina l’altra in decisioni, iniziative, pensieri, scelte. Una funge da polo propositivo, da modello forte e l’altra, che si percepisce debole ed incapace si appoggia incondizionatamente, delegando le proprie capacità decisionali, pur di sentirsi amata, apprezzata, in compagnia, accompagnata. In questo caso, il predatore è una donna nei confronti di un’altra donna, rappresenta la figura che manipola, spinge, raggira, depreda, valuta a proprio piacimento e a proprio favore. Apparentemente questa figura funge un po’ da guida, rispetto ad una sorta di iniziazione, verso attività sconosciute all’altra (il sesso, le relazioni coi ragazzi, la femminilità, le sigarette, le trasgressioni, il tradimento, ecc.), ma di fatto non lascia la libertà di compiere una scelta e di produrre il passaggio con le proprie risorse.

E dunque il nostro nemico più feroce non è certo un ammazzafemmine esterno, ma quello interno, quello che sabota la parte intuitiva ed emotiva, delle donne ma anche degli uomini. Quel luogo di fragilità dove albergano rinuncia, arrendevolezza, passività, paura, adattamento e privazione. Quella parte sabotante che continua a ricordarci che non ce la faremo mai, che non siamo in grado, non abbastanza forti, non abbastanza intelligenti, astuti, capaci, ecc. E’ anche quella parte che si lascia riempire con riconoscimenti fatui, che colma il vuoto narcisistico non con la sostanza, ma con la forma, attraverso lusinghe effimere e passeggere. Si accontenta di vedersi rispecchiato negli occhi dell’altro, magnificato dal riflesso luccicante, senza colmare il senso di insicurezza, di mancanza, di inafferrabilità della vita, l’impotenza più estrema.

E ancora oltre, dobbiamo concludere che non si tratta di un ammazzafemmine, ma di un ammazzafemminile. Ovvero, del delitto di quella parte più introspettiva e riflessiva, che appartiene sia alle donne che agli uomini. Nel momento in cui si delega il proprio potere ad un altro, ad un oggetto, attività o relazione, si perde il centro di noi, andando verso un maschile (il fare, il pensiero razionale, ecc.) eccessivo e sbilanciato, perché non ponderato dall’elemento più femminile (la riflessione e l’ascolto).

La salvezza da questa triste sorte è lunga, deve compiere un passaggio, deve procedere per la redenzione dell’anima, che sente di avere un debito con quella persona che l’ha legata/o indissolubilmente. E’ necessario dare qualcosa, lasciar andare qualcosa per poter prendere altro, per dare peso a quanto alberga nel nostro interno.

La rottura dell’imene psichico, dell’ingenuità, deve passare da una ferita, da una delusione, da sangue pulsante ed ossa indistruttibili, che devono essere rimesse insieme, esattamente come fa la Loba (Estès), la vecchia raccoglitrice di ossa del deserto. Si recuperano le parti essenziali di noi, per modificare il modo in cui queste parti vengono viste, ricomposte e utilizzate.

La vittoria arriverà nel momento in cui si riprenderà la luce del proprio sguardo, che guiderà il guerriero armato di fiducia e determinazione.

 

 

Bibliografia e Filmografia

 

       Berne E. (1967). A che gioco giochiamo. Bompiani.

Berne E. (1971). Analisi transazionale e psicoterapia. Astrolabio.

Bettelheim B. (1977). Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Milano,Feltrinelli.

Estés C.P. (1993). Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna Selvaggia. Piacenza, Frassinelli.

Grimm J., Grimm W. (1951). Fiabe. Torino, Enaudi.

Hirigoyen M.F. (2000). Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro. Enaudi.

Iciar Bollain. Ti do I miei occhi. Attori principali: Luis Tosar, Candela Peῆa, Rosa Maria Sardà. Gen. Drammatico, Spagna, 2003.

Jane Campion. Lezioni di Piano. Attori principali: Holly Hunter, Harvey Keitel, Sam Neill. Gen Drammatico, produzione Austria/Francia/Nuova Zelanda, 1993.

Jane Campion. Ritratto di signora. Attori principali: Nicole Kidman, John Malkovich, Barbara Hershey, Valentina Cervi. Gen. Drammatico, produzione USA, 1996.

Stephen Dardry. The Reader - A voce alta. Attori principali: Kate Winslet, Ralph Fiennes, David Kross, Lena Olin. Gen. Drammatico, USA-Germania, 2008.

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13 giugno 2011 1 13 /06 /giugno /2011 10:37

Bugia, Fantasia, Negazione,

Vergogna?

 

Dott. sa Sabrina Costantini

 

 

 

Quando la bugia interviene nel corso di una relazione, costituisce sempre un elemento di disturbo e turbamento. Avvertire che l’altro ci sta mentendo, con prove o meno certe, insinua un’ombra di sospetto e sfiducia, che incrina inesorabilmente quel rapporto.

Lo incrina perché ci disorienta, non sappiamo chi è colui che ci sta davanti, che ci fornisce una certa immagine di sé. Cosa di tutto quello che ci rimanda, è vero? Cosa di quello che ci vuol dare ad intendere, è reale? Quanto sono sincere le emozioni, la simpatia, l’attenzione, le parole, che ci sta rivolgendo? Cosa noi, rappresentiamo per lui/lei? A cosa dobbiamo credere? La realtà in quel momento è incerta, instabile e inafferrabile, non abbiamo sicurezze e ci sentiamo senza strumenti, di fronte a questa persona rivelatasi sconosciuta.

La bugia del bambino disorienta ancora di più il genitore, che si trova a doverla gestire malgrado lui. Ma a differenza della relazione con un adulto che mente, che spesso si chiude o si limita in quantità, tempo, fiducia, in questo caso ci troviamo a non poter far a meno della relazione stessa, per amore, per necessità, per responsabilità, ecc. Qui, si crea la prima difficoltà, di origine emotiva.

Molto spesso, l’idea di aver a che fare con un figlio moralmente non adeguato suscita così tanta ansia (non sempre consapevole e riconosciuta), da produrre un’attribuzione di valore rispetto alla sua condotta, a volte prematura e inesatta. Immediatamente si affacciano alla mente domande come: “Che individuo è diventato mio figlio?”, “Chi è?”, “In cosa ho sbagliato?”

E spesso tutto questo termina con un “Bugiardo!”, pieno di disprezzo, rabbia e paura. E la relazione comincia a incrinarsi, la persona comincia a distanziarsi, s’insinua il dubbio ed il tacito sospetto. E quando questa persona è nostro padre e/o nostra madre, è un vero dramma!

Cerchiamo di togliere un po’ di pesantezza a questa condotta e proviamo ad addentrarci in questo tunnel sconosciuto. Partiamo da una semplice definizione, proveniente da uno dei tanti vocabolari della lingua italiana: “la bugia consiste nell’affermazione volutamente contraria alla verità”.

L’elemento fondamentale consiste nella volontarietà, ovvero dall’intenzione di affermare una cosa al posto di un’altra. Questa consapevolezza è fondamentale per poter distinguere la bugia da altri meccanismi, come l’errore, l’atto di sbadataggine, la negazione, ecc. E soprattutto ci permette di osservare con maggiore rilassatezza e con una visione maggiormente ampia, la condotta (verbale e non) del bambino.

Uno dei problemi di fondo infatti, consiste nel valutare i bambini con lo stesso metro usato nei confronti degli adulti, attribuendogli responsabilità, consapevolezza, intenzionalità, che non hanno e non possono avere. L’imitazione persistente infatti, porta il bambino a copiare spesso la condotta, i modi di fare e di dire, lasciando intravedere una consapevolezza che non c’è. Ad una data azione infatti, non corrisponde necessariamente tutto il processo che noi presumiamo ci sia, sulla base della nostra quotidianità. Solo l’esterno, la parte più visibile ed esplicita è analoga (un comportamento, una frase, un modo di dire), non ciò che ci sta sotto.

Quindi la prima domanda da porsi è: “Cosa sta facendo questo bambino?” “Cosa sta dicendo?” “Che intenzioni ha?” “Con quale significato, sta facendo tutto questo?” Cosa ci sta comunicando?

Si deve cioè cercare di verificare se ad una data condotta, corrisponde realmente il significato che apparentemente gli pertiene. Ritornando alla definizione, si deve prima di tutto valutare se il piccolo ha consapevolezza, se sta operando un’omissione o distorsione volontaria della realtà.

Bisogna ricordare che il bambino non possiede la consapevolezza, lo sviluppo cognitivo ed emotivo dell’adulto, per cui i mezzi a sua disposizione ed i meccanismi messi in gioco, sono profondamente diversi da ciò che conosciamo. Partiamo dal fatto che, il bambino è caratterizzato da onnipotenza ed egocentrismo.

Non dobbiamo confonderci, attribuendo a questi due concetti un valore morale, non si tratta di un atteggiamento esibizionistico o prepotente, bensì di uno sviluppo cognitivo non ancora compiuto. Quando si parla di onnipotenza, ci si riferisce alla mancata separatezza fra realtà e fantasia, ovvero il bambino non distingue fra ciò che pensa e ciò che realmente accade, può accadere o che sa far accadere. Sotto la spinta dell’onnipotenza, è convinto che basta pensare un evento perché si verifichi, come se la sola forza del pensiero lo rendesse realizzabile. Una condizione analoga a quei disturbi psichiatrici importanti, dove si manifesta confusione e scarsa consapevolezza, connessi ad un senso di potere sul mondo, fuori della realtà (ne sono un esempio i deliri, le convinzioni erronee). Ma, nel bambino è solo una mancanza di capacità, che è in via di sviluppo, nell’adulto psicotico è un’assenza ormai strutturata e costitutiva dell’identità patologica.

Per fare un esempio, se il bambino prova rabbia nei confronti di una persona vicina e se questa persona si ammala, finisce all’ospedale per un incidente, malattia o addirittura muore, capita che il bambino si senta responsabile, come se il suo sentire rabbia ed il fantasticare di far del male, porti realmente ad un’azione concreta di malattia o morte. Lui pensa di essere responsabile effettivamente, di quella condizione (malattia o morte).

Non distingue cioè fra la realtà e la fantasia, o comunque fra la realtà concreta e la realtà mentale, che non coincidono. In virtù di questo, si attribuisce un potere ed una capacità che effettivamente non possiede, come se la capacità di pensare tutto, gli fornisse l’abilità e la possibilità, di fare effettivamente tutto. Non ci sono limiti al pensiero e al fare, tutto è realizzabile!

Questa caratteristica del pensiero, da una parte fornisce un senso di potere, per cui permette di affrontare in modo più sostenibile l’impotenza nei confronti del mondo esterno, fornendo un senso di possibilità illimitato, dall’altra fornisce un senso di responsabilità enorme, talvolta schiacciante (come nell’esempio appena citato) e irrealistico. Non per niente, l’onnipotenza rappresenta un’espressione del pensiero magico.

Solo con l’accrescersi dello sviluppo cognitivo si fonda la distinzione fra realtà e fantasia, fra pensiero e azione concreta, comprendendo che non ha così tanto potere come credeva, ci sono dei limiti. I primi significativi passi, verso l’acquisizione di quest’abilità iniziano a 5-6 anni.

Ciò non significa che l’onnipotenza venga realmente abbandonata. Molto spesso infatti, lo sviluppo cognitivo e affettivo non procedono di pari passi, mostrando uno scivolamento dell’una sull’altra, per cui anche se lo sviluppo cognitivo ha proseguito nel suo sviluppo, l’onnipotenza può essere conservata come modalità difensiva o come prodotto di relazioni ed elementi emotivi inadeguati, che producono meccanismi adattivi, a vario livello.

Facciamo un semplice esempio, l’adolescente ha ormai acquisito in modo definitivo e stabile la reversibilità del pensiero, la capacità di pensiero ipotetico deduttivo, quindi la distinzione fra realtà e fantasia, nonostante ciò può verificarsi uno scivolamento in questo senso e può capitare che sopravvaluti le proprie capacità in certi ambiti (es. alla guida, utilizzo di droghe, nell’applicare la forza fisica, nella cognizione rispetto a certi ambiti, ecc.). Lo sviluppo del pensiero è adeguato e connesso con la realtà, ma può presentarsi un’incapacità emotiva, di affrontare la frustrazione e l’impotenza.

L’egocentrismo come esposto da J. Piaget (vedi Petter), si riferisce al processo che il bambino attua nel mettere sé stesso al centro dell’universo, ma come già detto, non nel senso di un atteggiamento presuntuoso o prepotente, bensì come processo in sintonia con l’onnipotenza. Abbiamo visto che, fino a circa 6-7 anni cioè, il bambino non distingue fra realtà e fantasia, fra sé e gli altri, fra quella che è la sua responsabilità e quella degli altri, quella che è la sua capacità di incidere sul mondo e di esserne responsabile e quella che non lo è. L’egocentrismo ci dice ancora di più: non riesce a mettersi dal punto di vista dell’altro, non riesce a cambiare prospettiva. Tutto ciò non perché sia egoista, ma perché il suo pensiero manca di reversibilità, manca della capacità di manipolare mentalmente i processi ed i pensieri, non sa pensare in astratto, è ancora legato alla pregnanza percettiva di ciò che gli capita. Detto in modo più semplice e sbrigativo, vede la realtà dalla propria prospettiva, in base a ciò che è lui e a ciò che gli capita davanti concretamente, incontrando difficoltà a pensare ribaltando la prospettiva, a zoommare indietro e in avanti, a vedersi parte di un processo più ampio. Tenere a mente un oggetto o un evento, anche quando non è lì presente davanti a lui, non è semplice e scontato, ma richiede un processo di interiorizzazione di quell’oggetto, diventato immagine, che può essere mentalmente e astrattamente manipolata, come in passato lo era stato l’oggetto concreto. Imprimere per così dire, un’immagine nella propria mente, poterla manipolare, archiviare, recuperare successivamente e ancora utilizzare in base alle esigenze, comporta un processo mentale assai complesso.

Per fare un esempio, questa difficoltà la riscontriamo nel momento in cui chiediamo al bambino di disegnare il paesaggio che ha davanti, come se stesse dal lato opposto in cui sta guardando. Per operare un tale processo è necessario manipolare mentalmente l’immagine, ribaltarla e spostare la prospettiva dello sguardo ad una certa angolazione. Tutto ciò non è né semplice né innato, ma acquisito dopo una infinita serie di processi cognitivi.

Ora cerchiamo di applicare tutto questo al concetto di verità o bugia, capiamo bene che non è così ovvio che una certa espressione, implichi la trasmutazione intenzionale della realtà. L’intenzionalità infatti, prevede che vi sia piena capacità e consapevolezza. Fin tanto che il bambino non sa distinguere fra realtà e fantasia e non sa spostarsi mentalmente su prospettive diverse, non sa immedesimarsi nell’altro, non sa tenere a mente ciò che non è più percettivamente presente, non può dire bugie come le intendiamo noi. Dirà delle cose non vere, ma non per ingannare intenzionalmente, ma perché ritiene che il solo fatto di desiderare una cosa, la renda vera o perché non riesce ad allargare l’orizzonte e vedere ciò che dice e che fa, nella prospettiva della relazione con gli altri e del possibile effetto.

Il realismo morale (Piaget) del resto, ci mostra ancora una volta questo processo. Nei suoi studi Piaget, aveva ideato una serie di ricerche, che andavano ad indagare lo sviluppo del giudizio morale. In uno dei suoi esperimenti aveva verificato che fino a 5-6 anni i bambini ritengono ad esempio che fra due bambini che abbiano parimenti preso di nascosto la stilografica del padre, compie un errore più grande il bambino che fa una macchia d’inchiostro più grande. Si parla di realismo morale nel senso che, i criteri di valutazione della condotta, sono rappresentati dalle conseguenze visibili, per cui è la macchia più grande crea una colpa più grande e non l’atto in sé di aver sottratto indebitamente un oggetto. Parimenti, in altri esperimenti in cui si chiedeva il giudizio sulle bugie, emerge che per i bambini piccoli, è più grave dire bugie all’adulto piuttosto che ad un altro bambino, perché l’adulto se ne accorge più facilmente o perché l’adulto è più importante del pari, è “sacro”, un’autorità. Il bambino cioè ci mostra di essere incapace di formulare concetti astratti sulle regole morali, sulle regole relazionali e di vita.

Riflettiamo sul perché non si devono dire bugie. Non perché lo diciamo noi, non perché lo prescrive la morale, l’etica o il buon gusto, ma in quanto espressione di mancanza di presa responsabilità di sé, delle proprie idee e azioni (dalle piccole alle grandi) e conduce alla rottura della fiducia dell’altro, della relazione, fatta di reciprocità e costruzione. Tutto ciò, comporta una serie di acquisizioni cognitive, emotive, relazionali complesse ed articolate, che giungono ad una fase di totale e matura acquisizione, solo con l’età adulta.

Anche se si parla di un’età di 6-7 anni come termine di confine per l’inizio di acquisizioni cognitive, che superino l’egocentrismo, l’onnipotenza ed il realismo morale, la cosa è molto sfumata. In realtà già prima di quest’età, vi sono i prodromi di queste abilità e quindi le prime forme di bugie, che non sono ancora piene e definitive. Inoltre, a 6-7 anni i confini non sono ancora netti, non sempre egocentrismo e onnipotenza sono superati pienamente, a favore di una completa reversibilità (a 8-9 anni circa) e di un pensiero ipotetico-deduttivo (10-11 anni).

Queste quindi, le premesse per definire bugia, una non verità.

Stabilito se siamo o meno di fronte ad una bugia, passiamo alla seconda fase: chiederci perché. “Perché sta mentendo?” “Con quale scopo?” “Cosa sta capitando nel suo mondo?”

Se da una parte l’adeguata valutazione dello sviluppo cognitivo, ci impedisce di classificare erroneamente una condotta, dall’altra conoscerne la causa, ci permette di affrontare quella data condotta, più serenamente e adeguatamente.

A questo proposito si deve tener presente che il bambino si trova a dover scegliere assai presto, nella sua vita concreta appariranno velocemente la necessità di decisioni su quale direzione prendere, dalle piccole alle grandi cose (quale giocattolo preferire, quale cibo mangiare, con quale persona giocare, dove andare, ecc.). In questa serie quotidiana e infinita di scelte, c’è una grande incognita: faccio ciò che desidero io o ciò che i genitori mi dicono di fare? Seguo o no, un divieto genitoriale?

Qualunque sarà la direzione scelta, dovrà rinunciare ad una parte di sé, o rinuncia a ciò che desidera o rinuncia alla gratificazione di un’aspettativa genitoriale. In base a quali forze spingono per determinare una data scelta, ancor più della scelta in sé, il bambino si troverà in una situazione di rabbia, frustrazione e angoscia oppure di sufficiente serenità. Che scelga per l’una o l’altra cosa poco importa, importa ancor di più se lo fa per amore, per contrapposizione, per sfida, per paura, ecc.

Forniamo alcuni esempi. Se sceglie di giocare anziché di studiare, come desidererebbero i genitori, per il piacere del gioco e di un particolare gioco, alla fine ne risulterà soddisfatto e la frustrazione di un eventuale brutto voto, del disappunto genitoriale, sarà sicuramente accettabile e passeggera. Se invece compirà la stessa scelta per rabbia, per opporsi al volere genitoriale, non godrà di quell’azione, ma ne sarà oltremodo frustrato, perché si troverà in uno stato costante di ansia e stress, rispetto alle possibili ripercussioni genitoriale, scolastiche, ecc., sarà preso dal costante sforzo di avere ragione e voler essere riconosciuto. Ugualmente, se sceglierà  di studiare per far sentire orgogliosi i genitori, sotto la spinta dell’amore per loro e di una relazione sana, sarà lui stesso felice di renderli fieri e sarà orgoglioso di sé, della soddisfazione relazionale e scolastica. Ma se la stessa scelta (studiare), sarà compiuta per paura della disapprovazione, della perdita di amore e di stima, allora anche in questo caso non trarrà nessun piacere, né dalla soddisfazione genitoriale né dal buon esito scolastico, perché sarà sempre in ansia, costretto a tenere tutto sotto controllo, per evitare eventuali fallimenti.

Capite bene come la stessa azione può condurre a condizioni emotive ben diverse, di conseguenza ad un assetto interno particolarmente sereno o ansiogeno. Ciò determinerà il bisogno all’eventuale utilizzo di meccanismi di difesa e strategie, per ritrovare un sufficiente equilibrio. La negazione e la “bugia” possono essere due strumenti importanti, per ricreare l’equilibrio perso.

Si esprime il bisogno inconsapevole di negare una parte della realtà, per la propria sopravvivenza emotiva. Con questo strumento, il bambino può escludere che i genitori lo rifiuterebbero se fallisse, può fingere di non aver ragione, di non provare soddisfazione per un bel voto o per l’approvazione genitoriale, può “cancellare” un conflitto intollerabile, ecc. Ovvero, la negazione serve per eliminare dalla consapevolezza una parte del conflitto, una parte della realtà, in modo che la soluzione scelta, sembri quella giusta, l’unica possibile e non la rinuncia a qualcosa, la costrizione in una qualche direzione. La negazione riguarda anche gli altri, ma principalmente riguarda sé, cioè nega qualcosa a sé stesso, per incapacità di sostenere una certa dinamica interna. Quindi non si tratta tanto di nascondere agli altri la propria realtà (questo poi di riflesso avviene), ma principalmente di nascondere a sé, qualcosa che non si riesce a digerire.

La bugia può essere di vari tipi, può assumere più la forma della negazione, ad esempio mentendo a sé circa l’aspettativa genitoriale, circa la competizione e lotta con loro, ecc. Ma può anche assumere la forma della vera e propria bugia, dove mente su ciò che ha fatto o detto, per incapacità a sostenere la propria scelta, ad esempio dirà di aver studiato, anche se non l’ha fatto, per difficoltà a esprimere in modo aperto il conflitto con i genitori, per timore di avere la loro disapprovazione, ecc. In questo secondo caso, la bugia è più rivolta agli altri, il bambino sa cos’ha fatto, ma non riesce ad affermarlo di fronte a loro, non sa darsi il diritto alla propria scelta.

Esistono poi le fantasticherie, utili per ristabilire un equilibrio mancante, per riempire un vuoto angosciante, per evitare la realtà, come strategia produttiva e riempitiva, ecc. Ad esempio Vanessa (3 anni), che non può avere un cane, ha raccontato alla zia che presto cambieranno casa, avranno un giardino grande e un bellissimo cane, che la inviterà e giocheranno insieme. La piccola abbonda di dettagli e si sforza di coinvolgere la zia in una realtà fantasticata, che in quel momento finge sia vera, per poter sopperire all’ansia e alla frustrazione di un desiderio non soddisfatto. In lei, non c’è intenzione di ferire gli altri, di mentire e tradire la realtà, ma semplicemente il bisogno di tollerare l’impossibilità, di intervenire su una realtà spiacevole.

Altro esempio, Angela (4 anni) produce un disegno molto articolato della sua casa con i suoi abitanti, dove rappresenta sé alla finestra che guarda i suoi due cani. In realtà non ha cani, ma anche in questo caso non è una bugia, bensì la proiezione di una dinamica interna, Angela non sta rappresentando la realtà concreta ma quella emotiva, dove i cani assumono una parte di sé.

Agnese di 14 anni, mente alla madre circa l’età dei ragazzi del gruppo con cui vorrebbe uscire. Si tratta di una vera e propria bugia, non tanto per raggirare i genitori, bensì per timore di non avere il permesso di uscire con loro e di saperne discutere, per cui cerca di prevenire il conflitto e la frustrazione del divieto, nascondendo e modificando una parte della realtà.

Spesso, questi meccanismi (bugia, negazione, fantasticheria) si mescolano e confondono fra loro, creando ulteriore disorientamento. Soprattutto quando il rapporto fra realtà e fantasia non è ancora chiaro, anche i meccanismi vengono usati in modo indiscriminato. Sta all’adulto, mettere insieme ciò che vede del bambino, della sua condotta, di ciò che gli capita intorno, di ciò che succede nelle sue relazioni e ciò che dice o non dice.

Quelli citati sono solo pochi dei tanti possibili casi, ve ne sono un’infinità: brutti voti, cibi che non si apprezzano, abitudini impegnative (stare a tavola composti, lavarsi le mani, andare a scuola, fare i compiti, ecc.), rapporti conflittuali con insegnanti, rapporti difficili con i parenti, situazioni di violenze extrafamiliare, violenza familiare, desideri repressi (voler diventare come l’eroe preferito, desiderare un oggetto particolare, ecc.) e via dicendo.

Ci ricorda in modo chiaro quanto sia importante comprendere la natura della menzogna, la causa. Il perché di una data bugia fa molta differenza, prima di tutto fornisce una certa razionalità, un senso ed un controllo a quanto sta capitando. Ciò è fondamentale per i genitori, che di fronte alle bugie, soprattutto alle prime bugie del figlio, si trovano spiazzati, spersi, spaventati e proiettandosi nel futuro, vedono già un “figlio delinquente  o disonesto”.

Il perché inoltre, ci permette di capire cosa sta succedendo a nostro figlio, quali sono le sue dinamiche interne e quali quelle esterne, in relazione con noi e con l’ambiente più allargato. Infine, ci permette di intervenire con ragion di causa, in modo mirato, consapevole ed appropriato.

Capire cosa sta succedendo nel mondo interno di nostro figlio, nella sua relazione con noi infatti, permette di non intervenire con punizioni, rimproveri, accuse e litigi, ma di andare oltre il fatto in sé e per sé, usandolo come mezzo. Punire e rimproverare per una bugia, attribuisce ancora più peso e valore alla bugia stessa, creando un possibile circolo vizioso che va ad alimentarla. Il bambino si sentirà incompreso e pieno ei rancore, la bugia diventa un’arma rispetto alla relazione, proprio perché tanto intollerabile e irritante, per il genitore.

Comprenderne le ragioni e andare ad incidere su quelle ragioni, fa sì che la bugia venga vista e trattata come un sintomo, come uno strumento inappropriato, per esprimere una sofferenza, non come il problema in sé.

Generalmente, ciò che il bambino vive come intollerabile, al punto da doverlo nascondere o camuffare con la menzogna, corrisponde a ciò che i genitori vivono come intollerabile. Se i genitori non riescono ad accettare l’immagine di un figlio diverso da quanto loro si aspettano (sano, di successo, bello, simpatico, ecc.), questi a sua volta, più o meno consapevolmente, non potrà accettare di presentarsi loro con delle discrepanze, diverso da ciò che loro desiderano. Allora dovrà creare un mondo alternativo, diverso da quello in cui vive quell’immagine che non gli appartiene, un mondo dove si sente veramente sé stesso. Bugia, fantasticheria e negazione, diventano i mattoni di questa dimensione.

Nella realtà questa dinamica non è sempre così visibile e possente, ma spesso assume dei contorni più usuali, accettabili, subdoli. Pensiamo ad esempio alla difficoltà ad accettare che i piccoli rifiutino certi cibi, che non sentano il desiderio di baciare i propri cari, di fare le cose che fanno i familiari, di volere andare all’asilo o a scuola, di amare l’acqua, ecc. Insomma, talvolta sotto forme educative usuali e apparentemente appropriate, si nascondono delle forti paure e di conseguenza, la mancata  accettazione.

Per esemplificare, se all’interno della famiglia allargata i piccoli del parentado apprezzano tutti i cibi e i propri figli al contrario, non amano frutta e verdura, è possibile che il genitore si sentirà pieno di paura, inappropriato e vivrà il timore di essere giudicato un cattivo genitore, educatore incapace, quindi sarà portato a voler eliminare il problema, spingendo in vario modo il proprio figlio, a mangiare anche questi alimenti.

Questo è solo uno dei tanti piccoli esempi di induzione, dove si costringe il bambino a rinunciare a qualcosa di sé, in modo improprio e forzato, per eliminare inconsapevolmente una propria angoscia e senso di inadeguatezza, che spingerà lui di conseguenza a crearsi un proprio mondo, diverso da quello che mostra e dichiara. Pensate alla confusione e incomprensione genitoriale. In fin dei conti, loro stanno solo cercando di nutrirlo nel modo più corretto e sano possibile, del resto come fanno tutti i genitori a loro più cari, che stimano di più! Ma, come abbiamo visto, è il processo sottostante, che rende la condotta deprivante e piena di conflitto.

Pensate un po’, quanto diventa complicato, quando i termini del conflitto riguardano elementi più impalpabili e inconsapevoli, come certe caratteristiche di personalità, certe abilità, la capacità di ottenere successo, ecc.

D’Aloisio suggerisce di cogliere la “fiaba del bambino” ovvero il racconto di sé e del suo mondo, fatto di intrecci e incontri segreti con il suo vero interno, il suo vero sé, le sue motivazioni, i desideri, le paure, i fantasmi, ecc. Il racconto fantasticato e inventato del bambino, l’immagine fasulla di sé, le bugie quindi, rappresentano un filo conduttore che ci conduce al suo vero mondo interno, è una sottile linea di confine fra vero e non vero.

In  considerazione di quanto detto fino ad adesso, ritengo un po’ impropria la definizione “Sindrome di Pinocchio”. Impropria  riferita ad una condizione di bugia cronica e persistente, ma assai propria riferita alla condizione dell’infanzia. Se ci pensiamo bene, Pinocchio non era bugiardo, non aveva l’intenzione e l’intento di mentire, bensì la naturale difficoltà di quest’età, nel portare avanti quanto promesso. Carlo Collodi ci descrive la condizione evolutiva del dover scegliere il “dovere”, per rinunciare al “piacere”. Ma come mostra il libro, non è un’acquisizione semplice e richiede tempo. Spesso gli stessi adulti non sanno rinunciare al piacere o ad un vantaggio immediato e non possiamo certo pretendere, che lo sappiano fare i bambini e gli adolescenti. Come ci ha ben spiegato S. Freud, è necessario che il principio di realtà raggiunga la sua forza, in modo tale da far fronte al principio di piacere, ma questo processo inizia fin dai primi mesi di vita e non termina mai, è frutto di acquisizione permanente.

Pinocchio infatti, è animato dalle migliori buone intenzioni, ma la difficoltà risiede proprio nel portare avanti queste intenzioni, soprattutto nel momento in cui si affaccia un teatrino, un divertimento, qualcosa di festoso che sarà passeggero e una volta perso, non se ne potrà più godere. Per cui, non si può dire che Pinocchio menta in modo sistematico, ma semplicemente che rappresenti un bambino con i suoi impulsi e desideri. La storia di Pinocchio poi, avendo una connotazione moralistica propria delle favole e/o delle storie, attribuisce estremo valore all’educazione, ci mostra un personaggio “burattino in preda alle pulsioni”, che si trasformerà in un bambino in carne ed ossa, solo e unicamente nel momento in cui riuscirà a portare avanti con costanza e dedizione, gli impegni presi.

Carlo Lorenzini, in arte Collodi, per primo, assumendo il nome del paese natio come identità letteraria, mostra nel concreto della sua vita, un’estrema dedizione e abnegazione alle regole sociali. Ciò che viene auspicato per Pinocchio e per tutti i “bravi bambini”.

M. Titze propone un visione molto articolata di questa sindrome, al di fuori della usuale attribuzione. Mette in primo piano il senso di vergogna dell’individuo rispetto a sé, che origina dal rapporto fra il bambino e genitori egocentrici. Questo genere di genitori cioè guarda unicamente ai propri bisogni e “impone” al figlio, attraverso una serie di modalità dirette, indirette, dure, morbide, manipolative, ecc., di aderire a questi bisogni, impedendo lo sviluppo della sua personalità e dei suoi bisogni, compresi quelli di socialità extrafamiliari. Si arriva quindi alla sindrome di Pinocchio, come espressione di una gelotofobia, dove il termine greco gelos rimanda a risata, per cui si tratta di individui spaventati fino ad esserne fobici, di essere derisi e ridicolizzati, temono cioè che si rida di loro, vivendo in costante vergogna ed imbarazzo di sé, qualunque cosa accada intorno.

Sembra un salto lungo, ma ciò che Titze ci vuol far intuire è che Pinocchio, è un burattino in mano a genitori egocentrici. Del resto, Geppetto lo costruisce per stemperare la sua solitudine, per avere finalmente delle soddisfazioni e per avere un bastone della vecchiaia, la fata da parte sua alterna in modo ambivalente due posizioni, un ruolo di “fata bambina” nelle vesti di sorellina, un ruolo di “fata madre” esigente e dura, una mamma che pretende molto e che lo deride del suo “naso menzognero”, che lo ricatta facendolo sentire responsabile del suo dolore e della sua morte. Alla fine pinocchio è spinto a fare sempre ciò che gli altri si aspettano da lui. E di figure che gli chiedono delle cose, ce ne sono tante (Geppetto, la fata, l’insegnante, Mangiafuoco, Lucignolo, il Gatto e la Volpe, ecc.), appunto è un burattino in mano al desiderio altrui. Ogni volta che segue il proprio desiderio si trova a subire forti sciagure, prima di tutte l’abbandono e la solitudine, in seconda battuta l’essere trasformato in un animale, rischiare la vita, incontrare lungo il percorso ogni genere di animale e disavventura, quale proiezioni delle angosciose paure infantili (serpente, pescecane, essere impiccato, bruciato, ecc.)

Per cui, consapevoli in modo più o meno conscio di non essere sé stessi, ma di essere solo “burattini”, vivono il terrore di essere smascherati e derisi, perdendo definitivamente il valore e la possibilità di sorridere e ridere. Si smarrisce, non solo una parte della propria individualità, ma anche uno strumento importante di alleggerimento e serenità con sé e con gli altri, la relazione vissuta con piacere e nel piacere della leggerezza e del gioco.

L’individuo che emerge quindi, assomiglia molto a quello che Gabbard (pp. 496-498) ha definito Narcisista ipervigile, una variante del disturbo narcisistico di personalità (come descritto nel DSM IV-TR), dove l’individuo è estremamente sensibile alla critica, vive costantemente sotto la luce della vergogna e dell’imbarazzo. Per evitarlo, si nasconde in ogni angolo del mondo, sperimentando uno stato di allerta continua, l’ambiente è sotto continua osservazione per poter captare elementi a cui adeguarsi, le aspettative a cui aderire, le linee guida dell’accettazione insomma.

All’interno di questo quadro, la bugia si inserisce come modalità costante di stare in relazione con sé e con il mondo, non si è mai sé stessi, ma si recita sempre un copione in base a cosa l’ambiente si aspetta, o meglio in base a ciò che l’individuo ritiene che l’ambiente si aspetti. La bugia quindi, non è in primo piano in sé e per sé, ma diventa un meccanismo di difesa permanente, una parte stessa degli usuali processi relazionali, la base della costruzione della personalità, pena il rifiuto e l’abbandono. La vera personalità (se mai ha avuto modo di svilupparsi) si nasconde sotto una maschera, imposta dalla sopravvivenza emotiva. Si è persa anche l’origine della bugia e della vergogna, vive un sottile senso di inadeguatezza, giustificato via via con varie circostanze esterne, ma nel fondo di sé sa, che non andrà mai bene, non farà mai abbastanza e non sa perché.

Il film Il talento di Mr Ripley, tratto dall’omonimo libro di Patricia Higsmith, ci mostra un esempio ricco ed esplicito di tale struttura. Il protagonista infatti, è un giovane americano, assoldato dal padre di un vecchio conoscente, per riportare il figlio in patria dall’Italia, dove risiede ormai da tempo con la fidanzata. Da mandante del padre, diventa velocemente complice del figlio e della fidanza, altrettanto velocemente si trasforma in assassino del figlio, partner eterosessuale ed omosessuale di soggetti incontrati via via nel percorso e così via, impersonando di volta in volta identità diverse, vite diverse, intenti diversi, fino ad uccidere e a rinunciare alla persona che veramente ama e alla vita forse, più conforme ai suoi desideri, unicamente per incapacità di seguire ciò che realmente gli appartiene e per la difficoltà a far fronte, a mettere insieme tutti i personaggi paralleli di sé stesso. Non c’è posto per lui, non c’è tempo, non c’è sintonia con sé, non c’è sintonia con l’altro.

Ma questo tipo di etichetta non riguarda certo il bambino, che non ha ancora strutturato la sua personalità, ma è ancora in fase di evoluzione. Non di meno, le basi per una struttura di personalità narcisistica, si fonda qui, fin dai primi mesi di vita. Ed è proprio per l’importanza del “qui”, che risulta essenziale l’attenzione alla bugia, al suo significato, ma soprattutto all’attribuzione di questa pericolosa etichetta.

Bugia è un atto considerato grave, vergognoso, da nascondere ed il bugiardo con essa, ne assume tutti i connotati. Il bugiardo è qualcuno che non va bene, è riprovevole, sporco, truffatore, inadatto, beffardo, amorale. Il bugiardo si deve vergognare perché mente e questa condotta è condannabile.

In realtà, come ci ha mostrato Titze, Pinocchio si vergogna non delle bugie ma di sé, di ciò che è, vive un costante senso di inadeguatezza e inconsistenza, proprio perché non è sé e pensa che ciò che è, debba essere nascosto perché inadeguato e non amabile. Le bugie diventano una necessità emotiva: si rischia la disgregazione.

E del resto, vivere in un mondo di menzogne è come stare in un inferno di cristallo, in una prigione senza vie d’uscite, come essere rinchiusi in un sarcofago, all’interno di una stanza segreta che nessuno mai troverà! Veramente angosciante! Nessuno sa chi siamo e mai lo saprà e noi stessi ormai, non conosciamo più qual è la strada del ritorno.

Pensiamo all’effetto che può avere tutto ciò su un bambino in crescita, che sta cercando una definizione di sé, una comprensione di sé! Sicuramente castrante, sicuramente delimitante e instradante. Gli si dice cosa noi crediamo che sia, cosa non deve essere e quale sarà la sua forza, non la sincerità ma la menzogna, perché altro non può fare! Erik Berne amava dire in modo chiaro che se si vuole creare una certa condotta, basta dargli l’etichetta contraria, ovvero se vogliamo un bambino dipendente dobbiamo dirgli che è un ribelle, attivando così forze contrapposte, conflitti e sensi di colpa, che portano proprio ad un legame indissolubile. Perché in realtà l’etichetta è contraria solo in apparenza, la ribellione infatti è un atto di grande dipendenza, l’individuo non agisce in base a ciò che sente, ma in base a ciò che è opposto all’indicazione genitoriale, quindi il punto di riferimento non è lui, ma loro! Non ciò che lui desidera, ma l’opposto di quanto loro vogliono, quindi pur sempre ciò che loro prescrivono o vietano.

Alla stessa stregua pensiamo che definire un bambino bugiardo e rimarcare le sue azioni come bugia, non porta certo a creare sincerità, ma bugia!

Lo stesso vale per l’adolescente, troppo spesso giudicato per la sua condotta esterna, per la ribellione continua, l’opposizione sfinente, il negativismo, il rifiuto, la confusione, l’incertezza, ecc. L’adolescente, più che mai sta cercando la definizione di sé, non solo come individuo, ma come individuo semi-adulto, come persona che deve fare delle scelte, prendere in mano la propria vita, occuparsi del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. E non è certo facile!

Per raggiungere la meta, è necessario agire e guardarsi allo specchio, osservare le reazioni del mondo, necessarie come informazioni di ritorno. Ecco perché l’aggressività e la sfida costituiscono una costante, perché mirano proprio ad elicitare delle risposte chiare, pertanto rassicuranti, che fungano da confini e linee guida.

Non sempre è facile, non sempre ha la forza di guerreggiare da mattina a sera, non sempre sente di dover procedere da solo, senza conferme, accudimento e coccole, tipiche del bambino. Non sempre, l’adolescente si sente così spavaldo da sfidare tutto e tutti, presentando sé come individuo “giusto”. Pertanto la bugia può rappresentare una sorta di alleggerimento momentaneo, una sorta di falso adeguamento alle aspettative. Un occasionale strumento di respiro emotivo, insomma. Ben diversa la condizione in cui, diventa un comportamento cronico, ma anche qui sarà importante comprendere le cause e le origini, perché ciò rappresenta una spia rispetto ad una situazione particolarmente conflittuale per lui, o la possibile espressione di una strutturazione di personalità, nella direzione su detta.

Nonostante la nostra confusione e disorientamento, paura e rabbia, più che a punizioni, ammonimenti ed etichette, dobbiamo ricorrere alla sospensione di giudizio, all’osservazione e alla comprensione.

Del resto siamo noi che ci facciamo confondere, dando potere all’altro (piccolo o grande che sia), tralasciando la fiducia in noi e nelle nostre sensazioni. Facciamo in modo che ciò che siamo, ciò che sentiamo, dipenda da ciò che dice l’altro, da ciò che pensa, ecc. In realtà, noi siamo ciò che siamo, qualunque verità o bugia l’altro ci propini.

La nostra condotta onesta porterà ad onestà e sincerità. Dove onestà significa essere e stare, significa fare i conti con noi stessi, con le nostre spinte, i desideri, i malumori, i conflitti, con ciò che ci proponiamo e ciò che emerge nell’atto effettivo. Onestà significa mettersi in discussione, almeno provarci, significa riconoscere di aver sbagliato, riconoscere la diversità e la libertà, che comporta il diritto di lasciar che tutto sia ciò che è, che i bambini siano ciò che sono e che gli adolescenti vadano per la loro strada!

L’onestà più grande che possiamo regalare loro, risiede nella possibilità di non vergognarsi mai di sé stessi!

Se insegniamo con la forza dell’amore e del legame, anziché con la forza del diritto, della prepotenza e della morale, la vergogna non troverà terreno fertile. Non ci sarà un giudizio con cui confrontarsi e da cui nascondersi, ma “verità di vita”.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

     Antony Minghella (2000, USA). Il talento di Mr. Ripley. Protagonisti: Matt Damon, Gwyneth Paltrow.  Dall’omonimo libro di P. Highsmith, Il talento di Mr. Ripley.

D’aloisio A. La bugia nel mondo dei bambini. Scoprire il “racconto” che occulta la verità. www.lascuolapossibile.it

Gabbard G.O.  (2007). Psichiatria psicodinamica. Quarta Edizione. Raffaello Cortina Editore.

Petter G. (1961). Lo sviluppo mentale nelle ricerche di Jean Piaget. Giunti, Firenze.

Piaget J. (1937). Il giudizio morale nel fanciullo. Giunti, Firenze.

Titze M. La vergogna e il “Complesso di Pinocchio. Rivista di Psicologia Individuale. Gen-Giug, 43, 15-29,1998.

 

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11 aprile 2011 1 11 /04 /aprile /2011 11:34

L’ESPERIENZA DEL DOLORE

Costantini Sabrina

 

 

“L’amore è un’attesa

e il dolore

la rottura improvvisa e imprevedibile

di questa attesa” (Nasio)

 

 

     Parlo “dell’esperienza del dolore”, perché “sentire dolore” è un’esperienza, un vissuto soggettivo che impernia ogni parte di noi, che difficilmente trova una descrizione e un senso.

     Non di meno, esperire dolore costituisce un’esperienza umana condivisa e condivisibile.

     Il dolore è una condizione emotiva estremamente intensa e irrazionale, che coinvolge la componente psichica e corporea.

     Ne sono una chiara espressione tutti quei modi di dire, che descrivendo l’emozione, richiamano il vissuto corporeo: “un dolore che trafigge il cuore, spezza il cuore, sconvolge la mente, un dolore che fa uscire di senno, che trapassa le membra, ecc.”

     Il dolore è un’esperienza totale e totalizzante, che da condizione psichica si riverbera su quella corporea, generando stanchezza, spossatezza, deperimento, astenia, amnesia, ecc.

     Non solo, qualsiasi dolore corporeo, coinvolge il dolore psichico, anzi la sua origine è di natura psichica. La realtà che viviamo infatti, non è quella materiale, bensì la rappresentazione che noi ce ne costruiamo. Ciò che determina il sentire e l’agire, non è dato da quanto realmente succede, ma da ciò che pensiamo stia succedendo e dal perché riteniamo, stia succedendo.

     La qualità del nostro vivere è determinata da ciò che vediamo e rappresentiamo, di noi stessi e del mondo.

     Una qualsiasi “ferita organica” quindi, richiama l’immagine che ci siamo costruiti del nostro corpo, con le sue potenzialità, risorse, limiti, le convinzioni circa la sanità e la malattia. In altri termini, si sovrappongono una serie di fotogrammi, costituiti dalla rappresentazione del corpo integro, del corpo sano, del corpo ideale, del corpo malato, della ferita o lesione.

     Il dolore organico inoltre, è una sofferenza limitata e confinata ad una specifica parte. La mobilizzazione psichica ed emotiva invece, è molto più diffusa, generalizzata ed intensa, quindi difficilmente delimitabile.

     L’attenzione e l’iperinvestimento sul corpo leso, produce da parte dell’Io, non una riduzione bensì un incremento del vissuto di dolore, che risulterà ancora più intenso di quello organico.

     Il vissuto è sostanzialmente di perdita d’integrità, sanità, benessere. Il corpo non è più compatto e unico, con sé stesso. “Il corpo ci tradisce”, esce dal nostro controllo.

     L’orientamento primario della vita, è costituito essenzialmente dalla ricerca di piacere, unita all’evitamento del dolore. Quest’ultimo infatti, viene vissuto come una minaccia all’integrità dell’organismo (Lowen). Come se fosse predittore di una situazione pericolosa e nociva, da cui l’Io cerca di proteggerci.

     Il dolore, risulta anche una minaccia all’integrità psichica, come tale può essere visto come il segno del presentarsi di una “prova”. Ci mostra che siamo in procinto di varcare una soglia, di affrontare una prova decisiva. La prova di una separazione, da un “oggetto” che, lasciandoci improvvisamente e definitivamente, ci scombina l’equilibrio interno ed esterno e ci costringe a ricostruirci.

     L’”oggetto” può essere un umano a cui siamo legati e la cui separazione è determinata da chiusura di una relazione, abbandono, rifiuto, o morte. Può anche essere una parte del nostro corpo, il corpo nel suo intero (pensiamo alle malattie, lesioni organiche, amputazioni), uno o più oggetti del mondo materiale, quali la distruzione della casa dopo una calamità, la perdita d’oggetti significativi, ecc.

     In ciascuno di questi casi, in gradi diversi si verifica un’intensa esperienza di dolore. Tutti legati all’amputazione di un “oggetto amato”, così importante da regolare l’armonia, dell’attività psichica.

     La perdita improvvisa della persona amata, come parte integrante e strutturante della quotidianità, ma soprattutto delle relazioni oggettuali esterne ed interne, lascia un vuoto privo di senso. Ne consegue sconforto, confusione, smarrimento. Come se la persona, non avesse più chiaro dove collocarsi, qual è il suo posto nel mondo ed il senso della sua esistenza.

     Si è spezzato bruscamente il legame con l’altro, che attribuiva un significato, riempiva il bisogno relazionale, l’amore mancato, la conferma. Un pilastro fondamentale della stabilità.

     La persona si sente sperduta, come se avesse smarrito una parte di sé. Il suo mondo interno, ne risulta amputato.

     Il dolore diventa una costante emotiva, una sorta di tunnel scuro, dove non c’è visibilità, non c’è possibilità di differenziare e scorgere alcunché, se non l’oscurità stessa. Oscurità, nero, che all’inverso rimanda al bianco, condizione costellata d’assenza e vuoto, fino ad includere depressione bianca (Green). Non si sa da che parte andare e non si sa, se ha ancora senso andare.

     In effetti il bianco e il nero, rappresentano i due movimenti difensivi che generano il dolore stesso (Nasio). Da una parte si riscontra il disinvestimento, ritiro dell’interesse e attenzione dalle usuali attività, progetti, relazioni. Un ritiro emotivo ed energetico dalla quotidianità abituale. Da cui il dolore da “deperimento”, da collassamento, svuotamento dell’Io. Non c’è più interesse per niente e per nessuno, neanche per sé stessi.

     Dall’altra si verifica un dolore cogente, dato da iperinvestimento della rappresentazione della persona amata (o di ciò che si è perso), una contrazione su un unico punto, esaurimento dell’Io, occupato unicamente ad amare chi non c’è più. Si succedono ripetutamente e incessantemente ricordi, frasi, silenzi e gesti.

     Si crea un ulteriore dolore, nella misura in cui tanto amore e tanta dedizione si scontra con la realtà della mancanza. Inoltre, tanto investimento su un’unica rappresentazione, contrasta con la desertificazione circostante, data dal disinvestimento delle altre rappresentazioni.

     La rabbia a cui si lega inesorabilmente, è altrettanto cieca, non ha una direzione né una fine. Diventa impotenza estrema, paralizzante. Non c’è un bersaglio contro cui rivolgerla, se non, insensatamente contro sé stessi e chi se n’è andato.

     Talvolta la rabbia, rischia di essere proiettata in un falso oggetto esterno, causa dell’accaduto. Proiezioni, che allontana da quanto sta realmente accadendo dentro di sé. La battaglia interna, viene spostata all’esterno, senza possibilità di soluzione alcuna.

     Non potendo riportare in vita chi se n’è andato, l’individuo ritira sé stesso dalla vita, per ricostruire la relazione perduta, attraverso il disinvestimento (morte di attenzione, concentrazione, vitalità, espansività, pensiero, emotività). Questo stato emotivo, sospeso fra la vita e la morte, rappresenta l’unico spazio possibile di relazione.

     Il grado di sofferenza, la qualità della perdita interna, il vissuto di “inconsolabilità”, differisce in base alla natura del legame e al tipo di nutrimento ricevuto. La perdita, svela in massimo grado, ciò che rappresentava la persona cara.

     Il lutto costituisce quindi un limite, una chiusura, una separazione ed una nuova apertura.

     Il limite oltre il quale non ci è dato di andare, perché la morte è un evento incontrollabile e incontenibile. La chiusura di una parte di sé, funzionante solo in relazione con l’altro. Chiusura di una serie di rappresentazioni di sé, che non sono più adeguate alla realtà. Rappresenta una prova di separazione dalla persona reale e dal ruolo assolto dalla stessa, nella costruzione del proprio equilibrio ed identità.

     Elaborare il lutto, significa trovare un senso, a tutto quel dolore incomprensibile e insensato. Ritrovare integrità, grazie al connubio fra il pensiero con le sue spiegazioni e il cuore con i suoi movimenti emotivi. Le rappresentazioni di sé quindi, si modificheranno e rinnoveranno.

     Come tale, una separazione conduce a nuova apertura. Impone alla persona di trovare su sé e in sé, quelle funzioni di sostegno, amore, riempimento, rassicurazione, fino ad allora rivestite da chi se n’è andato.

     Con la perdita della persona amata, si perde l’attesa. Cessa di esistere un tempo ed uno spazio di separazione e di successiva riunione con essa. L’apertura a sé, implica che l’attesa e la riunione diventi un filo conduttore di sé stessi, ciò che unisce le fasi vitali, le varie capacità, le mancanze, le relazioni, i cicli emotivi, con gli alti e i bassi, i rimproveri e le consolazioni.

     Ciò che sembra inevitabile e necessario nel mondo concreto, non lo è in quello interno. La separazione emotiva è il frutto di un percorso duro, difficile, che richiede molta forza e costanza. Infatti, nonostante il mondo reale rimandi all’assenza, il mondo interno sotto spinta del dolore, si ostina a voler tener presente e vivo. E’ un atto di grande coraggio e forza affermare a sé stessi “mi arrendo! Smetto di oppormi alla realtà”.

     L’accettazione dell’assenza reale e permanente dell’altro, rende possibile l’elaborazione del lutto e il graduale reinvestimento delle attività, relazioni e interessi, da cui era stata ritirata attenzione e vitalità.

     Se non si produce accettazione, persiste la condizione di dolore e assenza, fino ad arrivare nei casi estremi, a situazioni “dell’amato fantasma”, in analogia con il fenomeno “dell’arto fantasma”, “percezione impazzita”, volta a colmare la mancanza reale dell’altro, con una presenza allucinata percettivamente.

     Elaborare il lutto, comporta lasciar andare l’altro nelle dimensioni della perdita, arrendersi alla propria condizione di vita, contrapposta a quella di morte. Processo che, richiede un gesto di grande amore per sé stessi e per il mondo circostante, che rappresenta la vita. Arrendersi quindi a ciò che poteva essere e non è stato, alla mancanza di possibilità ulteriori, alle cose non dette, che cadranno nel silenzio.

     Quanto visto sulla perdita reale di una persona amata, è parimenti valido per ciò che concerne la perdita di altri tipi di oggetti: corpo sano, oggetti materiali, ecc.

     Pensiamo ad esempio alla perdita dell’integrità del corpo, com’è nel caso di una malattia che altera il normale equilibrio e le usuali potenzialità, introducendo dei limiti e la riduzione della funzionalità. Anche in questo caso, non c’è ritorno alla condizione precedente, pur nell’ipotesi migliore, di ripristino totale della funzione.

     La condizione di malattia infatti, ha messo alla prova, ha scardinato l’idea di integrità, l’immagine di “corpo sano”, “indistruttibile”. La nuova condizione d’equilibrio, include inevitabilmente l’esperienza di mancanza, di dolore, di un corpo che va incontro a deterioramento e malattia.

     Per non parlare delle situazioni in cui, non c’è possibilità di restitutio ad integrum dell’organo, funzione, ecc. Maggiormente si richiede una separazione dal corpo integro e ideale, per una ricostruzione e riorganizzazione della rappresentazione di sé, incluso il sé corporeo e le relative attività. E’ necessario ridurre l’investimento della parte malata, che comporta un deprimento della persona nella sua totalità, in direzione di un nuovo investimento in ogni parte di sé. Il processo di elaborazione del lutto, è anche in questo caso indispensabile e vitale e attraversa le stesse fasi prima descritte.

     Il tipo di reazione, il vissuto di dolore e perdita, dipendono dalla funzione attribuita al corpo intero, rispetto al vissuto di identità e valore. Quanto cioè, il senso di identità stabile e articolato, dipenda dall’immagine del corpo “integro” e “perfetto”.

     Il dolore quindi, con i suoi processi (disinvestimento-iperinvestimento) è un fenomeno naturale e sano. Il grado di tale processo e la durata dipendono dalla strutturazione sottostante, dal tipo di organizzazione mentale-emotivo-relazionale. Ovvero, dal tipo di ruolo e dalla funzione nella dinamica interna, assolta dall’oggetto perduto.

     Nel caso di persone con una “ferita di non amore” (Schellembaum) profonda e cronica, la perdita di un caro, scardina in modo più consistente e disorientante l’equilibrio. Perché riapre una ferita profonda e originaria, che ha connotato le relazioni importanti di “bisogno vitale”. La perdita quindi, lascia totalmente inermi.

     Nello stesso modo, la perdita di sanità, di integrità del corpo o di un oggetto importante e simbolico come la casa, costituisce una condizione altamente traumatica, per chi possiede una ferita narcisistica significativa. Questi in effetti, si avvale di elementi esterni per colmare la mancanza interna e i diritti lesi nell’infanzia, che pertanto assumono valore irriducibile.

     Di fondo e comune a tutte le persone, rimane il significato sottostante quest’esperienza. Il dolore e il lutto, costituiscono una rinnovata occasione per comprendere le proprie ferite e poterle lenire.

     La perdita è una “disgrazia”, ma nello stesso tempo fonte di comprensione e crescita, quindi prerequisito per una nuova condizione di “grazia”.

     E’ come se il dolore creasse uno squarcio, uno strappo nel mondo interno, che nello stesso tempo, rappresenta una nuova via, un’apertura alla ricostruzione di sé.

     Inconcepibilmente ma inevitabilmente, l’esperienza del dolore diventa contemporaneamente, fonte di tormento e grande ricchezza.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

     Freud S. Lutto e malinconia. In Metapsicologia (1915), in Opere, vol. VIII, 1976, pp. 103-105, 115, 117-118. Boringhieri.

     Green A. (1985). Narcisismo di vita narcisismo di morte. Borla.

     Lowen A. (1983). Bionergetica. Feltrinelli.

     Nasio J.D. (2005). Il libro del dolore e dell’amore. Edizioni Magi.

     Schellembaum P. (1991). La ferita dei non amati. Red Edizioni.

 

 

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6 aprile 2011 3 06 /04 /aprile /2011 07:37

Narciso …….

La Bella e La Bestia

 

Di Sabrina Costantini

 

 

 

     Il termine “narcisismo” ci rimanda immediatamente al concetto d’immagine, visibilità, esteriorità vacua, egocentrismo, lotta per il potere. Andando più a fondo però vediamo che, questa condizione sottende una profonda solitudine, perdita del sé, confusione, scollegamento dalla realtà materiale e psichica.

     “Narcisismo”, descrive sia una condizione psicologica che culturale (Lowen, 1985, 9-11, Gabbard, 1995, p. 468).

     Nel primo caso, si tratta di un disturbo della personalità, contraddistinto da un esagerato investimento nella propria immagine a spese del sé, negazione d’ogni sentimento che contraddice l’immagine e rende vulnerabili.

     In termini più squisitamente bionergetici, quest’individui mancano del senso di sé, che deriva dai sentimenti del corpo e del sentire. Si osserva uno stato d’irrealtà, ovvero la persona non è in contatto con la realtà del suo essere, del corpo e dei suoi sentimenti, ma solo con un mondo “concettuale” e “ideativo”, puro frutto della mente. In questa condizione, non ci sono confini o limiti a ciò che si vuole e si può fare, né fra sé e gli altri.

     A livello culturale il narcisismo si esprime con una perdita di valori: si tratta di una società che, disinteressandosi alle esigenze umane, sacrifica l’ambiente naturale, al profitto e al potere. Una società, che si struttura in modo distante e anacronistico, rispetto alle esigenze profonde di chi realmente la abita e la costruisce. Una cultura quindi, che è contro sé stessa, distruttiva e distruttrice. Tesa nel continuo sforzo di superare a sua volta, ogni tipo di limite, al di là d’ogni ragionevolezza: biologico, tecnologico, culturale, sociale, ecc.

     La relazione fra i due termini, è ovviamente biunivoca. L’individuo modella la cultura secondo la propria immagine e viene a sua volta, influenzato e modellato dalla cultura stessa. Questa caratteristica, l’essere ben adattato al contesto d’appartenenza, spiega il motivo per cui, il narcisismo non viene definito“follia”. In verità, uomo e cultura risultano congruenti, solo perché entrambe sono distanti, dal proprio sé più profondo.

     Ma andiamo all’origine: il mito di Narciso.

     La mitologia greca ci racconta che Narciso, era un giovane bello e lucente. Di lui, s’innamorò la ninfa Eco, che, avendo scatenato l’ira di Era ed essendo punita con la proibizione della parola, poteva solo produrre l’”eco” delle ultime parole altrui.

     Impossibilitata da questa condizione, ad esprimere il proprio amore e respinta da Narciso, Eco morì di crepacuore.

     Narciso fu punito dagli dei, per la sua durezza: si sarebbe innamorato della propria immagine. Del resto, in precedenza Tiresia aveva predetto che il giovane sarebbe morto, nel momento in cui si fosse visto. E così fu, dal momento in cui scorse la propria immagine riflessa ad una fonte, se ne innamorò e non volle più staccarsene, sino a morire di languore e a trasformarsi in un narciso, fiore che vive nei pressi delle fonti.

     Innamorarsi della propria immagine, nel racconto mitologico, viene presentato come punizione per l’incapacità di amare. La ninfa Eco infatti, potrebbe rappresentare la nostra voce che torna indietro: l’eco appunto. Se Narciso avesse detto “ti amo”, Eco avrebbe rievocato quelle parole e lui si sarebbe sentito amato. Il mito dunque esprime proprio il ritiro della libido dal mondo esterno, a favore del proprio io, della parte più esterna e controllata di sé: l’immagine.

     Respingendo Eco, Narciso ha respinto anche la propria voce, quindi sé stesso (Lowen, 1985, pp.33-34; 1983, pp. 238-242). Il termine personalità, da cui persona, può essere riferito sia alla maschera che l’attore portava in scena nell’antica grecia, sia seguendo l’altra radice etimologica, al senso di “Per-sona”, ovvero “attraverso il suono”. Lowen infatti, considera la voce come una forma di espressione profonda della personalità, insieme alla parte più esterna, l’immagine, che può risultare più o meno congruente col sentire.

     Rifiutare quindi la propria voce riflessa, appare come ripudio delle parti più profonde di sé, a favore di quelle più esterne. Forse è per questo che la predizione di Tiresia, citava il vedersi come mortale. Nel momento in cui Narciso si è visto, è come se avesse dato maggiore peso alla maschera, a ciò che è esterno e superficiale, all’immagine, a sfavore di ciò che si esprime attraverso il suono, il vibrare dell’aria dall’interno all’esterno, il sentire più profondo.

     Emozione del resto, dal latino e-movere, rimanda al “venir fuori”. E, prima di tutto le emozioni si “tradiscono” con la voce.

     Narciso continua a guardare la propria immagine, rimanendone imprigionato, come se fosse incapace di rivolgere il proprio sguardo e la propria attenzione ad un altro diverso da sé. C’è un solo altro: sé stesso, nei termini della propria immagine riflessa. Il fiore in cui si trasforma del resto, rappresenta la bellezza diventata inanimata, qualcosa da ammirare, ma cristallizzata nella propria natura: la morte dell’anima.

     Come Narciso, Dorian Gray (dall’omonimo romanzo di Oscar Wilde) era un giovane di estrema bellezza, che adulato ad arte da Lord Henry, decise di preservare la propria esteriorità, non permettendo a nessun sentimento, di disturbare la tranquillità della sua mente e la perfezione del suo corpo. Pregò ardentemente che il suo ritratto, creato da un famoso pittore in onore della sua bellezza, invecchiasse al posto suo. Le sue preghiere furono esaudite.

     Dorian viveva in assenza di emozioni, secondo la propria esteriorità, quindi sempre alla ricerca di sensazioni che gli ravvivassero la vita, attraverso nuove esperienze, la seduzione, l’adorazione di donne e giovani ammiratori. Si lasciava ammirare, adulare, per i propri scopi e bisogni, distruggendo gli altri, senza rimorso o dispiacere.

     Nel frattempo, la tela esprimeva un’immagine invecchiata, contorta e tormentata da sentimenti e rimorsi. Vedendola dopo tanti anni con tutto ciò che rappresentava, il giovane non resisté e la squarciò furiosamente con un coltello. Il giorno successivo un servo lo trovò riverso a terra, accoltellato, con un corpo vecchio e tormentato.

     Anche questo personaggio come Narciso, evidenzia la scelta dell’immagine a discapito dell’essere e del sentire. L’adorazione del personaggio, dell’esteriorità, coltivata e curata all’eccesso, a costo di “vendersi l’anima”. Dorian esprime chiaramente la negazione dei sentimenti e la scissione all’interno della personalità, fra una parte più esterna, superficiale, potente, controllata (espressa dalla maschera) e una più profonda, non controllabile, legata al sentire e ai suoi affetti (il ritratto).

     Vediamo inoltre, il ruolo della seduzione. All’inizio Dorian né è vittima ad opera di Lord Henry, in seguito ne è fautore, nei confronti di ignare vittime.

     Questi aspetti descrivono argutamente alcuni elementi esterni, tipici del narcisista: la sua affabilità, la capacità dialettica, le maniere garbate, adulatrici, contornate da un’immagine scintillante, giovane e giovanile, piacevole e attraente. Non si dimentichi infatti, il ruolo che vestiti, trucco, dieta, palestra, ecc., mostrano sempre più.

     Ma chi è il narcisista? E’ un individuo che presta attenzione quasi esclusivamente a sé, a scapito degli altri, alla propria immagine, a scapito della parte profonda.
Persegue i propri scopi, indipendentemente da quello che può capitare a lui e a chi gli sta intorno, si mostra indifferente alle emozioni, vissute come scomode e ingombranti, non sa dire "ti amo", né agli altri né a sé, per cui gestisce le relazioni solo come ambito d’uso e abuso. Gli altri sono importanti, unicamente perché specchio della propria immagine.

     Visto in questi termini, il narcisista appare come un vero e proprio mostro, ma questa è solo la facciata del disturbo, quello che ci sta sotto è un mondo di sofferenza e abuso infantile. Il narcisista infatti, ama e coltiva la propria immagine, sconnessa col sé reale, col corpo e il sentire vibrante, da cui un senso di sé estremamente debole e fragile.

     Il narcisista seduce gli altri perché ne ha bisogno per nutrire un’immagine, che si regge sul vuoto e l’inconsistente. A suo tempo, lui stesso è stato sedotto per diventare ciò che è: l’immagine desiderata da qualcun altro.

     E’ come se quest’individuo, possedesse una splendida auto (corpo-sé), che lascia guidare ad un altro, dalla posizione di passeggero. Mantiene l’illusione di averne il controllo, ma in realtà il lato conducente è vuoto e il passeggero appare fondamentale per condurla e guidarla.

     E’ un gioco di specchi e di rimandi illusori, carico di sofferenze da entrambe le parti.

     Sebbene Winnicott (in Greenberg e Mitchell, 1986, pp. 191-203) non abbia parlato di narcisismo, ci ha fornito il concetto di “falso sé”, che si adatta perfettamente a spiegare, ciò che succede in questo disturbo.

     Il falso sé, nasconde e protegge il vero sé, l’insieme delle capacità, risorse, ciò che raccoglie la realtà psichica e corporea, producendo la consapevolezza dell’essere vivi. Il falso sé si forma sulla base delle pressioni ambientali, ovvero il bambino non si sente libero di far emergere quelle che sono le sue naturali disposizioni, ma costruisce di sé, l’immagine che gli altri si aspettano.

     Vari autori (Kohut, Kernberg, Lowen) descrivono un’altra caratteristica tipica: l’“onnipotenza”, un senso grandioso di importanza, il sentirsi speciali su vari fronti, fantasie di successo illimitato (amore, relazioni sociali, denaro, fascino, ecc.). In effetti, quest’onnipotenza è proprio la risultante dell’eccessiva importanza dell’immagine, sconnessa da quelle che sono le reali capacità, quindi dalla realtà.

     Questa convinzione del resto, viene alimentata e sostenuta da una cultura dove tutto è possibile. A qualunque individuo viene facilmente fornita la possibilità, di possedere oggetti di ogni sorta (vestiti firmati, cellulari, PC, auto, case, ecc.), di viaggiare in qualunque paese del mondo, di ottenere agevolmente formazione e informazione, ecc. Tutto nella negazione, di qualsivoglia limite. Con questo, osserviamo ancora una volta, la relazione biunivoca fra intrapsichico e interpersonale, individuale e culturale.

     Lowen (1985, pp. 21-23) sostiene l’influenza di due tipi di traumi ripetuti sul bambino, ciò che viene fatto e ciò che viene tralasciato. Spesso l’individualità del bambino non viene vista né riconosciuta, da cui l’assenza di affetto e appoggio adeguato. Possono inoltre, verificarsi processi relazionali distorti quali la seduzione, che riveste l’obiettivo implicito di far corrispondere i figli, all’immagine che i genitori se ne sono fatti. E’ proprio la seduzione ciò che causa il disturbo narcisistico vero e proprio, che struttura la relazione genitori-figli su un’istanza di potere innaturale. Queste dinamiche costituiscono una formazione caratteriale stabile, con relativa struttura Sé-Io, dinamiche comportamentali, struttura corporea (muscolare, ossea, posturale, espressiva, ecc.).

     Lowen (1985, pp. 93-111) fornisce un’ipotesi dettagliata sui processi che intervengono fin dall’infanzia, per la costruzione di un’immagine grandiosa. Il percorso comprende: senso di impotenza, umiliazione e rifiuto, seduzione.

     In questi contesti, la relazione coniugale è conflittuale e svalutante, una vera lotta per il “potere” (in senso economico, decisionale, relazionale, sessuale, ecc.). I figli, spesso vissuti come di troppo, di intralcio, richiedenti, sono soggetti ad una risposta emotiva di umiliazione e rifiuto.

     Il bambino vive l’impotenza più estrema, dettata prima di tutto dalla condizione di essere un bambino in un mondo di adulti, quindi con delle risorse limitate e impari; in secondo luogo, accresciuta da un conflitto che non lo riguarda, ma che non comprende e verso cui, vorrebbe poter far qualcosa. Si tratta di una non appropriata attenzione e amore, che lo fanno sentire rifiutato e inadeguato, con l’aggiunta di un carico familiare conflittuale.

     L’esercizio di potere espresso dai due genitori, si estende sul bambino. Questi vive umiliazione e impotenza, prodotte dall’impossibilità di fare qualcosa, da una condizione bloccante, in quanto disorientante e shoccante, perché senza senso.

     Soprattutto nei primi anni di vita, in cui le esigenze dell’infante sono maggiori, si riscontra trascuratezza e rifiuto. Con l’acquisizione di una maggiore autonomia e decisività (3-5 anni) invece, il bambino diventa oggetto privilegiato di attenzione, in quanto possibile alleato di uno dei due genitori. Da cui la seduzione e la manipolazione, per indurlo a modellarsi al volere e all’immagine del genitore rifiutante, con la promessa di assumere il ruolo di persona speciale e unica, di prendere il posto dell’altro coniuge. Tale promessa risulta oltremodo allettante, per il bambino, che è stato precedentemente rifiutato e denigrato.

     La seduzione successiva, comporta uno sviamento da sé, a favore di un’altra direzione, attraverso la falsa promessa di “unicità”. Il “Patto segreto”, comporta la sottomissione del bambino per ottenere il “dono di eternità”, del posto unico e speciale. Contemporaneamente si scatena risentimento e rifiuto, da parte dell’altro genitore.

     Da qui, l’illusione di essere unico, speciale, coltivazione sfrenata di un’immagine che non corrisponde al vero sentire e ai bisogni dell’individuo, ma alla proiezione del desiderio genitoriale, condizione irrealistica e imposta psicologicamente, col ricatto dell’amore.

     Non ci può essere spazio per sé stessi, per le emozioni, per i bisogni, per le relazioni autentiche, che metterebbero a nudo quel nucleo centrale dell’individuo, che è stato umiliato, rifiutato e vituperato. Il vero sé non va bene, non è accettabile, non è amabile, deve essere sostituito con ciò che gli altri si aspettano, ad un livello di prestazione, comportamento, attività, desiderabili.

     L’effetto secondario, ma non di secondaria importanza, è la produzione di una persona sola e devastantemente isolata, un narciso ai bordi delle fonti, quale condizione intrinseca, di chi si vive come speciale.

     Colpisce inoltre, la profonda analogia con le dinamiche relazionali riscontrate dai pazienti distimici (disturbi dell’umore con una struttura di tipo nevrotica) (Linares, Campo, 2003, pp. 20-25). Anche in questo caso i bambini, futuri distimici, sono soggetti a manipolazione e triangolazione genitoriale.

     Si tratta di una relazione coniugale conflittuale, che va a riversarsi su quella genitoriale, per altro buona. I coniugi in conflitto cioè, cercano di avere dalla loro parte i figli, alleandoseli con meccanismi di manipolazione, triangolazione, rapporto esclusivo. Lo schieramento da una parte, produce conseguente perdita dell’amore e dell’interesse, dell’altro genitore.

     C’è da chiedersi cosa determina, in questo caso un futuro da distimici e nei casi descritti in precedenza, un futuro da narcisisti. La stessa manipolazione, sembra produrre due effetti diversi.

     Innanzitutto, nel caso dei distimici, nonostante la triangolazione, la genitorialità garantisce la soddisfazione dei bisogni fondamentali del bambino (Linares, Campo, 2003, p. 81). E’ vero che il bambino si adegua alle aspettative altrui, per trovare soddisfazione dei propri bisogni, ma pur se a caro prezzo, alla fine i bisogni sono realmente soddisfatti.

     Nel caso di futuri narcisisti probabilmente, non si tratta di soddisfare soltanto le aspettative altrui, ma di rinunciare totalmente al vero sé, alla propria personalità e ai bisogni fondamentali. In questo caso non c’è buona coniugalità, tanto meno buona genitorialità. Il bambino non viene visto, ma soltanto usato per le esigenze dell’adulto. I suoi bisogni più profondi, non sono soddisfatti in alcun modo.

     Dando inoltre eccessiva importanza all’immagine, si riscontra anche uno scollamento dalla realtà assai maggiore e più francamente patologico. Il bambino futuro narcisista quindi, cresce più sconnesso dalla realtà concreta e dalla propria realtà, del corpo e dei bisogni.

     Inoltre, per il narcisista svalutazione e idealizzazione occorrono dallo stesso genitore, con un incremento di confusione e disorientamento. Per il distimico, è più facile che si verifichi una polarizzazione dei due meccanismi, sui due genitori. Il genitore appoggiato è elogiante, l’altro risulta rifiutante e svalutante.

     E’ interessante però notare come in entrambe i casi, siamo di fronte ad un disturbo che coinvolge la carenza di emozioni. Essere soggetti a manipolazione in effetti, richiede di mettere da parte le proprie esigenze e la propria realtà emotiva, a favore delle richieste altrui, creando un’estraneità con una parte importante del proprio mondo interno. Nel caso del distimico, si riscontra una “dis- timia”, ovvero una perdita dell’emotività, una riduzione di vitalità del mondo interno, che ne risulta appiattito, in quanto incongruente con l’adesione alle aspettative altrui. Nel caso del narcisista invece, le emozioni sono presenti ma si verifica, un loro rifiuto e negazione, sono ritenute pericolose perché contattano con i bisogni e le possibili fragilità, terreno di eventuale manipolazione e abuso altrui.

     Vari autori (Lowen, Gabbard) inoltre, parlano di un continuum dei disturbi narcisistici, che va da quello più equilibrato e adattato a quello maggiormente disturbato e disadattato, con una disconnessione maggiore dalla realtà. Ciascuna forma di narcisismo, si inserisce all’interno di questa scala, con caratteristiche e peculiarità proprie.

     E’ necessario anche distinguere, il narcisismo “sano” da quello “patologico”. In ciascuno è presente una buona dose di narcisismo sano, che costituisce la base per l’autostima, l’interesse e l’amore per sé, fondamentali per avere relazioni sane. La parte patologica invece, mostra un’elevata stima e attenzione su sé, in realtà investimento fatuo e volto solo all’immagine, carente di una reale autovalutazione sana e nutriente.

     Mi sembra plausibile pensare che, la gran parte delle persone con disturbi più o meno lievi, racchiudano una porzione più o meno rilevante di narcisismo patologico, che poi rappresenta ciò che ostacola la terapia stessa, ciò che resiste al trattamento e al cambiamento.

     Questo nucleo potrebbe essere descritto come l’esagerata convinzione della propria perfezione, di essere “nel giusto”, da cui una mancata necessità di cambiamento. Si riscontra inoltre la pretesa che l’altro soddisfi pienamente le proprie esigenze, l’aspettativa onnipotente che il terapeuta rispecchi pienamente il proprio ideale di sé e di oggetto (dell’altro). Come tale, tende a considerare e trattare gli altri come oggetti in modo strumentale, pronti all’uso e “abuso”, sulla base delle proprie necessità.

     In un processo relazionale, è inevitabile la disillusione, ovvero la realizzazione che l’altro non corrisponde alla versione idealizzata del proprio sé proiettato, da cui la frustrazione della fantasia di rispecchiamento perfetto (Gabbard, 2003, pp. 48-49).

     La reazione quindi si incentra in uno dei due estremi, si va dal riconoscimento dell’origine intrapsichica delle aspettative, che permetterà un successivo lavoro su quanto è avvenuto, al mancato riconoscimento del “come se” della relazione attuale, da cui la convinzione che il vissuto provato riguarda l’altro, della relazione attuale, non quella del passato (Gabbard, 2003, pp. 54-55).

     Si tratta di quella parte che è legata all’immagine di sé, fornita non dai bisogni interni, ma piuttosto dall’esterno, dalle aspettative. Come tale protegge una parte di sé nascosta, vergognosa e bistrattata, che si teme venga annientata definitivamente o che rappresenti oggetto di rappresaglie e detrimento totale.

     Potremmo forse concludere che in ciascuno esiste un nucleo narcisistico sano e uno patologico, che interagiscono fra loro e con le altre componenti di personalità, che raggiungono un equilibrio più o meno favorevole al versante costruttivo e sano, o a quello disadattivo e sofferente.

     Quanto più l’equilibrio si sposta sul versante sano, tanto più la persona si rende conto che ciò di cui necessita e si aspetta idealmente, rappresenta una realtà fondamentale e adeguata a sé stesso da bambino. Per cui, l’aspettativa attuale di ritrovare da adulto, quello stato con il terapeuta o altre figure è comprensibile ma, allo stesso tempo, irrealistico e pretenzioso. Quanto più si allontana dal versante sano, quanto più resterà viva la pretesa di recuperare, ciò che è stato perso là e allora.

     Nel pensare all’evoluzione della relazione con il narcisista, mi sembra esplicativa una fiaba, presente in molte versioni e culture: La Bella e la Bestia.

     Questa, narra di una fanciulla “Bella” che, per salvare suo padre si trova a vivere  in un castello con la Bestia.

     La Bestia è un bel principe che, secondo una delle versioni, è stato punito con un incantesimo da una fata (qui si trova l’analogia con Narciso), per aver sedotto una giovane innocente. Finché non troverà chi lo amerà per le sue qualità interne, le sue sembianze rimarranno animalesche.

     La Bestia altri non è, se non un “principe” dell’immagine e della seduzione, mago delle proprie arti con inganno, a proprio piacimento. La fata (ovvero la madre buona), gli indica attraverso la punizione, la strada del cambiamento e della guarigione: imparare a guardarsi dentro, a valorizzare le qualità interne e a prendersi cura di qualcun altro. Vedersi, amarsi e farsi amare!

     Bella del resto, rappresenta una vittima ideale del narcisista, è la figlia devota del padre, che sacrifica sé per salvarlo dalla morte. Lei stessa nel castello, ha la possibilità di crescere in una relazione dove imparerà a ricevere e a mettere al primo posto sé stessa e ciò che più le sta a cuore, a discapito degli affetti e del destino familiare, incompatibili con i propri.

     I due personaggi della fiaba, rappresentano l’uno l’ombra dell’altro. Bella richiama con la sua bellezza, ciò che il principe ha pagato con l’incantesimo, cioè l’attraenza esterna, la Bestia le parti animalesche, brutali e “vergognose”, “i fantasmi nell’armadio”, che la fanciulla teme di non poter affrontare.

     Lei esplicita ciò che lui è stato e lui ciò che lei corre il rischio di diventare, se usa giovinezza e bellezza, come arma di potere.

     La coppia simboleggia i due aspetti del narcisismo: l’esteriorità scintillante e la violenza brutale, il vero sé e il falso sé, l’esplicito e l’implicito, il giorno e la notte. Del resto Narciso è splendido e bestiale nello stesso tempo e Dorian Gray, se riunito nelle sue parti, appare imperturbabile nel tempo, ma anche vecchio e tormentato.

     Solo quando l’interno riceve amore, al di là di ogni apparenza animalesca, può verificarsi equilibrio e bellezza, fra interno ed esterno, forma e contenuto, fra corpo e mente.

     La fiaba, mostra l’ideale evoluzione di un rapporto con il narcisista, di natura amorosa, amicale, terapeutica, o altro. Perché si stabilisca una relazione di scambio, è necessario che il narcisista sia disposto a rischiare, proiettandosi all’interno e mettendo sé “nelle mani di qualcun altro”.

     Solo così, l’altro può vincere le distanze, scatenate dagli aspetti bestiali e violenti (seduzione, manipolazione, raggiro, abuso, aggressività, ecc.), vedere e amare, quanto ancora giace nel fondo dell’immagine.

     Non sempre però, le contingenze momentanee, interne ed esterne, che spingono a chiedere aiuto, durano così a lungo da far cambiare registro. E’ necessario essere disposti a guardare oltre l’impalcatura esterna, esattamente come il ritratto per Dorian Gray.

     Molto spesso, è più facile salire sulla vecchia giostra e riprendere il solito giro, all’insegna di relazioni perverse e strumentali.

 

 

Bibliografia

 

     Gabbard G.O. (1995). Psichiatria psicodinamica. Raffaello Cortina Editore.

     Gabbard O.G. (2003). Amore e odio nel setting analitico. Astrolabio.

     Greenberg J., Mitchell S.A. (1986). Le relazioni oggettuali nella teoria psicoanalitica. Il Mulino.

     Linares J.L., Campo C. (2003). Dietro le rispettabili apparenze. I disturbi depressivi nella prospettiva relazionale. Franco Angeli.

     Lowen A. (1983). Bioenergetica. Feltrinelli.

     Lowen A. (1985). Il narcisismo. L’identità rinnegata. Feltrinelli.

    

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28 marzo 2011 1 28 /03 /marzo /2011 08:55

Automobilista: non spari!

 

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

Quante volte ci è capitato, di incontrare sulla nostra strada, un’automobilista furioso, che impreca, sbraita, strombazza, offende, al punto da sembrare sul punto di perdere le staffe, fino ad arrivare alle mani. Sempre più persone, imbracciano il volante, circolando con questa modalità di guida e di relazione, sparando a destra e a manca.

Le strade dunque, sembrano tornate ad essere campi di battaglia, esattamente come succedeva secoli e secoli fa. Ed incontrare individui così furiosi, parabrezza a parabrezza, specchietto a specchietto, ci fa solo sperare e pregare che “non spari”: sentenze, parole, gesti o qualunque altra cosa si possa sputare addosso!

Se non bastasse, per quanto questa, sembri la descrizione perfetta di un automobilista uomo, in realtà non è proprio così. Sempre più donne, pari ai colleghi uomini, seguono questo modello di “guida aggressiva”. Sempre più membri del così detto “gentil sesso”, si accaniscono e incaniscono contro il primo mal capitato.

Questa condotta dunque, è sempre più frequente e generalizzata, al di là del sesso del guidatore, dell’età e della condizione socio-economica.

Si ha fretta, si deve correre, essere efficienti e veloci, non si tollerano lumache, dimenticanze, false manovre, imbranataggini e quant’altro può emergere nel corso del percorso, non si parli poi del dare la precedenza a chi in effetti non ce l’ha! E’ una gara a chi scatta più veloce al semaforo, chi si immette prima negli incroci, chi sorpassa più prontamente, ecc.

Quale sia il premio mi sfugge, ma non credo sia niente di buono. Eppure non se ne può fare a meno!

Non solo, vediamo sempre più spesso questi individui frenetici sulle nostre strade, ma sempre di più, anche nei nostri studi terapeutici. E’ interessante notare che questo comportamento, frequentemente emerge alla domanda: “Ma dove va a finire la sua rabbia?”. Allora, dopo vari “non so, non saprei, da nessuna parte, …..”, quasi per caso si fa riferimento alla propria intolleranza, al posto di guida.

Guarda caso, si tratta spesso di persone che nella vita di tutti giorni appaiono molto pacifiche, tranquille, educate, disponibili, sorridenti e accomodanti. Le ritroviamo ovunque, a svolgere vari tipi di lavoro e mansioni: in banca, a scuola, in ospedale, negli uffici, ecc. Per lo più, si tratta di persone efficienti e controllate. Ma poi, all’interno del proprio veicolo esplodono in una furia malsana, incontrollata, quasi “omicida”.

L’auto diventa una sorta di guscio protettivo, un ovetto, una casa a propria dimensione, che proprio in visione di ciò, permette il libero sfogo di tutto quel bagaglio emotivo, represso fino a quel momento.

Si tratta dello stesso meccanismo, in cui si verifica la violenza familiare. Persone, ineccepibili a livello sociale e lavorativo, educate, gentili e pacifiche, esplodono all’interno delle mura domestiche. E’ l’ambiente noto, “familiare”, che dà il permesso all’esplosione, di una rabbia ormai diventata incontenibile. In quest’ambiente accettante, ci si può permettere di essere sé stessi, senza temere il rifiuto o l’abbandono, senza temere di perdere la faccia.

L’auto parimenti, costituisce un luogo protetto, rispetto all’espressione ed esplosione, di quanto circola nel mondo interno. Parimenti, costituisce uno scudo protettivo rispetto all’esterno e rispetto a sé stessi, dove si ha il permesso di far uscire, di esplodere, senza che succeda realmente niente di catastrofico. In più, non sussiste il rischio, di subire ritorsioni o contro aggressioni dall’esterno.

Ma, cosa ci fa arrivare ad accumulare una tale rabbia, al punto da sentirla così pericolosa ed ingestibile? Cosa, le impedisce di emergere in un contesto “non protettivo”? E, quest’ovetto protegge dagli altri o da sé stessi?

Questa, come altre condotte, rappresenta una delle vie d’uscita ad un’emozione, che spesso viene repressa nella vita quotidiana. Si tratta per altro, di un comportamento che emerge quasi per caso, come se la persona lo vivesse in modo naturale, come se fosse adeguato. Sembra giusto, pretendere che sulla strada ci si attenga ad un codice, scritto e non, che ci si adegui ad una certa velocità, prontezza e capacità. Le frasi tipiche sono “Chi ti ha dato la patente?” “Se non sai guidare, stai a casa!” “Ti dovrebbero togliere la patente!”, ecc.

Spesso, non ci sfiora minimamente il dubbio, che sia la propria condotta a mancare di serenità e sanità. Esattamente, come accade per l’uso-abuso della TV, di internet, del cellulare, l’ingestione irregolare e inappropriata di cibo, l’abuso di sesso, palestra, farmaci, ecc.

Freud l’avrebbe inserite, nel capitolo “psicopatologia della vita quotidiana”.

In effetti, non si tratta di una vera e propria patologia, ma di una di quelle condotte quotidiane, che esprimono però un rapporto perverso, con sé stessi ed i propri equilibri psico-emotivi.

Chi dice che dobbiamo correre, essere perfetti, non indugiare, non sbagliare, essere svelti e non perdere tempo? E perché mai, tutto ciò ci risulta così intollerabile? Cosa trasferiamo in questa condotta e in tanta intolleranza?

Sicuramente emerge l’incapacità di stare, di stare fermi, di aspettare, di avere pazienza. Stare …………… Stare fermi ……………

Ma cosa comporta ciò? Comporta stare in relazione con sé, ascoltarsi, sentirsi, fondamentalmente. Rispettare le proprie esigenze.

Pensiamo al fatto che neanche l’influenza stagionale, riesce a fermaci. Continuiamo ad andare a lavoro, alle cene, ai vari impegni, tossendo, starnutendo, ecc. Andando avanti ad antiinfiammatori, antiinfluenzali, antidolorifici, astringenti, ecc.

In fin dei conti, le malattie e l’influenza prima fra queste, arriva proprio per fermarci, per isolarci dal nostro ambiente, ci obbliga, o meglio ci obbligherebbe a star fermi, a guardare delle cose di noi, che nel movimento quotidiano, non riusciamo a percepire. L’influenza, ci impone di isolarci dal nostro contesto abituale, di depurarci dagli stimoli circostanti, per riportarci a nudo con noi stessi.

Ma noi no, non riusciamo a fermarci e tiriamo avanti. Ci nascondiamo dietro mille scuse, dietro il fatto che la vita va avanti, i figli necessitano di certe cose, al lavoro non saprebbero come fare, la produzione si bloccherebbe, i colleghi si troverebbero nei guai e via dicendo. Di fatto non ci fermiamo e non ci ascoltiamo. Ci imbottiamo di farmaci e inghiottiamo bocconi amari.

Per incrementare la dose, ci imponiamo si essere al passo con la moda, di essere fisicamente piacevoli, in linea, ben vestiti, alla moda appunto, di conoscere le novità tecnologie, stare al passo coi tempi, essere aggiornati di tutto ciò che succede nel mondo della politica (con pettegolezzi annessi e connessi), della finanza con le sue previsioni per il futuro, di psicologia, di spettacoli, di teatro e musica (che non guasta mai nella conversazione) e poi giù con gli sport, la palestra e tutte le possibili forme di intrattenimento personale e familiare (prime fra tutte le feste di compleanno).

Poi, ci sono quegli impegni inderogabili quali il tenere i contatti su internet, SMS, ma soprattutto face book ora più che mai, rappresenta un elemento di importanza vitale, si devono mantenere i contatti con tutti, sapere cosa succede, andare subito a vedere le nuove e gli aggiornamenti dei nostri “amici”, ma soprattutto collezionare più contatti possibili, vecchi, nuovi, fittizi. Che importa? Importante è parlare, parlare, guardare, navigare…..

Importante è sapere, indagare, spiare, dedurre cosa fanno gli altri, in base ai loro contatti, alle foto, agli indizi. E’ un impegno serio!

Ma che fatica!!!

Francamente, io non so come facciano le persone a trovare l’energia, per stare anche su face book! Soprattutto, dopo aver già lavorato al PC, navigato su internet per motivi vari, giocato alla play station, smessaggiato, ecc. Io non so, come facciano a trovare il tempo, per tutto questo dopo aver lavorato, essersi occupati dei figli, delle questioni concrete (spesa, casa, banca, posta, inps, inail, ecc.), essersi relazionati con chi ci circonda, ecc.

Io non ce l’ho! Per trovarlo, dovrei sottrarlo ad aspetti troppo importanti della vita.

Non parliamo poi, del grande sforzo di essere sempre adeguati alla situazione, di frenare vere emozioni e frustrazioni. Si sorride, si scambiano esperienze, frasi di circostanza, si saluta, si abbraccia, si chiacchiera, si chiacchiera …

Ma, non si può certo pensare, di essere sempre disponibili e di avere sempre voglia di dare un ascolto, una parola gentile o un sorriso, a tutti coloro con cui entriamo più o meno in relazione.

Per non metterci poi, il mondo del lavoro. Chi osa oggi come oggi, lamentarsi delle ore di straordinario, della cassa integrazione, delle ferie forzate, dei diritti negati, delle ritorsioni, degli atteggiamenti offensivi? Chi osa mai, lamentarsi del proprio lavoro?

E’ già una gran fortuna, avere un lavoro! Non si può certo pensare di lamentarsene, tanto meno credere di poterlo cambiare. Non si può scegliere, ormai ad una certa età, le cose sono fatte! A dire il vero, ci si deve accontentare del primo posto che ti offrono, qualunque sia l’età e la professionalità.

Non si può più, coltivare i propri sogni! I sogni sono un lusso che nessuno più si può concedere, sono un ambito ormai lontano e sfuggente.

Infatti, questa astringenza ci impedisce di dedicarsi a noi stessi, alle nostre passioni, agli interessi, agli hobbies e ai nostri stessi figli. Quanti genitori, quante madri, sono costretti a lasciare i propri figli a baby sitter o nonni, anche nei momenti di maggiore bisogno, come durante le malattie infantili, per non doversi ritrovare in difficoltà con il datore di lavoro, con i colleghi, con la produzione, con i propri impegni economici, ecc. Arriviamo quindi, a sentirci in colpa anche del fatto di andare a lavorare. Non ci sentiamo bravi genitori e siamo totalmente frustrati.

Quali diritti ci rimangono?

Per i ragazzi, non va certo meglio. Pieni di impegni con la scuola, il doposcuola, le lezioni di musica, la danza, il karate, la palestra, la piscina, le lingue straniere e quant’altro ci può essere dentro. Poi, il fine settimana ci sono tutta una serie di feste di compleanni o appuntamenti vari (il carnevale, le gare dello sport prediletto, i saggi di musica, ecc.). Anche qua, non mancano gli appuntamenti giornalieri e serali con il PC, facebook, twitter, MSN, i vari giochi interattivi, gli sms ed i cellulari, la play station, la TV, i compiti e non so cosa potrebbe ancora entrarci. Ma di fatto, anche loro hanno una vita frenetica e super impegnata.

Certo che anche i nostri ragazzi, non hanno grande libertà. Quanto tempo hanno a disposizione e quanto riescono ad usufruire di uno spazio, libero da impegni?

E poi, che libertà hanno di imparare, che libertà hanno di scegliere la propria vita, gli studi e lo sbocco professionale? Quale libertà, è concessa loro? Che libertà hanno, di vivere?

Insomma, sta di fatto che quando ci ritroviamo in auto, si scatena l’ira funesta di tutto ciò che emerge, di quanto è stato sepolto nell’inconscio. Non a caso, sono proprio due gli atteggiamenti maggiormente evidenti nel “guidatore nevrotico”.

Da una parte, si riscontra la pretesa del rispetto serrato delle regole stradali e non si tollerano errori o sconfinamenti. Quest’insofferenza, rappresenta proprio la proiezione del proprio vissuto, dell’esperienza frustrante di tutti i giorni, in cui ci chiediamo un rispetto ferreo delle regole, il conseguimento di un ritmo forzato, pena lo sconfinamento e la rottura di un equilibrio assai precario.

Nella vita quotidiana cioè, accettiamo tutta una serie di compromessi che non ci vanno giù, che giustifichiamo e tolleriamo sulla base di una serie di premesse che facciamo a noi stessi. Nel momento in cui cominciamo a mettere in dubbio anche uno di questi elementi, si corre il serio rischio di far sgretolare il castello di carte creatoci e di dover fare i conti con una realtà che non ci piace affatto. Il rispetto delle regole quindi, ci impedisce di andare a vedere oltre e di scoperchiare le falle sottostanti.

Il costo emotivo di tutta questa costrizione, lo ritroviamo poi in auto, quando continuiamo ad essere ligi alle regole, non per rispetto della nostra e altrui vita, ma per proseguire con quest’atteggiamento di rigore, quasi obbligati inconsapevolmente, da una scelta adattiva inevitabile. E così, pretendiamo non solo da noi stessi, ma anche da gli altri un’osservanza rigida e indiscutibile. La trasgressione scatena una rabbia furibonda, perché va a scardinare un ordine che rischia di far innescare, la prima pedina del domino. Tutto andrebbe in pezzi, crollerebbe inesorabilmente.

Il secondo atteggiamento, consiste nel sentirsi mortalmente offesi. Nel momento in cui, un altro automobilista trasgredisce, ci sentiamo feriti in prima persona, come se stesse facendo un torto a noi, proprio a noi! Anche qua, in realtà l’altro paga la proiezione di un nostro vissuto. Ci sentiamo intimamente maltrattati e deprivati dal mondo, perché senza esserne consapevoli, non facciamo ciò che vorremmo e non lo facciamo come lo vorremmo, nei termini e nei modi che riteniamo più opportuni.

Per inciso, non a caso acquistiamo auto sempre più veloci, capienti, ma soprattutto auto più sicure e rassicuranti!

Ma non sapendo con chi e come ciò avviene, anzi non rendendoci neanche conto di quanto siamo frustrati e di cosa ci manca, siamo compressi come pentole a pressione e alla prima occasione siamo pronti ad esplodere, gettando in faccia agli altri, tutto il nostro risentimento ed il nostro senso di maltrattamento.

E’ un circolo vizioso, si è sempre più arrabbiati, frenetici ed esprimiamo questa frenesia, questa fretta, quest’aggressività in auto, incrementando la dose, sentendoci ancora più oppressi e pressati. D’altra parte, la trasgressione degli altri, ci fan arrabbiare ulteriormente, avvertendo un’irrispettosa inosservanza delle regole e un attacco personale, a noi specifici individui e indirettamente alla nostra scelta di vita.

Senza capire che troppo spesso, non si sono critiche personali, non ci vediamo neanche, ci ignoriamo l’un l’altro, siamo solo una serie di palline impazzite, che cozzano l’una contro l’altra, a causa di questo movimento inconsulto e perverso.

Non a caso, in auto durante la guida, spesso si aggiungono una serie di condotte attuate in modo quasi ossessivo e smodato, come fumare, telefonare, ascoltare musica, parlare da soli, ecc. Come se non bastasse, mettere in atto un azione per volta. Si fa e si strafà, ancora per mantenere in piedi un andamento che non si può fermare, pena la cesura con il ritmo stesso.

Grazie a questo, siamo sempre più attaccati ad oggetti e cose, a rituali, abitudini, come se avessimo bisogno di tutto ciò, per poter vivere, per essere felici, soddisfatti e sereni. Siamo pieni di oggetti di ogni tipo, di ogni tipo di confort immaginabile, di ogni forma di tecnologia e di comunicazione, ogni novità alimentare, ogni tipo di vitamina, sali, medicinali e quanto ancora l’industria riesce a mettere sul mercato. Siamo pieni ed oberati, di oggetti a più non posso! Acquistiamo e gettiamo via in continuazione e indiscriminatamente. Siamo Obesi di tutto e di più!

Giorni fa, mi sono imbattuta in considerazioni sullo smoking feticism e mi sono sorpresa, di quanto non ci sorprendiamo abbastanza. Sì, persino le perversioni hanno accresciuto enormemente gli oggetti di proiezione, della propria fissazione. Ne nascono sempre di nuove, particolari, articolate, abnormi. Del resto, in linea con l’andamento dei tempi.

E francamente mi sono detta che forse un professionista della salute, rischia di non stare dietro a tutte le nuove forme di patologia, che vengono fuori inaspettatamente, velocissimamente ma inevitabilmente.

Tutto ciò, per rimarcare che veramente l’andamento della nostra vita è veloce, troppo veloce, pieno di cose e poco rispettoso dei propri tempi e modi.

Non a caso, se guardiamo la forma delle influenze stagionali, comprendiamo anche il nostro stato emotivo ed il nostro bisogno.

Sempre più si delineano le forme stagionali gastro-intestinali, come a ricordarci che ne abbiamo abbastanza, che abbiamo la nausea di tutto questo, lo rifiutiamo sia da “sopra” che da “sotto”. Ermete Trismegisto saggiamente diceva “come sopra, così sotto”.

Rifiutiamo di digerire delle cose e le sputiamo violentemente, le vomitiamo all’esterno, perché intollerabili. Contemporaneamente da sotto, facciamo uscire tutta la “cacca”, gli escrementi presenti nel nostro corpo. Quest’influenza, sembra una forma di rifiuto, il tentativo di ripulirsi e di depurarsi di quanto ingoiamo a tutti i costi.

L’altra forma influenzale invece, riguarda principalmente le vie aeree ed è arrivata ai massimi livelli, creando sempre maggiori difficoltà respiratorie. Ci manca l’aria, i nostri polmoni sono irrigiditi, induriti e congestionati da “umori”, che non riescono ad uscire. Anche qua, si ha l’espressione di un ingorgo, di un inceppamento e del tentativo forzato di riprendere fiato, di respirare più liberamente, finalmente!

Non solo, pensate alla tosse, al suo significato aggressivo, rappresentato dallo sputar fuori forzatamente quegli umori che congestionano, dallo sputarli violentemente e irreprensibilmente in faccia agli altri!

Potremmo quindi dire, non solo “come sopra, così sotto”, ma anche “come dentro, così fuori”, per esprimere il parallelismo fra quanto succede dentro di noi (emozioni, conflitti, pensieri, ecc.) e fuori (inteso come corpo e le sue malattie, esternalizzazione di uno stato interno, ma anche come condotta esterna che si dispiega nel mondo, quale ad esempio la guida del nostro veicolo a quattro o due ruote).

Se cogliamo quindi, il messaggio che tutto ciò ci vuol trasmettere, partendo dalle malattie stagionali che tentano di fermarci (talvolta si arriva a patologie più strutturate e consistenti), continuando con tutta la serie di condotte “perverse”, che denunciano un equilibrio malsano, allora dovremmo rallentare un po’ e riflettere.

Prima di tutto, mi sembra che dovremmo smettere di sputare addosso agli altri la nostra rabbia repressa, dovremmo smettere di sparare insulti addosso agli automobilisti distratti, lenti o poco capaci, riappropriandoci della nostra aggressività e della nostra insoddisfazione. Questo è il primo passo per capire dove siamo, cosa siamo e cosa stiamo facendo e se tutto questo è realmente ciò che ci interessa, ciò che ci soddisfa, ciò che ci fa sentire bene sia a casa che nel mondo.

Forse, potremmo riprendere un po’ di genuina gentilezza verso noi stessi e gli altri, un po’ di attenzione e d’ascolto per ciò che ci capita, per ciò che ci circonda e per le persone a cui vogliamo bene, con cui intessiamo delle relazioni emotive. Stando, possiamo re-imparare il senso della pazienza, dell’attesa, dell’accettazione e dell’accoglimento.

Allora viaggiare, può riprendere il suo naturale significato, può assumere l’importante valore della mobilità e della crescita, non più una lotta fra pistoleri armati, disposti  a qualsiasi cosa per sopravvivere.

Non è vero che non ci sono alternative. C’è sempre una via d’uscita! Basta volerla trovare, basta pensare che non dobbiamo girare a tutti i costi con una giostra che non ci appartiene. Possiamo cominciare a stare, ad aspettare, a pazientare, a tollerare, ad accettare e a cambiare noi stessi, nella direzione che più ci aggrada.

Attacchiamo il nostro cartello “WANTED”, non per prendere la taglia di qualche trasgressore stradale, ma per cercare sé stessi, per “volere” sé stessi, ciò che siamo nel rispetto della nostra natura.

Fermiamoci e riprendiamo a desiderare, a sognare, a viaggiare …..

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25 febbraio 2011 5 25 /02 /febbraio /2011 12:19

Da Cuore a Creatività

Sabrina Costantini

 

 

 

 

Da cuore a creatività ………….

Da qualche anno si parla di intelligenza emotiva, intelligenza del cuore, ecc. (Greenspan, 1997).

     Si è compreso che l’intelligenza non è quella misurata dal QI, non è la capacità di risolvere quesiti logici e matematici, tanto meno esercizi di seriazione e insiemistica. L’intelligenza, non è la ragione.

     L’intelligenza è creatività, creazione. Si sviluppa e trova terreno fertile nella relazione: separazione, scambio, amore.

     Il bambino impara il linguaggio, un contenitore condivisibile che traduce il suo mondo interno, perché chi lo “nutre” gli fornisce le parole, per chiamare ciò che vive. Il bambino impara a camminare perché si vedono i suoi primi passi e lo si lascia provare: la caduta, l’arrampicata, la fatica di rialzarsi e poi di nuovo un passo, l’orientamento, l’equilibrio, l’entusiasmo e la sorpresa di un mondo che appare, non più così grande e inaccessibile. “Il mondo è la sua ostrica” (M. Mahler). Una scoperta meravigliosa, un’esplosione di gioia e forza!

     Il bambino vive e sente la propria identità perché chi lo ama, accoglie i suoi passi con paura, sorpresa, gioia, fiducia. Un mondo espressivo, espresso con immagini proprie e particolari, congruente con il proprio mondo affettivo.

     Con lo stesso nutrimento, il bambino capisce la realtà delle cose, produttrice di frustrazione. Capisce di poter tollerare la frustrazione e andare oltre, modificando la realtà interna: da frustrazione a spinta, sotto forma di desiderio, domanda, curiosità, ricerca, sperimentazione.

     Accompagnarlo nella crescita, nello sviluppo e nella scoperta comporta, non negare la realtà delle cose, non presentargli un mondo fantastico e una realtà umana onnipotente, che dissimula il terrore del dolore e della propria fragilità. Accompagnarlo significa vivere con lui, accanto a lui, consapevoli della sua capacità di sentire, intuire, amare, conoscere, tollerare.

     Ciò che ancora manca al bambino, è la consapevolezza della propria forza e della propria realtà interna. In questo, ha bisogno di sostegno e fiducia.

     Di fronte al suo sentire “un bambino viene ucciso” ogni volta in cui si nega questa realtà. Si produce negazione e annullamento, ogni attimo in cui si mette a tacere il suo dolore con un sorriso che vieta alle lacrime di scorrere fra grida e urla, che nega al contempo la realtà delle cose e dell’umano: “non è successo nulla ….. va tutto bene …… non stiamo litigando …… non c’è nulla di cui avere paura ……. il nonno non è morto ….”

     Il bambino è confuso, disorientato, è solo.

     Il mondo interno è deturpato della forza emotiva, fondamentale, perché fonte di conflitto, elaborazione e soluzione, quindi creazione.

     Ancora negazione quando, la risposta attraversa un piano parallelo e insensato, non appartiene né pertiene la domanda: una caramella per distogliere dalla paura, il lupo nero per impedire che la curiosità vada in cerca dei suoi frutti, l’anaffettività per impedire che le emozioni lo rendano fragile e lo mettano a nudo, di fronte al mondo.

     Negazione e annullamento che esalta il dovere, le regole, la ”sapienza inaccessibile degli adulti”, la mente, la ragione, il controllo e la frustrazione insensata. Offusca la sapienza del bambino, crea incertezza, un narcisismo fragile, mai sazio. In questo modo, crescerà un bambino con un corpo fantasma, terrorizzato dalle emozioni e dai sentiti del corpo, arato nei confini delle buone maniere e dell’educazione. Fantasia e desiderio saranno terre proibite.

     Chi sono questi genitori?

     Sono genitori che per amore si sentono in dovere di proteggerli, di disilludere le fantasie e aspirazioni, con lo scopo di anticiparli e prepararli ad un mondo “valle di lacrime”.

     Oppure all’inverso, tengono i figli il più lontano possibile da ogni sofferenza, per rimandare loro, l’impatto con la durezza della realtà.

      Si tratta di umani, terrorizzati da sé stessi, da ciò che può sbocciare in ogni parte del proprio sentire che non rientra in schemi, in cose da fare e raccontare.

     Come ben ha descritto Lowen (1982), la frustrazione precoce e ripetuta, blocca la richiesta del bisogno e di conseguenza congela il desiderio. In questo senso, la mancanza di un adeguato accompagnamento nel dolore e nel piacere, blocca la curiosità, la ricerca, la vitalità, il desiderio di capire e conoscere.

     Accompagnare significa amare nella completezza, vivere con- sé stessi e con l’altro, senza il bisogno di sapere già, di definire, di saper fare. Amare significa stare con, nella separazione e nella differenza.

     Ha inizio nella “casa materna”. La madre “sana” è consapevole che, il sangue del suo sangue è già separato e diverso: la nascita come atto ostetrico, ne è solo prodotto finale e dimostrativo. Il bambino è già separato e diverso, nel momento in cui origina. Il patrimonio genetico donato, non produce uguaglianza.

     Il bambino nasce con una sapienza propria, con un viaggio di trasformazione, vita e vitalità. Amarlo significa credere in questo, contraccambiando la sua fiducia di nutrimento, sapienza, sentito, fornendo un vocabolario relazionale e gli elementi espressivi della sua ricchezza. Mostrando una sapienza costruita nella ricerca, nel desiderio, nell’incertezza e nell’errore, lontana dall’onnipotenza, onniscienza e onnipresenza.

     Qualche anno fa, Cristian (3 anni) ed io abbiamo inventato il gioco del pescatore: un pescatore, un pesce, la pesca. Ogni volta lo stesso gioco ripetuto, eppure mai uguale. Pur nella richiesta di ripetizione, il bambino non cerca solo l’identità delle cose, ma anche la certezza della presenza e amore dell’altro nel divenire. Chiede: ci sei anche se oggi sono diverso da ieri? Anche se ho meno bisogno di te? Anche se cammino da solo? Anche se vado a scuola? Anche se amo altre persone? ……. Mi ami comunque?

     La certezza della presenza affettiva dell’altro, gli fornisce la libertà di variare questi tre elementi, in tanti infiniti creativi: a volte ero io il pescatore a volte lui, i pesci erano sempre diversi, navigavano in acque nuove, il pesce a volte era trainato con un carretto, a volte pulito e mangiato …………. Ad ogni gesto, un’immagine e un sentito diverso.

     Cristian sa bene che quella non è la realtà materiale delle cose, che stiamo giocando, stiamo facendo “finta che”, ma il piacere di qualcuno che crede al suo sogno e vuol giocarlo, lo nutre di creatività, possibilità e fantasia.

     E i bambini nella loro profonda sapienza, per non morire indagano alla ricerca di possibili prove d’adozione. “Forse è per questo che sono diverso, che non sono capito, che non sono visto, che non sono amato”. Sono stato adottato!

     E nella creazione di un proprio romanzo familiare, vivono nella speranza che un giorno la vera famiglia venga a riprenderselo.

     Non a caso la fiaba è il più grande gesto d’amore verso un bambino (Bettelheim). La fiaba rappresenta il mondo interno del bambino, con tutte le perplessità e angosce, nel contempo propone una strada percorribile, in visione della crescita. Offre una soluzione al mondo interno.

     Le fiabe accompagnano il bambino in tutte le fasi evolutive più critiche, fornendo rassicurazioni e la convinzione che se ne può uscire. La fantasia infatti, è molto utile per gestire le angosce interne, permettendo poi di tornare alla realtà concreta. Il bambino le ascolta “come se” ci credesse, ma sa bene che non sono la realtà, rappresentano però la sua realtà emotiva.

     Le fiabe del cuore in realtà, accompagneranno tutta la vita, suggerendo inconsciamente una possibilità risolutiva dei conflitti interni. In questo senso la soluzione di problemi non è prodotto da una capacità meccanica, ma dalla possibilità di far ricorso alla fantasia, all’osservazione allargata, alla fiducia di poter trovare una soluzione, proprio attraverso un percorso che attraversa il mondo degli inferi (inconscio), per poter risalire alla luce della coscienza e concretezza.

     Del resto, non a caso Winnicott attribuiva tanta importanza al mondo transizionale, a questo spaccato emotivo-fantastico, unico regno sotto il controllo totale del bambino, trampolino di lancio per l’accettazione di limitazioni e frustrazioni, nonché semenzaio di curiosità e intelligenza.

     I bambini che hanno avuto chi ha giocato con lui al “come se”, che hanno ricevuto delle fiabe, si trasformeranno in adulti che stando in relazione, vedono la realtà e riescono ancora a “giocare al come se”, per il piacere dello scambio creativo. Sapranno ascoltare, senza fretta di mettersi al centro, lasciando lo spazio per l’altro e per tutto ciò che sarà comunicato.

     Avranno molto chiara la visione della realtà, separata dalla fantasia, a cui sapranno far ricorso come risorsa.

     Un “bambino ucciso” non potrà che giocare da solo, alla “normalità adulta”, in un’alternanza di ruoli, padrone e suddito delle regole. “Uccideranno” i bambini e sono essi stessi bambini massacrati. Trasformatisi in un muro di gomma contro cui far rimbarlzare gli altri, di cui rifiutano ogni calore e messaggio, nella spinta onnipotente, che fa dimenticare il proprio dolore.

     Sono quegli umani che Schellembaum definisce “non amati”, coloro che nell’infanzia e nell’adolescenza, hanno avuto un’esperienza traumatica con l’amore.

     Essere amati è doloroso per i bambini uccisi, perché resuscita il bambino ancora vivo sotto le macerie e con esso il dolore, verso chi lo ha sepolto. Credere e accettare l’amore dell’altro anticipa l’angoscia della ripetizione, di una nuova uccisione. Mostrando cecità e paura nella possibilità di cambiamento. Farsi amare è concesso solo a chi inizia ad amarsi e a curarsi le ferite, credendo nella propria capacità di guarigione e nelle capacità “terapeutiche” di chi cura insieme.

     Colui che ama, pur esponendosi al doloroso rifiuto dell’altro, si concede la certezza del proprio amare, della propria verità, calore, umanità, che sa scavare e intuire dove ancora il bambino giace, urlante e dolorante.

     Far emergere il bambino dalle macerie per farlo vivere, significa anche trovare una soluzione creativa alla rabbia e al dolore. Chiede di sottrarsi all’identificazione-sottomissione genitore-istituzione, soluzione che non può cedere neppure all’uccisione-negazione-annullamento: ripetizione di quanto subito.

     Creatività e cuore sono uniti da un filo indissolubile. L’umano creativo e sano gioca la relazione, creando e accogliendo nuovi passaggi, proposte, colori, sulla scia del sentito mai identico. Andamento che ha la stessa cadenza dei primi passi, perché creare contiene il nuovo e la scoperta dei primi passi, della caduta e della fiducia di riprovare.

     Credere e affidarsi al pensiero, associato al sentire e al corpo, significa trovare risposte adattive e creative. E’ una prova di vita e di intelligenza. E’ quella sensazione illuminante dell’insight, che improvvisamente ci presenta la risposta, grazie al ristabilirsi di un ordine, dove ogni cosa (pensieri, emozioni, sentiti) assume il proprio posto e funzione.

     Trasformazione che possiede un suo ritmo, che non può essere controllato, ma solo vissuto e compreso, come il viaggio in un corso d’acqua, opporsi al quale comporta l’illusione dell’impossibile controcorrente, che conduce al rimanere fermi, per poi annegare.

     Talvolta si incontrano abili nuotatori che hanno appreso nelle migliori scuole la tecnica, nascondono così la paura della propria certezza dietro lo stile ineccepibile, la potenza muscolare, l’uso della razionalità più sofisticata. Questi abili nuotatori vincono l’elogio dei normali nuotatori, nutrendo il loro narcisismo terrorizzato e terrorizzante. Talvolta questi abili atleti sono inteneriti da chi nuota goffamente, per non affogare, arrivando a concedere la loro tecnica salvifica. Nuotatori che incontriamo in ogni fiume, in ogni biblioteca, in ogni parte della storia ……

     La nostra epoca, più di ogni altra è improntata e produttrice di narcisismo, impedendo così una relazionalità e integrità sana. Favorisce l’immagine e la prestazione quantificabile, a discapito dell’essere (Lowen, 1985).

     Le istituzioni-stagni negano la “gravidanza” e la creazione, relegando a sistemi skinner-box, dove le persone ottengono bollini premio attraverso la sequenza giusta, sempre identica e rassicurante: “ti voglio bene, ma devi fare il bravo”: l’ultima maceria che cade sul bambino. Circo, che ammaestra cani ad andare in bicicletta, portare abiti umani e far finta che questo sia possibile.

     Il caos e l’assenza di confini, regnano sovrani!

     Non c’è calore dalla vicinanza di chi nega il vissuto, la realtà, dell’altro e non ascolta le sue parole. E’ preferibile il silenzio, diretto a chi lo sa ascoltare. E’ una realtà dolorosa: esseri umani irrigiditi dal controllo e in fuga da sé stessi.

     Ricominciamo a raccontare fiabe ai nostri bambini, a parlare di emozioni e a vivere emozioni con loro. Permettiamoci di essere con loro, dando agio a quella “zona di sviluppo prossimale” (Vygotskij), che rappresenta il più ricco livello di intelligenza e creatività. Favoriamo il possibile, il vuoto, come contenitore di immagini danzanti. Restituiamo quindi calore e colore all’intelligenza del bambino, che fornisce anche pienezza al nostro essere.

     E’ un peccato che gli umani perdano la capacità di giocare come scambio creativo.

Il gioco degli adulti normali assume troppo spesso le connotazioni date da Berne al “gioco”, ha qualità ulteriori e un pagamento.

     Gli adulti normalizzati, perdono la capacità del bambino di stare in relazione nel qui e ora, con fiducia, ascolto, coraggio, semplicità e lealtà a sé. Molti umani hanno ferite profonde: vogliono controllare e vincere. L’obiettivo fa perdere il piacere di stare, essere.

     La risposta creativa viene sempre più scambiata per efficienza e magnificenza, quantità di prestazione e prestigio.

     E’ auspicabile allora, seminare ogni giorno “come se” da bambini, con la consapevolezza e la forza dell’esperienza.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

     Berne E. (1964). A che gioco giochiamo. Bompiani.

     Bettelheim B. (1977). Il mondo incantato. Feltrinelli.

     Greenspan S.I. (1997). L’intelligenza del cuore. Oscar Mondatori.

     Lowen A. (1982). Paura di vivere. Astrolabio.

     Lowen A. (1985). Il narcisismo. L’identità rinnegata. Feltrinelli.

     Mahler M., In Greenberg J.R., Mitchell S.A. (1986). Le relazioni oggettuali nella relazioni psicoanalitica. Mulino, pp. 269-300.

     Schellembaum P. (1995). La ferita dei non amati. Demetra.

     Vygotskij L. In Miller P. H. (1987). Teorie dello sviluppo psicologico. Il Mulino.

     Winnicott D.W. (1968). La famiglia e lo sviluppo dell’individuo. Armando editore.

             

     

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24 gennaio 2011 1 24 /01 /gennaio /2011 13:59

Intelligenza:

aiuta a vivere o a soffrire?

 

 

Intelligenza.

In senso corrente può essere intesa come capacità di intendere, pensare, giudicare, come l'abilità di usare la propria mente, allo scopo di capire ciò che ci circonda e di dargli un senso.

Andando nello specifico, ci si riferisce al quel processo (mentale e comportamentale), che consente all'uomo o all'animale dotato di struttura cerebrale evoluta, di trovare soluzioni a problemi nuovi.

In un'accezione ancora più specifica, si riferisce ad una serie di processi mentali assai complessi, tipicamente umani, che vanno dal ragionamento logico alla capacità di perseguire uno scopo anche a lunghissimo termine, dalla capacità di formulare valutazioni e giudizi di valore, alla capacità d'autocorrezione e autocritica.

In considerazione di ciò, vediamo che l'intelligenza coinvolge tutte le altre funzioni psichiche e psicologiche: l'attività sensomotoria, l'esplorazione, l'apprendimento, la memoria a breve e lungo termine, il linguaggio, la motivazione, l'immaginazione. Presuppone inoltre la riattivazione dell'esperienza passata, nonché l'intervento di fattori genetici e l'integrità del sistema nervoso. (Enciclopedia Garzanti di Filosofia)

Emerge un quadro dell'intelligenza, che coinvolge molte altre funzioni umane, intellettive e non, ma soprattutto ne emerge la sua funzione od obiettivo primario: ovvero l'adattamento. Per adattamento, s'intende la capacità di amicarsi l'ambiente, risolvendo quesiti o problematiche, attraverso varie strategie e abilità, che permettano di sentirsi al sicuro e a proprio agio nell'habitat circostante e "instante" (ovvero sentirsi bene "nel" proprio corpo, il primo habitat naturale). L'intelligenza quindi, dovrebbe fornirci gli strumenti per star bene con l'esterno, ma anche con l'interno, con noi stessi, con il nostro corpo e tutti i bagagli emotivo-cognitivi ad esso connessi.

Se riflettiamo su esempi concreti, questo concetto ci appare scontato e ovvio. Ad esempio l'uomo primitivo che subiva mutamente climatici, geografici, cataclismatici, che scopriva e inventava cose nuove, poteva sopravvivere solo se dotato di buona capacità d'adattamento. E' proprio l'individuo più intelligente, quello destinato a sopravvivere, perché capace di elaborare le strategie più appropriate per utilizzare in modo ottimale, quanto sta capitando.

Andando più verso l'interno vediamo che, l'uomo ha intrapreso le sue prime forme espressive dalla notte dei tempi. Ritroviamo infatti antiche tracce rupestri del suo mondo interno, espresso in immagini e colori. Nello stesso tempo già da allora, le forme di socializzazione risultano articolate e complesse, si parte dalla formazione della coppia, ai primi clan, ai gruppi, ai villaggi, ecc.

Forme d'associazione, utili alla sopravvivenza concreta, ma soprattutto atte ad un integrazione emotivo-sociale, ad una forma di rassicurazione, d'accudimento reciproco, d'acculturamento e relazionalità multipla.

Andando avanti con questo pensiero, non solo l'intelligenza serve per sopravvivere, ma anche per distinguersi, per primeggiare, per avere il ruolo di rispetto e d'ascolto, quindi aiuta a vivere nel modo più soddisfacente possibile. A parità di sopravvivenza, chi riesce ad escogitare strategie o stili di vita più equilibrati, utili, educativi, elaborati, interessanti e desiderabili, è colui che assume la posizione del capo villaggio, dell'eroe, del guaritore, del saggio, del sapiente, dell'artista, ecc.

Dunque l'intelligenza è il mezzo espressivo su tutti i fronti, a cui è stata dato valore fin dall'antichità, a livelli via via sempre crescenti. Per esempio, all'epoca della prima guerra mondiale, nell'esercito degli Stati Uniti venivano ampiamente usati i test d'intelligenza, come mezzo d'assegnazione. Successivamente, i test hanno assunto il potere di definire la differenza raziale. Vedi ad esempio, la valutazione fra bianchi e neri del sud e del nord degli Stati Uniti, nel dopoguerra.

Dopo anni di studio e di confronti, si è compreso che per quanto la genetica possa avere un peso sulle capacità intellettive, il modo in cui si esplica e si traduce, dipende dalle determinanti ambientali a vari livelli. (M. Harris, 409-413).

L'ambiente quindi svolge un ruolo preponderante nel permettere o ostacolare, l'espressione genica con tutte le sue implicazioni e possibilità. Nello stesso tempo, essendo l'ambiente circostante in mutevole cambiamento, varierà di volta in volta le richieste e le necessità di vita, il tipo e il grado di pressione esercitata sull'individuo.

Se guardiamo questo concetto, ad un certo punto della storia ontogenetica e filogenetica, un comportamento che è stato fortemente utile e adattivo, può improvvisamente diventare elemento non più vantaggioso e desiderabile, talvolta persino d'ostacolo e impedimento.

Nella nostra epoca, è esperienza comune che bambini altamente intelligenti, intuitivi e sensibili, apprezzati e osannati da insegnanti e genitori, si ritrovino adulti "mediocri", ai "margini" della società, spesso sofferenti e soli. Dei disadattati, oserei dire. Al contrario bambini affatto promettenti, spesso lenti, poco intuitivi, poco curiosi ed indifferenti alla scoperta, con scarsa motivazione all'apprendimento, si riscoprano adulti di successo, locati nelle alte sfere politiche, culturali, educative, sociali, ecc. Ben adattati, direi!

Sembra proprio un controsenso!

L'ipotesi più immediata, potrebbe consistere nel possibile errore di valutazione intellettiva dei bambini. In questo caso dovrebbe trattarsi di un doppio errore, un'ipervalutazione degli uni e una svalutazione degli altri. Tenendo conto però che i test d'intelligenza sono altamente predittivi del successo scolastico, in quanto richiedono lo stesso tipo di prove e d'abilità, risulta un'ipotesi poco sostenibile. Viceversa, se questi bambini presentano un'ottima o buona prestazione scolastica, ci lascia pensare che possiedano un'intelligenza medio-alto o comunque molto brillante ed adattiva. Infatti, è stato visto (Rubini) che la prestazione scolastica viene facilitata dall'intelligenza e dalla creatività.

Guardando i bambini più lenti, possiamo pensare che non siano stati visti nella loro interezza e che i disagi di tipo emotivo e le influenze ambientali negative, impediscano la piena espressione della loro capacità. Sicuramente è così, probabilmente nella maggior parte dei casi, non si tratta di un'effettiva differenza nelle capacità intellettive, ma ancora nel diverso contesto ambientale (in primis la famiglia), che impedisce e ostacola la piena espressione genica.

Nonostante ciò, non c'è niente che c'induce a pensare che la loro sorte cambierà. Anzi, è un processo che si autoalimenta, l'insuccesso scolastico o la valutazione non brillante, ridurrà sempre più il loro entusiasmo e le aspettative di genitori e insegnanti. Si vedranno soprattutto i loro limiti e mancanze ed il bambino stesso non proverà in alcun modo a varcare questi confini, nessuno ne vede la possibilità, tanto meno lui! Non ci si può neanche aspettare che abbiano reazioni di orgoglio o di rabbia, che favoriscano una determinazione volta a dimostrare qualcosa. La determinazione infatti, richiede un grande bagaglio psico-fisico e un minimo di fiducia di base. Di solito, la scarsa prestazione è accompagnata da tutta una serie di etichette: "è svogliato, pigro, senza volontà, apatico, senza interessi, non ha risorse, ecc." Il bambino quindi, si attesterà sempre più su un livello medio-basso, giusto quanto necessario per la sopravvivenza minima, per la situazione contingente.

In questo caso dunque, i bambini non visti, non trovando una soluzione alternativa produttiva, vedranno tarpare inesorabilmente l'espressione delle loro capacità. Per cui, pur avendo in potenza una buona intelligenza, la prestazione effettiva, risulterà scarsa e inferiore ad altre persone, esattamente come avviene con le persone di colore, nel sud degli Stati Uniti da secoli.

Tutto ciò rende il quesito, assai intrigante. Allora cosa succede ad un certo punto nella vita di questi adulti, ex bambini mediocri? E cosa succede ad un certo punto nella vita di questi adulti, ex bambini intelligenti?

Quello che mi viene da pensare è che in quest'epoca, l'intelligenza non sia più una capacità desiderabile e adattiva. Non serve più a vivere, ma fa soffrire!

La nostra società, ha ormai assunto una veste narcisista ed edonista, imperniata più sull'immagine che sull'essere. Il fare e l'apparire, l'usa e getta, la parificazione e l'omologazione, il denaro e il possesso, rappresentano gli slogan elettivi. In questo clima, le abilità e l'intelligenza non servono, per adattarsi è necessario entrare nel sistema, far parte della macchina che va avanti da sé. S'inizia trovando un impiego, che rende esperti di qualcosa (fosse anche di un bullone) e di cui poter parlare (bene o male, non è importante), che permette di avere carte di credito, da usare per spendere ovunque e quantunque (nei negozi, su internet, ai ristoranti, dal coiffure, ecc.), permette di accendere il primo mutuo e poi ancora prestiti, per avvallare le falle della carta di credito, o alzarne il tetto spendibile.

Un lavoro dunque, qualunque sia la portata dello stipendio, permette comunque di dare inizio a tutto un meccanismo a catena. Ci si può concedere di tutto, sulla base di soldi reali o fittizi (prestiti, rateizzazioni, ecc.), macchine, motori, vestiti firmati, elettrodomestici di ogni tipo (che bagnano, asciugano, stirano, tagliano, triturano, sminuzzano, cuciano, aspirano, ecc.)cellulari, PC, macchine fotografiche, telecamere, vacanze più volte all'anno, libri e riviste a chili, che non abbiamo il tempo di leggere,cibo a più non posso e pasticche per bruciare grassi, parrucchiere, estetista, palestra, cartomante, chiropratico, chirurgo plastico, nutrizionista, psicologo, logopedista e quant'altro ci offre questa società post industriale. Tutto usato (esperti compresi), come oggetti, come nicchie di sapere per ripristinare l'ordine o renderlo più intrigante o scintillante (in certi ambiti fa chic andare dall'analista, la palestra è socializzante, il cartomante aiuta a prendere decisioni giuste, ecc.)

Con la stessa modalità, si costruiscono le famiglie. Per chi ancora conserva questo status fra i propri obiettivi, si mettono al mondo i figli ed il gioco è fatto, inizia tutta una serie di percorsi obbligati, le migliaia di visite, vaccini, medicine, sport, hobbies, scuole pubbliche e private, le riunioni della scuola, della parrocchia, del dopo scuola, le feste di compleanno con gli amichetti a partire da un anno di vita, le miriadi di cene, il mare, la montagna, il soggiorno all'estero per imparare la lingua, vestiti alla moda, l'ultimo zaino dell'uomo ragno, computer, cellulare d'ultima generazione, ecc. ecc. E' un gran, bel impegno! Tante cose da fare, da organizzare e di cui parlare, parlare, parlare (ammesso che qualcuno ascolti).

Possiamo fare tutto, di tutto e di più, non ci sono limiti né confini. L'importante è entrare nella prima porta, per poi essere risucchiati vertiginosamente nel meccanismo, senza neanche sapere com'è successo. Tutto sommato è semplice, perché è una macchina già rodata e oliata, va per conto proprio, basta dire sì e firmare, mettere i numerini giusti al posto giusto e voi là, tutto sistemato e pagato. Basta poco, per avere tanti oggetti nella propria vita, per avere cose da fare, per avere esperienze da raccontare.

Non dimentichiamoci il ruolo e l'importanza dell'immagine, quindi del mostrare e del narrare. Tutto ciò che abbiamo non serve a nulla, se non c'è qualcuno che ce lo riconosce, che ce lo ammira o invidia. Perché ciò di cui ci riempiamo, non è quello di cui abbiamo bisogno, ma solo ciò che questa macchina ci induce a fare o a volere o necessitare, sulla scia della moda, della maggioranza, di una ragione insita nella sopravvivenza del sistema stesso (se non si usa e getta, non si crea lavoro, se non si rende necessario ciò che non lo è, perdono valore tutta una serie di figure professionali e di settori, quali l'estetica, la moda, la tecnologia più raffinata, ecc.).

Essendo la motivazione del nostro fare, all'esterno di noi, risulta essenziale supportare la nostra identità, con l'approvazione degli altri. In questo gran vuoto interno, determinato dall'assenza del corpo, il parlare aiuta a riempire, aiuta a non pensare, ad illudersi che ci sia qualcosa di significativo, nel nostro mondo interno ed esterno. Si ha molte cose da raccontare (che nessuno ascolterà), pertanto si è pieni! In un processo all'infinito che induce a perdere il senso della propria realtà, la distinzione fra ciò che realmente è nostro da ciò che non lo è, ciò che è reale, da ciò che è esterno e imposto seduttivamente.

Tipico del narcisismo infatti, è la mancata distinzione fra ciò che si è e ciò che si pensa di essere. Ci si identifica con l'immagine idealizzata (Lowen 1992, pp. 17-18). Ogni cosa deve essere al suo posto, tutto perfetto e scintillante ed il corpo con i suoi umori, è relegato a semplice strumento della mente, pena la confusione e la perdita di perfezione. Il corpo è una macchina, una delle tante macchine da azionare a comando, manovrare, spegnere a richiesta, da riparare in caso di mal funzionamento.

Se guardiamo tutto ciò, in effetti il bambino lento, mediocre, con scarse predizioni sul futuro, risulta massimamente adatto. Il meccanismo infatti, non richiede particolari doti di brillantezza, autonomia e creatività, anzi si predilige "l'ubbidienza" e la prestazione anonima. Nello stesso tempo, per la persona costituisce una grande occasione di rivincita, rispetto alle etichette denigranti e diversificanti dell'infanzia. Grazie alla possibilità di girare nel sistema alla stessa stregua degli altri, si possiedono le stesse cose, se ne può raccontare ed esserne invidiati, si è assimilati al sistema e si è esattamente come tutti gli altri, niente di meno niente di più, una persona degna di nota e di attenzione, un "signor compratore"!. Ci si dimentica così le proprie mancanze, illudendosi che va tutto bene, si eviterà di assumersi la responsabilità di sé e del proprio destino.Per il sistema va benissimo, anzi rappresenta l'individuo ideale, il compratore desiderabile, il lavoratore prediletto. Di conseguenza, alimenterà ad oltranza quest'illusione.

Pensiamo per esempio alle assunzioni nelle grandi aziende, nei grandi supermercati, o in agenzie di servizio. Spesso, fra le prove d'esame si ritrovano test d'intelligenza o simili. La cosa interessante è che, proprio la prestazione più brillante, così come il titolo di studio superiore (laurea), costituiscono criterio di esclusione! La persona troppo brillante o culturalizzata non serve, non è adatta, "è troppo, per ciò che ci serve". Quindi, da una parte la nostra società esalta la formazione e la cultura, perché anch'essi beni da acquistare, che quindi alimentano il meccanismo, nello stesso tempo non fornisce posti che diano ragione e espressione a tale formazione. E come visto, accedere ad ambiti diverso non è ammesso, si risulta inappropriati. Più la cultura è ampia e brillante, più costituisce fonte di disoccupazione e disadattamento. Nel concreto poi, si favoriscono le specializzazioni sempre più settorializzate e capillari, che richiedono pseudoformazioni, acquistabili a breve termine, magari organizzate dall'azienda stessa, quindi per certi versi pregiudiziali. Così ognuno fa parte di una macchina complessa, in modo cieco e anonimo, senza sapere di cosa si occupi il compagno che lavora gomito a gomito, tanto meno saper fare quello che fa il compagno stesso, "la mano destra non sa cosa fa la sinistra", si è solo bulloni di un organismo sconosciuto.

Prendiamo infatti quei bambini tanto dotati, intelligenti, curiosi ed entusiasti di comprendere cos'è il mondo. Immaginiamoci che grande compito li attende, nel momento di decidere cosa fare della propria vita. Le loro capacità gli permetterebbero l'accesso a molti ambiti professionali, la passione restringerebbe probabilmente il campo d'azione, ma la società narcisistica ne preclude ogni possibilità. Per un individuo brillantemente intelligente, cedere a questo meccanismo anonimo, significa rinunciare alla propria intelligenza, all'individualità, al proprio senso di sé e al senso totale della vita.

Molti di questi bambini allora si perdono nella folla, dimenticando le proprie doti di spicco. Altri continueranno a dibattersi nel conflitto, fra adeguarsi e perdere l'individualità o ribellarsi e sentirsi escluso, un reietto della società.

Se guardiamo questo meccanismo, l'intelligenza non è più fonte di adattamento, ma di grande disagio e sofferenza. Se ci si adatta al proprio corpo, rispettandone i ritmi, gli umori, il sentire, ci si distacca dal contesto sociale, se invece ci si adatta al corpo della società (etereo e fittizio) ci si distacca da sé stessi, in una sorta di autismo artificioso. In entrambe i casi, si approda nella desolazione.

Come ben descrive Greenspan (1997, p. 18), alla base dell'intelligenza c'è il collegamento fra un sentimento o desiderio e un'azione o simbolo. Ciò vuol dire che, l'intelligenza deriva dall'abilità di utilizzare una spinta interna emotiva, per compiere una data azione concreta o simbolica. La capacità di procrastinare una soddisfazione immediata e concreta, a favore di una soddisfazione realizzata ad un altro livello (simbolico) e in un altro tempo. Quell'abilità che S. Freud attribuiva all'Io, o meglio al compromesso fra le forze pulsionali e l'esame di realtà, sviluppatosi a partire dal primo anno di età, grazie al contatto con l'ambiente circostante e le sue richieste.

Comprendiamo dunque, il forte legame fra emotività, relazionalità e sviluppo delle abilità cognitive. La persona spiccatamente intelligente, è anche emotivamente dotata e relazionalmente ricca. Non significa che si tratta di individui con un'infanzia fortunata e beata, ma di una miscela significativamente esplosiva di gratificazioni e frustrazioni, riconoscimenti e ferite, di un forte desiderio e l'impossibilità di realizzarlo. Vivono dolori, dispiaceri e rabbie come tutti gli altri bambini, ma hanno anche a loro disposizione un accompagnamento adulto, che li guida nel sentire, fornendo un vocabolario emotivo ed una comprensione.

Questi individui, a differenza dei narcisisti, crescono in relazione con la natura e primariamente con il proprio corpo e i suoi ritmi, alternativamente in contrasto o in armonia con il mondo esterno, fisico, sociale, relazionale e culturale. Non a caso Piaget (1966), definisce il primo stadio evolutivo intellettivo, intelligenza senso-motoria. Ovvero, l'intelligenza nelle prime fasi di vita, si sviluppa attraverso la sperimentazione sensoriale e motoria. Il bambino impara a conoscere il mondo e a creare collegamenti (es. di causa ed effetto), attraverso i suoi sensi, che gli permettono un'esplorazione su vari versanti (toccare, leccare, battere, udire, vedere, assaporare, ecc.), nonchè attraverso l'azione, coadiuvante stessa dei sensi (es. toccare) e produttrice di effetti sul mondo circostante.

La relazione con le figure genitoriali, l'affettività espressa e permessa, rendono l'esplorazione più o meno intensa, più o meno ricca e desiderante, alimentano la curiosità e il gusto dell'apprendimento. L'emotività e la relazione costituiscono veicolo e contenuto stesso dell'apprendimento. Il piacere della scoperta e della comprensione, ne costituiscono la gratificazione naturale.

L'intelligenza dunque, è la risultante di tutto questo mondo interno pulsante ed esplorante, di una vitalità che ha il permesso di esplodere in modo sufficientemente armonico, con la propria natura. Ne risulta un individuo capace di utilizzare ogni propria risorsa (del corpo, del sentire, del pensare, del sapere, del mondo fisico, ecc.) a favore di una crescita e di un cambiamento continuo, in direzione del proprio adattamento.

Ma tutto questo desiderare, tutto questo sentire, il pensare fine, dove va a finire, in un mondo artificiale, che offre già soluzioni, prima ancora di chiedere?

Comprendiamo meglio il destino della persona intelligente, pensando alla situazione estrema, rappresentata dal genio. Anche qua riscontriamo un'altissima percentuale di bambini, che diventeranno adulti disadattati, infelici e spesso insoddisfatti di sé, se non "falliti". Una parte di loro, non riuscirà a far fruttare la propria genialità in qualche campo del sapere o del saper fare, diventando adulti anonimi. Un'altra parte, pur avendo trovato applicazione e spazio alla propria genialità, sarà comunque un adulto solo e insoddisfatto, profondamente incompreso.

La creatività, di cui si distingue il genio all'ennesima potenza, riguarda la capacità di produrre nuove idee, invenzioni, opere d'arte e simili, distinguendosi (sia nella forma artistica che scientifica), per le doti di novità, costanza e originalità (Biehler, pp. 402-403).

Ma già l'atto di intelligenza, consiste nella ristrutturazione dell'insieme o di una parte del campo cognitivo, della modificazione cioè della struttura generale, con cui la realtà ci è apparsa fino a quel momento (Petter). In altre parole l'insight, l'atto intelligente, prevede la capacità di vedere la situazione contingente o ambiente circostante sotto altri punti di vista, in modo tale da poter trovare la soluzione al problema, che fino a quel momento è rimasto insoluto. Là dove non si vedevano soluzioni o soluzioni alternative, l'individuo intelligente riesce a leggere la realtà in modo diverso e ad escogitare risposte inaspettate e ancor di più l'individuo creativo, che riesce a trovare possibilità altamente originali e impensabili.

L'individuo creativo spicca ulteriormente per la produttività, la fluidità e la flessibilità del pensiero, nonchè per la facilità di altri processi mentali, quali elaborazione e valutazione (Rubini, p. 32).

Ora, detto in parole molto semplici, tutto ciò comporta che l'individuo in questione sia libero da qualsiasi pressione sociale, culturale, politica, ecc., in modo tale da permettere alla propria mente di sganciarsi da stereotipi e visioni limitate, per poter galleggiare con un pensiero libero, alternativo e inusuale. Greenspan (pp. 21-22) definisce l'adulto geniale, al pari del bambino, come individuo avventuroso, viaggiatore della fantasia, attraverso ascensori intergalattici, o fasci di luce. Le idee si formano attraverso esplorazioni giocose della fantasia, che solo in un momento successivo, vengono tradotte nel rigore della matematica.

Se guardiamo l'intelligenza e la genialità in questi termini, vediamo cosa può succedergli se inserite in una società come la nostra, che evita le idee personali, chi si dissocia, chi vede le cose in un modo diverso, colui che sente, chi si rifiuta, chi è diverso, chi pensa!

Di per conto suo, la genialità è una dote assai difficile da gestire. La forte passionalità e l'orientamento prevalente sulla produzione intellettiva, crea uno sbilancio a sfavore delle qualità più relazionali e sociali. Infatti il genio, ha un "pallino" esclusivo, ha una concentrazione quasi maniacale su un campo di irresistibile attrazione: la fonte del suo stesso piacere e curiosità. Queste persone quindi, concentrare a "stare dentro" il proprio mondo, mostreranno varie difficoltà a "stare fuori" e a condividere la propria passione. La società attuale del resto, non li aiuta certo ad integrarsi e a sentirsi parte, tutt'al più userà i loro prodotti e loro stessi, come grande creatore di oggetti di consumismo.

Il genio rappresenta una situazione estrema, ma quanto detto vale anche per la persona intellettivamente brillante, che per "far parte" e sentirsi a proprio agio, deve adattarsi al contesto "abbassando" il proprio livello intellettivo-emotivo, deve staccare la spina al proprio elaboratore. Non si può essere indipendenti, non si può essere creativi, non si può essere controtendenza, non si può essere romantici e retrò, non si può sentire, non ci si può opporre, non ..... Si deve tacere, accettando acriticamente il sistema, girando insieme ad esso, con la sua compra-vendita, usa e getta, mordi e fuggi e via dicendo. Non ci sarà certo posto per letterati, filosofi, artisti, sognatori .....

Chi decide di non adattarsi e di rispettare la propria intelligenza, le proprie attitudini, aspirazioni e desideri, è destinato a vivere da dis-adattato, da persona indesiderata, di troppo, scomoda, da relegare in un angolo, da indottrinare e inquadrare. Non c'è posto per la diversità, soprattutto se riporta all'origine, allontana da un mondo artificiale, acquistato in ogni angolo della città, alla stregua della moda.

Viene quindi da pensare, che quell'intelligenza tanto fondamentale per la sopravvivenza della specie e dell'individuo, oggi non serve più, è una qualità non più richiesta. L'intelligenza, con la sua capacità di trovare soluzioni ottimali, è una risorsa fondamentale a contatto con l'ambiente naturale e sociale, che presenta cambiamenti e problemi. In una realtà non naturale però, costruita a tavolino, dettata da canoni esterni all'uomo, la capacità di comprendere, di vedere le cose in modo diverso, il desiderio di trovare una pacificazione e una risposta, non servono più. Tutte queste componenti, sono già fornite, impacchettate e consegnate a domicilio dall'esterno, esattamente come la pizza.

Sempre più si assiste all'omologazione, alla globalizzazione del pensiero, delle vedute, di culture, stili di vita, realtà, perdendo la ricchezza dell'individualità, del singolo e del gruppo (piccolo paese o nazione che sia). Omologazione infatti, non è sinonimo di unità e compattezza, ma di perdita di unicità e di forza. Tutto sotto una logica di mercato, dell'economia mondiale, che in realtà persevera la sua profonda scissione fra nord e sud del pianeta. Si omologa e si appiattisce solo per arruolare nuovi compratori, non certo per omogenizzare la ricchezza o la cultura!

Che poi, nessuno dice che ciò che chiamiamo ricchezza, rappresenti veramente una ricchezza ed un guadagno. Forse c'è una fonte di prosperità ben diversa da quella esterna ed artificiale e che, alimenta la nostra mente e il cuore, che origina direttamente da noi stessi e non richiede tanto affanno e tanti oggetti. Ma questa realtà è ormai lontana dagli individui, presi sempre più da questo gioco al massacro autoalimentantesi.

Mi chiedo allora che ne sarà di noi e dell'intelligenza. Si estinguerà esattamente com'è capitato ai dinosauri, ai mammut e ad altre specie viventi? Diventerà un'appendice da asportare? Un difetto da correggere?

In verità, non siamo molto lontani da questo. Quando penso ai bambini, imbottiti di Ritalin, di Prozac e Zyprexa, penso che questo sta già capitando. Infatti, mettiamo a tacere i loro segni di disagio e ribellione con dei farmaci, che qualche multinazionale ha deciso debba rappresentare la loro fonte di ricchezza permanente. Che importa se con il Ritalin, talvolta i bambini muoiono, se con il Prozac si rallenta lo sviluppo, se si dimostra che è solo un placebo, se lo Zyprexa induce svariati effetti collaterali, compreso patologie mortali (Giù le mani dai bambini)? I dati si possono ritoccare e si possono guardare da varie angolature, si sceglie il male minore,la cosiddetta riduzione del danno e tutto procede come stabilito.

L'unico strumento che i bambini hanno per far sentire la loro voce è il loro corpo, la prestazione scolastica e l'emotività, ma ogni volta che si fanno sentire, siamo lì pronti a dare una bella definizione, deficit di qui, sindrome di là e via con programmi rieducativi, con farmaci, con psicoterapia, neuropsichiatria, logopedia, ecc. Pretendiamo di portarli dove vogliamo noi, di fargli fare quello che decidiamo noi e che accettino muti.

Del resto questo accade spesso. La mamma che ha dimenticato la figlia in macchina, rappresenta l'estremo di tale condizione, la bambina non ha emesso alcun suono o protesta, quando la madre ha chiuso lo sportello dell'auto. I nostri bambini sono tristemente abituati ad essere scarrozzati e tralasciati nel silenzio e nel fraintendimento.

Del resto, se l'intelligenza non costituisce più un vantaggio evolutivo e un pregio desiderabile, deve essere stroncata alla radice, attraverso una tacita obbedienza fin dalla tenerissima età! Ecco che i bambini sono il più grande obiettivo di omologazione. Nel frattempo sono una fonte di gran ricchezza, c'è tutta un'industria legata a loro, dalla sanità all'abbigliamento, dal materiale ludico all'istruzione, l'intrattenimento e via dicendo. Basta che si adeguino e facciano guadagnare!

Non interessa a nessuno cosa i bambini ci stiano dicendo attraverso la loro agitazione, i deficit di attenzione, con l'iperattività, con l'insonnia, con l'obesità, con la dipendenza multipla (Costantini), con la loro depressione. Tanto c'è sempre un rimedio facile, immediato, da acquistare e vendere.

Sembra proprio che oggi, l'intelligenza non serva più a vivere ma a soffrire, è diventata oggetto discriminatorio, una capacità non richiesta, un sovrappiù. Chi, non si arrende all'appiattimento e al non pensiero, è destinato a sentirsi fuori posto, disagiato, disadattato, indesiderato. Non c'è spazio per lui, è di troppo, dice cose che nessuno vuol sentire, scomode, specchi dell'anima, realtà interne e dissonanti con l'apparire, che inducono ad esercitare quel muscolo ormai in via di atrofizzazione: il cervello. Ancor peggio, inducono a sentire!

Quest'uomo cogitante dunque, è destinato a percepirsi fuori posto, inadatto, non desiderato, non ascoltato.

Gli si affaccia davanti l'eterno dilemma: sono io lo sbaglio o è (paradossalmente) il mondo intero? La risposta sembra ovvia! Certo che quest'uomo ha una sua responsabilità: l'ostinazione! L'ostinazione di voler essere se stesso e di non volersi adeguare ad un sistema esterno ed estraneo a lui. Certo se si guarda questo, è sicuramente non adattivo, è il sistema che deve andare avanti, costi quel che costi! A favore del sistema stesso e della maggioranza, che va avanti ostentando benessere e beni di consumo, pavoneggiando capi firmati, accecata da un'immagine illusoria e inconsistente, convinta del proprio riscatto e del proprio valore, acquistato per altro, nei supermercati. Una maggioranza che non vede e non vuol vedere ciò che gli si induce sottilmente di vedere, attraverso meccanismi multipli,raffinati e talvolta subliminari. Non si vede, non si ode, non si gusta, non si tocca, non si sente, non si pensa!

Se la società decide di apportare una selezione a sfavore dell'intelligenza, che ne sarà dell'uomo? Quale sarà l'individuo più adatto a sopravvivere, in un mondo inquinato e artificiale?

Mi vengono orrendamente in mente, le immagini dei film futuristi e fantascientifici, di una società comandata da macchine su uomini macchine, ormai privi di libertà e decisione. E'veramente Sostituibile con un'intelligenza asettica ed artificiale?

Forse possiamo ancora trovarle un posto e riscoprire il suo valore. Certo a volte è scomoda, è impegnativa, è responsabilizzante, ma è anche fonte di vitalità e movimento. L'intelligenza è vita!

 

BIBLIOGRAFIA

 

"Antidepressivi: fine di un mito". Tratto dalla rassegna stampa di www.giulemanidaibambini.org.

Biehler R.F. (1993). Psicologia applicata all'insegnamento. Bologna, Zanichelli

Costantini S. (2008)Cellulare e oralità secondaria. www.retenuovedipendenze.it

Costantini S. (07/07/08)Cellulare e solitudine. www.nienteansia.it

Costantini S. (2007) Dipendenze e falsi bisogni. www.retenuovedipendenze.it

Costantini S. (2008)Internet quale realtà? www.retenuovedipendenze.it

Enciclopedia Garzanti di Filosofia e epistemologia, logica formale, linguistica, psicologia, psicoanalisi, pedagogia, antropologia culturale, teologia, religioni, sociologia.

Greenspan S.I. (1997). L'intelligenza del cuore. Oscar Saggi Mondadori.

Harris M. (1991). Antropologia culturale. Zanichelli.

"Il grande mito dell'ADHD. I bambini irrequieti sono stati scambiati per ADD?" Tratto dalla rassegna stampa di www.giulemanidaibambini.org.

"Il Prozac può rallentare lo sviluppo." Parla il dottor Catalano del S.Raffaele. Tratto dalla rassegna stampa di www.giulemanidaibambini.org.

"Il Prozac? Solo un placebo". Tratto dalla rassegna stampa di www.giulemanidaibambini.org.

Lowen A. (1992). Il narcisismo. L'identità rinnegata. Saggi Feltrinelli.

Petter G. (1986). Dall'infanzia alla preadolescenza. Firenze, Giunti Barbera.

Piaget J. (1966). La rappresentazione del mondo nel fanciullo. Torino, Boringhieri.

Rubini V. (1990). La creatività. Interpretazioni psicologiche, basi sperimentali e aspetti educativi. Firenze, Giunti.

"Zyprexa: l'orologio del danno tiene lontano il ticchettio? Per alcuni questi farmaci sono un veleno." Tratto dalla rassegna stampa di www.giulemanidaibambini.org.

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17 gennaio 2011 1 17 /01 /gennaio /2011 13:40

“Giro giro tondo ……..”: com’è bello il mondo!

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

 

Il gioco: un universo meraviglioso! Un giro tondo, intorno al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. Una porta d’accesso per questo noto mistero, che appartiene a tutti.

Per comprendere i nostri bambini, dobbiamo capire il significato dei loro giochi. Il gioco, costituisce la via regia per arrivare all’inconscio del piccolo, esattamente come il sogno, costituisce la via regia per l’inconscio dell’adulto.

Così misterioso eppur fondamentale, rappresenta uno spazio di puro piacere, di crescita, di socializzazione, di terapia. E’ uno spazio simbolico, dove qualcosa sta per qualcos’altro. Ed è proprio grazie a questa traslazione, che il bambino può agire nel mondo, può utilizzare sé stesso, può manipolare i propri contenuti emotivi e mentali, in modo più agevole e leggero.

Rappresenta un’attività, dove il bambino mette tutto sé stesso, impegna motivazione, attenzione, concentrazione, scannerizzazione sensoriale, azione, pianificazione, pensiero, creatività, fantasia, emozione, conscio e inconscio.

Se vogliamo “stare con”, “vivere  con”, “crescere con” i bambini, educarli, amarli, è necessario comprenderli fino in fondo, percorrere questa strada meravigliosa, insieme. In base ai suoi giochi infatti, trascendiamo la genericità della fase evolutiva, per arrivare all’individualità specifica di quel singolo bambino. Comprendiamo come lui e soltanto lui, vede e vive il mondo, il suo specifico mondo.

Prima di tutto il gioco rappresenta uno spazio di puro piacere. Il piccolo si diverte e prova piacere nel muovere il proprio corpo, nel sentirlo, nel sentirsi vivo, nel vedere che possiede alcune abilità, le capacità di farlo muovere come lui desidera e di riuscire a raggiungere gli obiettivi prefissatisi. Per lui è una vera scoperta e una meraviglia, verificare che ad un certo punto raggiunge una capacità, che prima gli era preclusa, come svitare un tappo, riavvitarlo, chiudere una cerniera, allacciare le scarpe, aprire la porta, lanciare la palla dove desidera, far cadere i birilli, saltare la corda, ecc.

Secondariamente, costituisce uno strumento di crescita in quanto, attraverso esso si può sperimentare una serie infinita di possibilità motorie, psicomotorie, ideative, creative, ideo-motorie, ecc. Attraverso la costruzione di scenari mentali e/o concreti, si creano una serie di opportunità, di prove, di conoscenze e verifiche, su come vanno certe cose.

Il gioco, rappresenta anche un grande spazio di socializzazione, perché funziona da tramite, da ponte per gli altri, attraverso esso entra in relazione con i piccoli e i grandi. Realizzare un’idea o fantasia con qualcun altro, con l’aiuto ed il contributo di qualcun altro, permette di scoprire il piacere e la ricchezza della riuscita in quel compito, ma anche il piacere della relazione stessa, del legame che si crea e si rinsalda, della complicità di cose condivise, trasparenti e fluttuanti, ma tanto potenti da far provare soddisfazione e sicurezza. “Giocare con”, permette di allontanare il profondo senso di solitudine e incomprensione, che spesso attanaglia i piccoli.

Infine, il gioco è un’attività profondamente terapeutica (B. Bettelheim, M. Klein, A. Freud), attraverso esso il piccolo inscena nell’ambiente, i propri conflitti interni e vi trova una soluzione. Di per sé è lo strumento più ricco e articolato che il bambino possiede, lo aiuta a crescere e a trovare risposte risolutive ai nodi dolorosi. Non a caso, la psicoterapia dei bambini si avvale di questo strumento imprescindibile. I bambini infatti, sono così saggi, da curarsi spontaneamente, ogni giorno della loro vita!

Entrare in questo clima emotivo, costituisce un passaggio fondamentale e ricco, per la comprensione e la crescita dei minori. Il gioco infatti, costituisce la proiezione all’esterno del proprio mondo interno. Per cui, se osserviamo quanto viene messo in scena nel gioco spontaneo, comprendiamo la visione che il bambino ha del mondo esterno, come lo struttura, quanto gli appare difficile e ingestibile. Vediamo chiaramente quali emozioni e motivazioni lo muovono, le preoccupazioni che lo assillano e i fantasmi che lo tormentano, nonché dove rintraccia le risorse interne ed esterne (sulla base della sua lettura del mondo).

Tutte queste caratteristiche e qualità, rendono ragione del suo utilizzo in tutte le sue varianti, all’interno di strutture educative come nidi e scuole da una parte e in contesti terapeutici dall’altra. Ognuna di essa, lo utilizza, nel quadro di una propria programmazione e direzione specifica.

Fondamentalmente, esistono due tipi di gioco, quello libero e quello strutturato.

Il gioco libero consiste nell’attività pensata e organizzata dal bambino stesso, sotto la spinta dei suoi bisogni, desideri e difficoltà. E’ una fase ludica importante, perché costituisce uno spazio di piacere e necessità psico-sociale, una via risolutiva dei propri conflitti. Costituisce l’espressione più chiara ed esaustiva della propria individualità. Come tale, deve essere rispettato senza intrusione alcuna.

Un esempio molto comune è costituito dal bambino che in momenti familiari critici, sceglie di identificarsi alternativamente con la condizione di figlio e con quella di genitore, passando dal fare finta di essere un bebè al far finta di fare l’adulto che accudisce i bambini, li accompagna a scuola, si reca a lavoro, ecc., con tutta un’infinita possibilità di variazioni, che dipendono dalla situazione, per lui specifica in quel dato momento.

Allo stesso modo, può esprimere le sue difficoltà extrafamiliari (scolastiche, sociali, parentali, prestazionali, ecc.)

Il gioco strutturato invece, rappresenta uno spazio organizzato e definito in anticipo dal qualcun altro, di solito dall’adulto o comunque da una consuetudine. In questo caso l’ossatura, l’impalcatura esterna è già data, mentre il contenuto assume un significato personale specifico del bambino stesso e del suo mondo interno. Ne sono un esempio il gioco del silenzio, il gioco del cucù, mosca cieca, guardie e ladri, nascondino, i giochi del mimo, i giochi in scatola, ecc.

Sia il gioco libero che quello strutturato, possono avvalersi di oggetti vari, essere condotti da soli o in compagnia. Ma fondamentalmente, l’unico elemento essenziale, è la presenza del bambino stesso, la centralità del suo movimento psicodinamico.

Questo strumento inoltre, per tutte queste caratteristiche, possiede il grande merito di fungere da ponte fra il proprio nido, ovvero la casa-famiglia ed il mondo esterno, con tutte le sue possibili varianti: la casa dei parenti, la casa di amici, i luoghi sconosciuti, il parco, l’asilo, la scuola, ecc.

In qualunque luogo si trovi, il piccolo può portare dietro il proprio bagaglio interno e la possibilità di giocare un gioco. Questo gli fornisce la grande possibilità di vivere la continuità. Gli ambienti e le persone possono cambiare, ma lui rimane sempre lo stesso e questo strumento fedele rappresentato dal gioco, va sempre con lui.

In quest’ottica, le strutture deputate alla crescita e all’accompagnamento, come i nidi e le scuole materne, utilizzano il gioco non solo come spazio spontaneo di attività, ma anche come spazio strutturato e predisposto.

Il nido in particolare, che accoglie bambini da pochi mesi fino all’età di tre anni, attraverso il gioco, assolve due importanti funzioni: contribuisce alla formazione dell’’identità e funge da facilitatore per la socializzazione.

La formazione dell’identità infatti, passa per il sé corporeo. Il bambino cioè si forma un’idea di sé, di ciò che è e può fare, attraverso questa primaria esperienza corporea. In base a come i genitori si relazionano con il suo corpo, ai messaggi che mandano, a come lo trattano e lo accudiscono, si forma la sensazione di sé e di quanto gli è concesso. Pensiamo ad es. ad una madre con dei problemi emotivi significativi, pressata dalla fobia dello sporco e da rituali di pulizia, che tratta i bisogni corporali del figlio, quali cacca e pipì, come fossero grandi portatori di germi e sporcizia. Ne conseguirà una serie di procedimenti igienici, ripetuti in modo ossessivo e ansiogeno, fino all’eccesso.

Il bambino, che non possiede la consapevolezza di sé e del mondo, non sa che questa condotta è disturbata, sa solo che la madre tratta con ribrezzo ed angoscia il suo corpo, perché pieno di secrezioni e di sporcizia. Di conseguenza, vivrà sé stesso come individuo non buono, non amabile, non apprezzabile, ma sporco, immondo, da pulire e nascondere. Si svilupperà un grande senso di vergogna di sé e la curiosità, che non ha spazio per esplicarsi liberamente, si perderà per strada.

Pensiamo adesso, quest’influenza in positivo, alla possibilità di vivere sé ed il proprio corpo come buono, accettabile, amabile, fonte di piacere e creatività, grazie ad un’interazione gratificante con chi si prende cura di lui. Processo, che può essere attuato attraverso le quotidiane attività di pulizia, i rituali alimentari, i ritmi sonno-veglia, condotti in modo giocoso. Queste attività infatti, possono essere gestite attraverso un clima ludico, dove bambino e adulto instaurano una relazione fatta di piacevoli rimandi, ripetizioni, gesti pieni di significato ed intesa, come carezze, baci, pernacchie, risatine, frasi, suoni, gesti condivisi, ammiccamenti, ecc. Da quest’esperienza, ne consegue un senso di sé stabile ed equilibrato, perché il proprio corpo è vissuto come amabile, piacevole, fonte di relazione ed intesa, è approvato ed è un tramite della relazione emotiva, dello scambio con l’altro.

I genitori (non perfetti, ma sufficientemente equilibrati) quindi, non hanno bisogno di studiare manuali di pedagogia, strategie per un educazione migliore, hanno già tutto quello che gli occorre, sono già in possesso degli strumenti essenziali, per crescere il più serenamente possibile i propri figli. Lo strumento principe è la relazione, che si esplica nel modo più naturale e piacevole possibile. In questo spazio, ogni gesto quotidiano assume il valore di uno strumento ricco di scambio e sollecitudine.

Non occorre andare chissà dove, comprare chissà cosa, fare chissà quale gesto. Stare e giocare con loro nella quotidianità, piena di consuetudini, di intoppi, di ricorrenze ed imprevisti è tutto ciò che serve.

L’educatore del nido o asilo, ha il compito di mantenere e proseguire questo percorso. Attraverso tutti i momenti costituenti la ritualità quotidiana, possiede la capacità di proseguire e contribuire al processo di crescita, contemporaneamente a quanto viene svolto dalla famiglia.

Si aggiunge poi, tutta quella programmazione ludica specifica dei nidi stessi. Uno dei tanti esempi può essere dato da quei giochi di sperimentazione libera del corpo, attraverso l’utilizzo di materiali vari quali l’acqua, la tempera, la carta, le stoffe, ecc. L’assoluta disponibilità di uno spazio sgombro da cose o impedimenti, di un tempo tutto suo, ma soprattutto la possibilità di utilizzare il materiale in questione con la più completa libertà, costituisce una genuina occasione di vivere il proprio corpo e le sensazioni corrispondenti, in modo piacevolmente creativo.

La funzione della socializzazione inoltre, è portata avanti in modo peculiare dal nido, in quanto per sua stessa natura, costituisce un ambiente socializzato. Al bambino si offrono poche altre possibilità, di stare in un ambiente protetto e sicuro, con altri adulti e bambini che sono lì, con gli stessi scopi e funzioni.

Quello che fino a quel momento era svolto da solo, con l’ingresso al nido, viene realizzato con altri coetanei, tutti con medesimi obiettivi, con stesse regole e spesso con desideri in comune.

Il proprio mondo viene allargato e condiviso. Si deve accettare la limitazione indotta dalla presenza degli altri, ma si può godere della loro compagnia e dell’arricchimento che ne consegue. Non esiste più un mondo a propria disposizione e solitario, ma popolato e variegato, infinitamente più complesso e creativo.

Inizialmente, la compresenza costituisce un momento frustrante, limitante rispetto ad un mondo magico ed egocentrico. Successivamente però, questa restrizione viene ricompensata dal piacere della socializzazione e dalla soddisfazione, ottenuta per merito delle nuove acquisizioni. Nel contempo, certe regole, certe difficoltà, certe funzioni, essendo uguali per tutti, rendono il mondo più accettabile e piacevole. Non si tratta di una congiura contro di lui, ma di un fare necessario, universalmente dato, di regole valide per tutti, rispettate da tutti.

Il gioco condiviso quindi, costituisce la continuazione di questo processo di socializzazione, portato avanti con il piacere, il divertimento, la scoperta, la fantasia di stare insieme.

Pensiamo al grande ruolo assunto dal gioco di fantasia, che si traduce in un gioco reale. Grazie ad esso, si mette in atto un processo di crescita dell’identità, del pensiero, dell’emotività e della relazionalità, perché quanto viene pensato, può essere tradotto nel concreto, all’interno di confini e limiti imposti dalla realtà, ma anche arricchito dal contributo del mondo interno degli altri, grandi e piccoli.

Attraverso l’attività ludica, il piccolo comprende come funziona il mondo, come funziona lui, come funzionano gli altri e l’interazione con loro. Il genitore a casa e l’educatore al nido, assolvono l’importante compito di capire cosa esperisce il bambino, di aiutarlo a viverlo e di viverlo con lui, nel più grande godimento possibile. Insomma, giocare con i bambini, divertirsi con loro, apprezzare le loro attività, costituisce uno spazio di crescita comune, nel pieno rispetto di tutti.

Allora comprendiamo come, attraverso giochi anche molto semplici come il “cucù”, dove il lattante si copre e successivamente si scopre, si verifica una cosa meravigliosa: il bambino esiste e può controllare il mondo! Ovvero, si rende conto che il mondo rimane sempre lì fermo, immobile, immutato e l’adulo che gioca con lui sta lì ad aspettarlo, è lui che compare e scompare, nel frattempo nulla cambia o si cancella. Lui esiste e ha la capacità di far muovere le cose intorno. Verificare l’immanenza del mondo, lo aiuta a crescere con un senso di sé sicuro, a costruire una stabilità che gli permetterà di volar via nella realtà e nella fantasia, nel giusto rispetto della concretezza. Sapere che il mondo non cambia, non scompare, che l’adulto rimane lì, lo aiuta a lasciar andare il controllo, a permettersi di addormentarsi sereno, di allontanarsi da casa senza angosce, a far ingresso al nido o a scuola, senza temere l’abbandono.

Eppure si tratta di un gioco tanto innocuo! Ma un gesto e una ripetizione così semplice, nascondono un significato così grande e potente, che trascende la concretezza dell’atto in sé.

Alla stessa stregua, il gioco “giro giro tondo”, svolto da bambini più grandicelli, permette di rinnovare e rafforzare quanto già appreso col gioco del cucù e simili, in un contesto socializzato, che supera la diade madre-bambino o educatore-bambino. In questo caso, la possibilità di far cadere la terra e tutti quanti con essa, permette di controllare e gestire “allegramente”, quanto rappresenta una delle angosce più importanti per lui: l’incontrollabilità del mondo, con tutti i possibili eventi intercorrenti.  Infatti, una delle paure più grandi per il bambino, che si sente piccolo di fronte ad una realtà enorme ed incontrollata, risiede proprio nel trovarsi alla completa mercé di un qualsiasi evento sconosciuto e spaventoso. Si sente esile e impotente, uno “gnomo” di fronte ad un “gigante”.

Allora pensiamo al piacere, alla meraviglia e alla forza che può dare, trovare uno spazio simbolico che permetta di gestire e tollerare questa grande ansia. Pensiamo anche all’importanza del potervi giocare con altri coetanei e adulti, che “stanno al gioco”, confermando il “come se”. Gli adulti sanno perfettamente che il bambino non ha questo potere, ma fanno “come se” potesse farlo, gli concedono l’opportunità di stare in questo “spazio transizionale” (Winnicott), intermedio fra la realtà e la fantasia. La fantasia infatti, gli permette di pensare di avere il potere ed il controllo su questo mondo interno, che si riversa nella sicurezza di sé, espressa nel momento del dispiegarsi nel mondo esterno.

Girando in tondo al ritmo di una canzoncina, tenendosi per mano ai compagni, si crea questo rito magico, questo spazio di convinzione condivisa, dove si stabilisce di far cadere la terra, il mondo e tutti quanti e questo non crea tragedie, ma un piacere generale. Il bambino sa bene che nella realtà non è veramente così, ma l’opportunità di vivere un lasso di tempo in cui finge che sia possibile, alleggerisce la sua ansia, l’impotenza e alimenta il senso del possibile, ancor di più, se accettato e recitato da altri.

L’opportunità di gestire tutto questo attraverso il gioco, attraverso uno strumento suo e tutto suo, rende il mondo veramente bello, perché lo rende affrontabile e pieno di risorse. In questo modo, il mondo è veramente splendido, ricco di scrigni magici, di parole fatate, di pietre preziose che giungono in soccorso, nei momenti difficili.

Il bambino che cresce bene, con il pieno potere di questo spazio incantato, diventerà un adulto capace e stabile, abile nel realizzare il proprio mondo transizionale nella realtà, in modo piacevole, concreto e produttivo. L’adulto che da bambino ha potuto godere di questo grande strumento, continuerà a saper giocare anche da grande, con lo stesso divertimento e la stessa serietà, impiegante nelle altre attività quotidiane.

Questo filo conduttore, accompagnerà il piccolo nel suo percorso di crescita, fino a fargli dispiegare le ali, nel “mondo meraviglioso”.

Ciò non significa che la crescita e la vita futura, saranno privi di dolori, paure o sofferenze, ma che il mondo è meraviglioso proprio perché nulla lo annullerà, lo spezzerà, neanche il dolore più atroce o l’orco più spaventoso. La fantasia, la creatività, la relazione, le proprie potenzialità, permetteranno sempre, di trovare una soluzione, di saziare la morsa del dolore, di riempire uno spazio vuoto.

Non ci sarà più solitudine e incomprensione, ma un’apertura alla vita, nella speranza e fiducia. Si rinnoverà un legame significativo fra il bambino e l’adulto, fra il bambino ed il bambino, fra il bambino che siamo stati e l’adulto che siamo, fra il bambino che siamo stati e l’anziano che saremo ………..

Sarà dunque tempo di un incontro! Un giro tondo, intorno a tutte le nostre tappe di vita.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Bettelheim B. (1997). Un genitore quasi perfetto. Milano, Feltrinelli.

Freud A. (1987). L’aiuto al bambino malato. Torino, Bollati Boringhieri.

Freud. A. (1986). Conferenze per insegnanti e genitori. Torino, Bollati Boringhieri.

Klein M. (2006). Scritti 1921-1950. Torino, Bollati Boringhieri.

Winnicott D. (1974). Gioco e realtà. Roma, Arnaldo.

Winnicott D. (1974). Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. Roma, Arnaldo.

 

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17 gennaio 2011 1 17 /01 /gennaio /2011 13:35

Solitudine di vita

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

 

Solitudine di vita.

Solitudine di vita, suona come un abisso oscuro, misterioso e freddo, abisso in cui puoi cadere, perderti e rischiare di non tornare mai più. Una sorta di buco nero risucchiante, la cui forza centripeta supera ogni ferrea volontà!

La solitudine è un sentimento d’inquietudine forte, un senso di estraneità a sé, un disagio di fronte a noi stessi, un “dis-agio” non ben identificato, è un senso di tremolio e di indefinitezza sobbalzante allo stomaco, un senso di fragilità alle gambe e confusione alla testa. Non c’è nessuno intorno a noi, nessuno accanto a noi, non vediamo nessuno e non sentiamo nessuno, siamo completamente isolati in una piazza affollata, ci sentiamo incompresi in mezzo a tante orecchie, non sentiamo conforto di fronte a tante parole!

Non si sa bene cosa si sta sentendo, cosa pensare e come affrontare ciò che ci capita. E’ una condizione che alberga nelle nostre anime, ma difficile da afferrare e definire.

Nel mondo dell’arte si trovano sovente scritti ed opere che ne parlano, in modo più o meno  diretto. La ritroviamo sotto le vesti di una speranza ormai morta nella domenica del villaggio (Giacomo Leopardi), nel vuoto desolante del dopo bombe devastanti, di una guerra mondiale (Giuseppe Ungaretti), come nostalgia della terra natia (Ugo Foscolo), come costante ricerca di una musa ispiratrice alla stregua dell’amor cortese (Dante Alighieri). E non è forse la solitudine, l’orrore di un urlo muto, di una condizione angosciante, quella che s’intravede in modo inquietante, nella rappresentazione di Munch? Pensate poi alla solitudine kafkiana, di un uomo che si vede ridotto ad uno scarafaggio, relegato in un angolo della casa e della società, per poi essere spazzato via, proprio nel momento in cui smette di essere utile, produttivo e sfruttabile. Non resta più traccia di umanità!

Forse la solitudine rappresenta la fonte della disperazione, che muove l’uomo anche nell’angoscia di morte. Infatti la morte ci spaventa, solo come proiezione di vita, come termine di qualcosa che non è stata piena e “accompagnata”. Per cui, l’angoscia di morte in realtà non è altro che angoscia di vita, l’angoscia di una vita poco sentita, povera, mancante di qualcosa. Un’assenza, generata da una solitudine di vita costante e da una codardia che produce fuga e negazione. Allora, non si può tollerare che tutto finisca, perché questo tutto non è stato adeguato, non è stato sufficiente e soddisfacente, come se non fosse stato vero ma vissuto da dietro un vetro, privato di possibilità importanti. Questo tutto, è niente.

E la morte rappresenta la fine definitiva di una qualche possibilità, mai raccolta prima.

La solitudine è un sentire veramente divorante. E’ difficile da conoscere, da tenere a freno, da arginare. E’ come un fantasma che sfugge da tutte le parti. Incute un terrore profondo, desolazione e tristezza. Ci lascia vuoti, sfiniti, senza contenuti.

Nella maggior parte delle nostre esperienze, la solitudine è sinonimo di malessere e angoscia. Ma, in verità la solitudine costituisce anche un abisso da cui si può prendere le giuste distanze. Procedendo lungo un filo che unisce i due versanti perfettamente equidistanti, quali lo smarrimento e la lucidità cieca, si giunge ad un luogo sospeso, un’isola di serenità. Si tratta di giocare a fare il trapezista, di volteggiare e camminare con cautela su un terreno sospeso, procedendo sempre con grande attenzione, per non rischiare il volo senza rete di protezione.

E’ un compito di tutta la vita, è la connotazione della vita stessa.

Vista così, si percepisce subito la fatica immane, che tale percorso comporta. Se mai fosse realmente così, costituisce il prezzo dell’equità e del rispetto di sé, la rinuncia alla compagnia vacua, la distanza dalla dipendenza più bieca e strisciante.

J.M. Quinodoz ha parlato di solitudine addomesticata, rimarcando questa condizione come elemento base di vita. La solitudine, è una condizione che non ti abbandonerà mai, nel corso dell’intera esistenza. La vita sembra contenere il tacito obiettivo di addomesticarla, di renderla meno amara ed intollerabile, di aggraziarla e civilizzarla, ma non ha il potere di eliminarla.

Nel corso della nostra esistenza addomestichiamo la solitudine, esattamente come il Piccolo Principe di Saint Exupéry addomestica la sua volpe, cerca di renderla nota, riconoscibile, crea dei momenti comuni con lei, dove ci sia complicità, desiderio e affetto reciproco. Il Piccolo Principe addomestica la sua volpe fino ad amicarsela, a creare una storia comune, un passato e l’uomo cerca di rendere conosciuta e amichevole a sé, la propria condizione di vita.

Senza questo paziente lavoro di avvicinamento e frequentazione, la solitudine rimarrebbe come un animale feroce, una fiera imbelvita dalla paura e dell’insensatezza della propria condizione. L’uomo in preda alla solitudine più totale, arriverà perfino ad odiare sé stesso, preso da una rabbia continua, lacerante e macerante, dove in ogni istante si mischiano immagini, suoni, sensazioni, intuizioni, ricordi, tutto rinchiuso in una cantina umida ed interrata, lontana dagli sguardi e dalla comprensione del mondo.

Si tratta di una condizione di grande miseria, dove l’individuo si ritrova preda ignara della rabbia autoalimentante, diventata odio e rancore strisciante, che incrudisce oltre ogni tolleranza la solitudine, nelle sue forme più abnormi e sottili. E’ una solitudine immensa, vuota, atona, cieca, eppur senza spazio e tempo, assordante, deprivante e caotica nello stesso tempo. Una solitudine, che urla parole che non riusciamo ad udire e comprendere.

Si tratta di solitudine di vita, perché ha inizio già al momento della nascita e ci accompagna fino alla morte. Anzi, molto spesso si riversa e si proietta sulla morte stessa: la grande angoscia di lasciar andare e rimanere soli!

Questa condizione, quest’emozione immensa, profonda e inabissante d’angoscia, è la condizione che ci attanaglia fin dall’inizio. Al momento del parto, per il bambino comincia la prima grande separazione da quell’ambiente totale che è la madre. Un ambiente fatto di calore, di umidità, di flessibilità, di molleggiamento, di dolcezza, di amore, di parole ovattate, di umori nascosti, di scambi, protezioni e bisbigli invisibili. Un mondo indicibile, segreto e magico.

Ed ecco improvvisamente una grande spinta di vita e di crescita che ci catapulta in un ambiente freddo, rumoroso, quasi assordante, fatto di suoni spigolosi e diretti, asciutto, secco fino a prosciugare le narici, duro e rigido, senza alcun sostegno. Ma soprattutto un mondo separato! Separato dalla propria madre! Se si desidera averla vicina, si deve fare qualcosa perché ciò avvenga e non è detto che si ottenga. Nulla, è più così gratuito.

Ma che succede? Prima era sempre tutto presente, a disposizione, dolce e tenue, adesso tutto il mondo ha cambiato faccia, il nostro “mondo è caduto dai suoi cardini”, come recita Amleto.

Che grande stupore, meraviglia e quanta angoscia! Si è confusi, disorientati, sommersi da stimoli, a cui non si sa farvi fronte. Qui comincia il pianto! Qui comincia la solitudine più vera e profonda.

Una condizione di cui nessuno ha colpa, ma di fatto è questa ed è immensa.

Si è soli nel mondo e si deve imparare come farvi fronte, come fare in modo che chi ci circonda ci dia ciò di cui abbiamo bisogno e di cui ignoriamo l’origine. Completamente indifesi, siamo alla completa mercé degli altri, della loro disponibilità e bontà. Siamo nelle loro mani, nel senso più totale del termine: per mangiare, bere, soddisfare i bisogni di sonno, protezione, amore, considerazione, per sapere chi siamo!

Già, chi siamo!

Gli altri sono essenziali per vederci, per capire, per conoscerci, costituiscono uno specchio indispensabile. Le loro parole sono per noi, la via maestra, l’unica fonte di comprensione, l’origine dei nostri lumi, della lucidità, del senso, il senso e la verità stessa.

Ma che succede, se chi ci sta intorno, chi ci dovrebbe amare, proteggere e crescere, non riesce a funzionare come specchio, non ci rimanda la nostra immagine, ma un’immagine che non ci appartiene, frutto della mente e del cuore di chi la detiene e magari, di chi l’ha detenuta prima di lui? Che succede, se per qualche strano motivo, ci arrivano parole ed etichette estranee al nostro essere, ma così insistentemente definenti e inviate con rinnovata forza?

Che ne sarà di noi? Che ne sarà del nostro senso di identità, di continuità con il sé, del senso di coerenza con il proprio sentire, del riconoscimento fra corpo e anima? Cosa ne sarà di noi?

Quanto buio in fondo a noi stessi! Quanta confusione e quanta solitudine. Sì, una solitudine che si fa sempre più profonda, che varca i confini della nascita, per estendersi ad una vita più totale, imperviamente in salita. Non si sa cosa pensare, non si sa cosa stia capitando e per quale motivo sta capitando. Perché non ci vedono, non ci capiscono, non si prendono abbastanza cura di noi? Cosa c’è in noi, che non va? Non sappiamo da che parte girarci.

Sì, perché vedere gli altri per quello che sono, non è un processo facile. E’ scontato che dovrebbe essere così, ma non lo è! Ed il bambino che lo subisce, non può rendersi  conto di ciò. E spesso il bambino che subisce questa pressione, si convince che succede per “colpa” sua.

L’uomo non è mai scevro di un bagaglio suo personale, di un paio di lenti che lo inducono a vedere il mondo con una certa luce, con una sfumatura tutta particolare. Questo bagaglio non è altro che il frutto di ciò che lui è da sempre: personalità, atteggiamenti, pregiudizi, pensieri, emozioni, fantasie, aspettative e quant’altro può esservi incluso.

La sua visione del mondo, dipende sostanzialmente da ciò che è, da come vive sé ed il mondo circostante, da come vede le cose. Va da sé, che nel momento in cui si accinge ad affrontare qualunque evento, lo farà sulla base delle convinzioni e vissuti in suo possesso. Così, anche la nascita di un figlio verrà gestita nello stesso modo.

Ancora prima che lui nasca, si creeranno delle fantasie sull’evento, su come si desidera essere in quanto genitori, su come sarà questo figlio, su come andranno le cose. Noi non sappiamo come realmente sarà, ma non possiamo far a meno di prefigurarcelo, di immaginare cosa sarà meglio per lui, cosa vogliamo insegnargli, quanto amore vogliamo dargli, ecc.

E allora, per quanto amore possa esserci dentro noi, per quanto desiderio di farlo crescere nel modo più sano possibile, la verità è che nascerà con un vestito già cucito addosso. Questo vestito, che anziché riscaldare raffredda, crea la vera e profonda solitudine, perché allontana anche da sé stessi, rende persi ed estranei al vero sé.

Il bambino infatti, fidandosi cecamente di chi lo circonda, si dissuade precocemente circa la verità di quanto sente, a favore della verità familiare. Perseguire quanto aleggia nel fondo di sé, significa allargare progressivamente quella frattura fra sé e gli altri, fino a farla diventare una voragine insanabile. Perseguire la visione che gli altri possiedono di sé, comporta l’allontanamento dal proprio essere, a favore di una compagnia tiepida, di una vicinanza fatua, ma pur sempre “vicinanza”.

Comunque vada, siamo soli! Ma, il rispetto di sé induce ad essere accompagnati almeno da sé stessi e comporta l’addomesticamento di quella solitudine che ci appartiene da sempre.

Questa è una scelta difficile, quasi improbabile. Il bambino possiede un bisogno disperato di amore e vicinanza, sarà dunque disposto a qualsiasi cosa, per ottenerli. Quanto meno gli verranno dati come lui desidera, tanto più li cercherà per il resto della vita. Venderà anche la propria anima al diavolo, si umilierà e negherà il proprio sentire, pur di ottenere un minimo cenno di approvazione, di calore, un’affiliazione.

Farà di tutto, di più, ma nello stesso tempo perderà la propria gioia, la vitalità di bambino, l’ingenuità e soprattutto la fiducia, la sua forza più importante. Il dramma di questa grave perdita, è proprio la solitudine. Infatti, il bambino cercherà a tutti i costi l’approvazione altrui, ma perderà progressivamente fiducia in sé, come individuo capace, amabile e  in chi lo circonda, il cui amore sentirà come interessato, falso e condizionato. Vivrà e crescerà, sentendo segretamente di aver tradito sé ad un giuda e disprezzandosi nascostamente, non potrà più far a meno di guardarsi ad ogni angolo, per scovare nemici e detrattori.

Non esiste più, quel mondo incantato! Un mondo fatto di possibilità, di infinita ricchezza, di speranza e fiducia illimitata. Non si riesce più a staccarsi dalla concretezza, non si sogna più!

Diventeranno così, adulti che si prostrano al volere degli altri, senza mai osare esprimere un proprio desiderio, scapicollandosi per accontentare e confermare chi li circonda. Ci sarà la corsa agli impegni, agli hobbies, alle attività e organizzazioni di ogni tipo, qualsiasi cosa pur di non rimanere soli, pur di avere la pur pallida sensazione di “far parte”, di “saper fare”, di “saper dire”, di essere sotto l’attenzione altrui, di guadagnarsi la stima e la fiducia. Ma poi sulla base di cosa? Di quale criterio?

Di quale criterio non si sa, l’importante è correre, correre e fare, stare, stare con, cercare di non sentirsi soli, di non sentire. Si gioca a fare i genitori, a fare i professionisti, gli esperti in qualcosa, gli amici, i parenti …….

Ma, nonostante la giostra giri vorticosamente, il senso di solitudine non cambierà, non diminuirà, anzi aumenterà inesorabilmente, perché apparentemente si riduce la crepa fra noi e gli altri, ma si accresce quella fra noi e noi. Non possiamo più contare su noi stessi, sulla nostra intuizione, sul sentire, sulla stima di noi stessi e neanche lo sappiamo. Ormai è così tanto tempo che siamo dediti al conformismo che non sappiamo neanche chi siamo, dov’è il vero sé. Non sappiamo cosa sia la nostra sofferenza, non ne conosciamo l’origine e la direzione, rischiando di correre ancora più forte, in un inseguimento di felicità eteree e vacue.

Diventando grandi e indipendenti, ci s’illude erroneamente di essere finalmente liberi e completamente padroni della propria vita. Ma non è così, si possono fare molte cose ma non si può cambiare, ciò che non è cambiato fino ad allora. Non si modificano le etichette su di noi, il tipo di rapporto con i nostri genitori, non possiamo cambiarli! Questa frustrazione non potrà essere mai lenita. Nessuna attività, oggetto o persona cambierà la desolazione subita.

Sarà una vita presa da lavoro, figli, palestra, cene, scommesse, oggetti, acquisti, sesso, denaro e quant’altro si può mettere. Fino a che un giorno, magari uno di questi elementi cade, lasciandoci in un crollo più totale. Quest’occasione, può essere accolta come possibilità di cambiamento, oppure ancora ignorata e affrontata come tutto il resto, magari con un altro riempimento, con un farmaco e con l’ignoranza. Tutto questo, finché dura la giovinezza, la forza e l’energia, perché la vecchiaia poi, porterà una rinnovata ondata di solitudine, tristezza, malattia e morte.

Quale bilancio mai, si può fare di una vita condotta così?

Forse è per questo che spesso, si evita di fare bilanci!

Ci sono bambini poi, così tanto, eppur segretamente e invisibilmente feriti, che saranno danneggiati nella loro capacità di procreare, ma ancora di più nella loro fiducia di poterlo fare. Il loro rapporto con i genitori è così tanto distorto e la stima di sé così stranamente compromessa, da non riuscire a pensare di poter essere generosi e creativi. Così, perderanno due volte sé stessi, saranno privati della possibilità di fare i genitori, di stare dall’altra parte della medaglia e della possibilità di rivedere a più riprese, sé stessi e la propria infanzia.

A volte, il frutto di ciò origina proprio da una falsa immagine di genitori perfetti, di genitori altruisti e generosi oltre ogni umana possibilità. Per il figlio, non sarà mai possibile competere con una tale famiglia, non è neanche pensabile riuscire ad essere genitori altrettanto bravi! Ancor meno, sarà pensabile di poter essere arrabbiati con loro, per qualunque cosa o di fare scelte di vita proprie. Quindi, vivranno attribuendo a sé e solo a sé ogni nefandezza, l’ingratitudine, l’incapacità come figli, come genitori, come persone imperfette!

Dentro, perpetuerà il lacerante conflitto: io o loro? In momenti cruciali della propria vita, si rinnoverà il peso della rinuncia, quella rinuncia che i suoi genitori hanno sostenuto per lui, per crescerlo, per amarlo, per non fargli mancare nulla, per essere sempre equi. Non ci sarà possibilità alcuna, se non quella di soccombere sotto questo peso. E’ veramente difficile, lasciarli andare. Al contrario, rinuncerà realmente a sé!

C’è chi invece, pressato da quest’insoddisfazione nascosta, che la solitudine rimanda segretamente, somatizza o proietta sul corpo, passando la propria vita da un’indagine all’altra, da una diagnosi all’altra, da un intervento all’altro, tagli, asportazioni, bruciature, cicli farmacologici, antibiotici, ecc. Il corpo sarà sempre più depauperato, martoriato e perso. Ogni malattia, costituirà un’occasione di consapevolezza e cambiamento, ma difficilmente si riuscirà a coglierne il reale messaggio, a favore di una condizione concreta perseverante, che finirà per togliere la vita.

Nel frattempo però ad ogni nuovo specialista, la persona sofferente rinnoverà la sua speranza, di trovare la causa del suo “dolore” e la sua risoluzione, per conquistare il benessere agognato. Ma, questa speranza sarà ogni volta delusa ed il benessere raggiunto, di brevissima durata. Ad ogni giro, ci si allontana sempre più da sé e dalle cause della propria sofferenza originaria.

In questa condizione di solitudine primigenia, si può anche perdere il senno e offuscarsi la coscienza con una diagnosi, che ci renda ragione e giustifichi la ritirata dalla vita. Può trattarsi di una diagnosi medica, ma anche di diagnosi psichiatrica, si fa i “malati di nervi”, i “matti” e si fugge. Non si assume nessuna responsabilità, non si è abili al lavoro, non si è capaci di amare, di pensare, di occuparsi di sé, tantomeno di qualcun altro. 

Questa “soluzione” non solo è deresponsabilizzante, ma anche molto aggressiva. Infatti, chi ci circonda deve subire passivamente questa condizione, senza poter far nulla. Familiari e amici devono fare al posto di, devono sostituirsi per proteggere, sostenere, scegliere e aiutare, in tutto ciò che il malato non può e non vuole fare.

C’è chi non accetta questa sorte e non ne vede altra. Sceglierà una via ancora più drastica attraverso il suicidio, che lascia ancora gli altri a subire un’aggressività e una violenza senza confini, inaffrontabile. Il peso e la solitudine altrui, sarà ancora più grande e inesorabile.

Dall’altro lato, abbiamo chi è più vicino al proprio sentire e all’origine di questo “grande male” e da sempre, per una strana combinazione di fattori, non si è mai affiliato al sistema prevalente e ai giochi scaccia solitudine. Il più delle volte, si tratta di bambini ribelli, quelli che hanno trovato in quest’etichetta una sorta di via d’uscita. Grazie alla combinazione di ribellione, spiccata sensibilità, consapevolezza e forza di vita, sono riusciti ad andare oltre. In questo caso, la ribellione è solo la forma esterna di una condotta orientata a cercare sé stessi, svincolata dalla ribellione stessa, che costituisce la più nascosta e potente forma di dipendenza.

Questa scelta, comporta un prezzo molto alto. Prezzo rappresentato, non solo dal ritrovarsi nella più profonda solitudine, ma anche in una condizione segnata da rifiuto, disapprovazione, svalutazione, disprezzo. Si tratta di un individuo strano, anomalo, forse di un errore del sistema, perché non gira come tutti gli altri, non apprezza ciò che apprezzano gli altri, non gli va bene nulla, non gli basta mai. Del resto, fin da piccolo è sempre stato difficile e ha dato un gran da fare a quei poveri genitori, che non sapevano proprio più da che parte prenderlo, l’hanno provate proprio tutte!

Adesso più che mai, riuscire ad addomesticare la solitudine, attraverso la ricerca di compagni di viaggio e di consapevolezza, costituisce un obiettivo di vita e serenità.

Trovare qualcuno che riesca a comprendere e condividere non elimina la condizione di base, di solitudine profonda, ma rende ragione della propria scelta di vita, contribuisce a dargli un senso e a tollerare meglio questo profondo sentire.

Si tratta di una condizione che mi fa venire in mente la fiaba La Bella e la Bestia. L’ultima figlia Bella, non desidera come le altre sorelle, vestiti e gioielli, ma qualcosa di diverso e al padre che si reca al porto, chiede delle rose. Forse desidera altro perché lei è diversa e forse, anche per non gravare sul padre già in rovina. Proprio questa sua condizione di ultima figlia, che subisce la pressione degli adulti e delle sorelle maggiori, nonché la sua diversità, le conseguono invidia, disprezzo e quest’increscioso incidente con la Bestia, che minaccia la vita del padre.

Bella deve pagare il suo prezzo, deve andare dalla Bestia per render ragione di aver desiderato qualcosa di diverso dal fatuo e materiale, deve render ragione di ciò che è e della propria dedizione di figlia. La ragazza paga per sé e per il padre, il quale non si assume la responsabilità di ciò che fa e non fa. E’ lui che dovrebbe mettere un freno alle figlie, che gli chiedono vestiti e gioielli ed è lui che entra in quel giardino a cogliere delle rose, che non gli appartengono. Ma non lo fa e la figlia fa per lui, lo salva, assumendosene tutto il carico, la responsabilità, l’ingiuria ed il destino.

La Bella e la Bestia si addomesticano a vicenda, imparano a conoscersi, ad abituarsi l’un all’altro, ad avere una reciproca fiducia e rispetto. In particolare, la ragazza impara ad andare oltre l’aspetto e le apparenze, per avvicinarsi e valorizzare qualcosa, che va oltre la mostruosità animale e umana. Ed è per questo che si verifica un vero addomesticamento, perché si crea un legame profondo di comprensione, di sentire ed empatia, con l’altro e con sé.

Grazie a questa miscela, l’incantesimo si scioglie e la Bestia ritrova le sue antiche sembianze umane, rinnova sé e la propria ricchezza. Bella da parte sua, ritrova la propria bestialità, l’anima più profonda, la solitudine incantata. E’ il fondo di noi stessi, la vera essenza, al di là di condizionamenti, etichette e false sembianze.

Ma quante Bella ci sono nel mondo?

Chissà se quel bambino che ha subito tanta triste pressione, riuscirà mai a trovare le parole per dire ciò che ha sentito, se troverà mai la consapevolezza per esprimerla, se darà mai ragione di ciò che è, se si spiegherà certe incongruenze, certi lati oscuri e fastidiosi del proprio carattere. Chissà, se avrà mai compassione di sé. Chissà, se troverà mai la voce per urlare tutta la sofferenza ed il dolore.

Forse urlerà come genitore, troverà una rinnovata opportunità di consapevolezza e di crescita con i propri figli, per loro e per sé. Proiettando la propria condizione d’infanzia nei propri bambini, avrà a disposizione uno specchio lucente e ricco. Sarà cura dei più umili e dei più consapevoli, usare questo specchio magico e saper cogliere quest’importante opportunità.

Per operare questo salto quantico, è necessario un ulteriore passaggio evolutivo, la capacità di lasciar andare una parte di sé a cui ci si è aggrappati prepotentemente, che ormai costituisce solo una zavorra, un ostacolo, per poter volteggiare sulle onde.

Questo salto è ben rappresentato dal protagonista di Cast Away, film di Zemeckis. Il protagonista Chuck Noland, è un naufrago finito su di un’isola deserta dopo l’ammaraggio del proprio aereo. Per sopravvivere alla desolante solitudine, proietta una parte di sé in un pallone, “Wilson”, a cui disegna occhi e bocca, come fosse una faccina che sta lì a guardarlo, ascoltarlo, giudicarlo, a ricordargli paure ed angosce. Wilson rappresenta una parte, che in un certo senso lo trattiene, lo tiene lì, lo farebbe morire lì senza speranze, schiacciato dal timore di non riuscire. Ma è anche una parte importante, un alter ego, è l’altro del dialogo, colui che gli ha permesso di sopravvivere e addomesticare la propria solitudine.

Nel momento in cui il protagonista s’imbarca in mare aperto, per provare a tornare a casa, deve lasciar andare Wilson, pena la sua vita. Per rientrare nel mondo socializzato, per poter vivere con gli altri e scambiare qualcosa con loro, deve rinunciare a ciò che gli ha permesso di addomesticare la solitudine, in un contesto di totale isolamento. Wilson è la proiezione di una parte di sé, è un mondo isolato ed autistico, dove la persona riesce a far a meno di tutto e di tutti, funzionale in un’isola deserta ma non in un mondo di relazioni.

E’ necessario compiere questo passaggio, lasciar andare quel qualcosa che ha permesso di sopravvivere e costruire, che han rappresentato un grande sostegno e spinta in un momento di burrasca, ma che ad un certo punto diventa vincolo e catena, che deve essere spezzata. Ad un certo punto si deve andare verso gli altri, addomesticare la propria solitudine, non tramite oggetti o contenuti privati della propria mente, ma attraverso il legame con gli altri. Solo attraverso lo scambio, esiste vera ricchezza e crescita consapevole.

Gli altri, non sono più mera proiezione silente, come poteva essere Wilson, che non contestava, non dava torto, frustrazione o delusione, ma costituiscono uno specchio che rimanda dei contenuti che interagiscono. Gli altri non ci soddisfano come vogliamo, ci contraddicono, ci odiano, ci detestano, ci adorano, ci amano. Noi, insieme agli altri viviamo e cresciamo nella propria solitudine.

Noi, con i nostri figli, vissuti come altro nella relazione, siamo in possesso di un’opportunità di consapevolezza e crescita incredibile. Questo legame costituisce una porta privilegiata verso il passato, una finestra che si apre nella propria infanzia, la possibilità di vedere e sentire ciò che abbiamo vissuto a quel tempo là senza completa consapevolezza, ma con la chiarezza e la forza di ora, dell’adulto che siamo diventati.

E l’adulto oggi, ha veramente la possibilità di stare con quel bambino, di addomesticare la sua solitudine, di camminare con lui, di aspettarlo ad appuntamenti e luoghi ormai noti ed amati da entrambe. L’adulto può stare con il bambino che è stato, amarlo e comprenderlo, come nessuno ha mai saputo fare fino ad ora.

Nello stesso modo l’adulto genitore, può accompagnare il proprio figlio nella vita, aiutarlo a crescere con tutto l’amore che ha, aiutarlo ad addomesticare la sua solitudine senza creare un legame che vincola, ma al contrario con un legame che gli permetta di volare più libero possibile, quando il suo bisogno lo chiederà.

Solo così la solitudine sarà addomesticata, sarà compagna di vita. Solo così ci sarà consapevolezza e vita vissuta interamente. E forse così, la morte non sarà poi un mostro così terribile, ma un’umana possibilità. Non un’ancora di salvezza, ma un punto di passaggio.

Si passa così da una solitudine percepita come un abisso divorante ad una solitudine come “contenitore vuoto”, che pazientemente attende creazione e scambio, attende un contenuto da sentire, pensare, donare.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Saint Exupéry (1993). Il piccolo principe.

Quinodoz J.M. (1992). La solitudine addomesticata. Roma, Borla,

Kafka F. La metamorfosi.

Robert Zemeckis (regista) (USA, 2000). Cast Away, attori: Tom Haks. Helen Hunt. Genere: drammatico-avventura.

 

 

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