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13 giugno 2011 1 13 /06 /giugno /2011 10:37

Bugia, Fantasia, Negazione,

Vergogna?

 

Dott. sa Sabrina Costantini

 

 

 

Quando la bugia interviene nel corso di una relazione, costituisce sempre un elemento di disturbo e turbamento. Avvertire che l’altro ci sta mentendo, con prove o meno certe, insinua un’ombra di sospetto e sfiducia, che incrina inesorabilmente quel rapporto.

Lo incrina perché ci disorienta, non sappiamo chi è colui che ci sta davanti, che ci fornisce una certa immagine di sé. Cosa di tutto quello che ci rimanda, è vero? Cosa di quello che ci vuol dare ad intendere, è reale? Quanto sono sincere le emozioni, la simpatia, l’attenzione, le parole, che ci sta rivolgendo? Cosa noi, rappresentiamo per lui/lei? A cosa dobbiamo credere? La realtà in quel momento è incerta, instabile e inafferrabile, non abbiamo sicurezze e ci sentiamo senza strumenti, di fronte a questa persona rivelatasi sconosciuta.

La bugia del bambino disorienta ancora di più il genitore, che si trova a doverla gestire malgrado lui. Ma a differenza della relazione con un adulto che mente, che spesso si chiude o si limita in quantità, tempo, fiducia, in questo caso ci troviamo a non poter far a meno della relazione stessa, per amore, per necessità, per responsabilità, ecc. Qui, si crea la prima difficoltà, di origine emotiva.

Molto spesso, l’idea di aver a che fare con un figlio moralmente non adeguato suscita così tanta ansia (non sempre consapevole e riconosciuta), da produrre un’attribuzione di valore rispetto alla sua condotta, a volte prematura e inesatta. Immediatamente si affacciano alla mente domande come: “Che individuo è diventato mio figlio?”, “Chi è?”, “In cosa ho sbagliato?”

E spesso tutto questo termina con un “Bugiardo!”, pieno di disprezzo, rabbia e paura. E la relazione comincia a incrinarsi, la persona comincia a distanziarsi, s’insinua il dubbio ed il tacito sospetto. E quando questa persona è nostro padre e/o nostra madre, è un vero dramma!

Cerchiamo di togliere un po’ di pesantezza a questa condotta e proviamo ad addentrarci in questo tunnel sconosciuto. Partiamo da una semplice definizione, proveniente da uno dei tanti vocabolari della lingua italiana: “la bugia consiste nell’affermazione volutamente contraria alla verità”.

L’elemento fondamentale consiste nella volontarietà, ovvero dall’intenzione di affermare una cosa al posto di un’altra. Questa consapevolezza è fondamentale per poter distinguere la bugia da altri meccanismi, come l’errore, l’atto di sbadataggine, la negazione, ecc. E soprattutto ci permette di osservare con maggiore rilassatezza e con una visione maggiormente ampia, la condotta (verbale e non) del bambino.

Uno dei problemi di fondo infatti, consiste nel valutare i bambini con lo stesso metro usato nei confronti degli adulti, attribuendogli responsabilità, consapevolezza, intenzionalità, che non hanno e non possono avere. L’imitazione persistente infatti, porta il bambino a copiare spesso la condotta, i modi di fare e di dire, lasciando intravedere una consapevolezza che non c’è. Ad una data azione infatti, non corrisponde necessariamente tutto il processo che noi presumiamo ci sia, sulla base della nostra quotidianità. Solo l’esterno, la parte più visibile ed esplicita è analoga (un comportamento, una frase, un modo di dire), non ciò che ci sta sotto.

Quindi la prima domanda da porsi è: “Cosa sta facendo questo bambino?” “Cosa sta dicendo?” “Che intenzioni ha?” “Con quale significato, sta facendo tutto questo?” Cosa ci sta comunicando?

Si deve cioè cercare di verificare se ad una data condotta, corrisponde realmente il significato che apparentemente gli pertiene. Ritornando alla definizione, si deve prima di tutto valutare se il piccolo ha consapevolezza, se sta operando un’omissione o distorsione volontaria della realtà.

Bisogna ricordare che il bambino non possiede la consapevolezza, lo sviluppo cognitivo ed emotivo dell’adulto, per cui i mezzi a sua disposizione ed i meccanismi messi in gioco, sono profondamente diversi da ciò che conosciamo. Partiamo dal fatto che, il bambino è caratterizzato da onnipotenza ed egocentrismo.

Non dobbiamo confonderci, attribuendo a questi due concetti un valore morale, non si tratta di un atteggiamento esibizionistico o prepotente, bensì di uno sviluppo cognitivo non ancora compiuto. Quando si parla di onnipotenza, ci si riferisce alla mancata separatezza fra realtà e fantasia, ovvero il bambino non distingue fra ciò che pensa e ciò che realmente accade, può accadere o che sa far accadere. Sotto la spinta dell’onnipotenza, è convinto che basta pensare un evento perché si verifichi, come se la sola forza del pensiero lo rendesse realizzabile. Una condizione analoga a quei disturbi psichiatrici importanti, dove si manifesta confusione e scarsa consapevolezza, connessi ad un senso di potere sul mondo, fuori della realtà (ne sono un esempio i deliri, le convinzioni erronee). Ma, nel bambino è solo una mancanza di capacità, che è in via di sviluppo, nell’adulto psicotico è un’assenza ormai strutturata e costitutiva dell’identità patologica.

Per fare un esempio, se il bambino prova rabbia nei confronti di una persona vicina e se questa persona si ammala, finisce all’ospedale per un incidente, malattia o addirittura muore, capita che il bambino si senta responsabile, come se il suo sentire rabbia ed il fantasticare di far del male, porti realmente ad un’azione concreta di malattia o morte. Lui pensa di essere responsabile effettivamente, di quella condizione (malattia o morte).

Non distingue cioè fra la realtà e la fantasia, o comunque fra la realtà concreta e la realtà mentale, che non coincidono. In virtù di questo, si attribuisce un potere ed una capacità che effettivamente non possiede, come se la capacità di pensare tutto, gli fornisse l’abilità e la possibilità, di fare effettivamente tutto. Non ci sono limiti al pensiero e al fare, tutto è realizzabile!

Questa caratteristica del pensiero, da una parte fornisce un senso di potere, per cui permette di affrontare in modo più sostenibile l’impotenza nei confronti del mondo esterno, fornendo un senso di possibilità illimitato, dall’altra fornisce un senso di responsabilità enorme, talvolta schiacciante (come nell’esempio appena citato) e irrealistico. Non per niente, l’onnipotenza rappresenta un’espressione del pensiero magico.

Solo con l’accrescersi dello sviluppo cognitivo si fonda la distinzione fra realtà e fantasia, fra pensiero e azione concreta, comprendendo che non ha così tanto potere come credeva, ci sono dei limiti. I primi significativi passi, verso l’acquisizione di quest’abilità iniziano a 5-6 anni.

Ciò non significa che l’onnipotenza venga realmente abbandonata. Molto spesso infatti, lo sviluppo cognitivo e affettivo non procedono di pari passi, mostrando uno scivolamento dell’una sull’altra, per cui anche se lo sviluppo cognitivo ha proseguito nel suo sviluppo, l’onnipotenza può essere conservata come modalità difensiva o come prodotto di relazioni ed elementi emotivi inadeguati, che producono meccanismi adattivi, a vario livello.

Facciamo un semplice esempio, l’adolescente ha ormai acquisito in modo definitivo e stabile la reversibilità del pensiero, la capacità di pensiero ipotetico deduttivo, quindi la distinzione fra realtà e fantasia, nonostante ciò può verificarsi uno scivolamento in questo senso e può capitare che sopravvaluti le proprie capacità in certi ambiti (es. alla guida, utilizzo di droghe, nell’applicare la forza fisica, nella cognizione rispetto a certi ambiti, ecc.). Lo sviluppo del pensiero è adeguato e connesso con la realtà, ma può presentarsi un’incapacità emotiva, di affrontare la frustrazione e l’impotenza.

L’egocentrismo come esposto da J. Piaget (vedi Petter), si riferisce al processo che il bambino attua nel mettere sé stesso al centro dell’universo, ma come già detto, non nel senso di un atteggiamento presuntuoso o prepotente, bensì come processo in sintonia con l’onnipotenza. Abbiamo visto che, fino a circa 6-7 anni cioè, il bambino non distingue fra realtà e fantasia, fra sé e gli altri, fra quella che è la sua responsabilità e quella degli altri, quella che è la sua capacità di incidere sul mondo e di esserne responsabile e quella che non lo è. L’egocentrismo ci dice ancora di più: non riesce a mettersi dal punto di vista dell’altro, non riesce a cambiare prospettiva. Tutto ciò non perché sia egoista, ma perché il suo pensiero manca di reversibilità, manca della capacità di manipolare mentalmente i processi ed i pensieri, non sa pensare in astratto, è ancora legato alla pregnanza percettiva di ciò che gli capita. Detto in modo più semplice e sbrigativo, vede la realtà dalla propria prospettiva, in base a ciò che è lui e a ciò che gli capita davanti concretamente, incontrando difficoltà a pensare ribaltando la prospettiva, a zoommare indietro e in avanti, a vedersi parte di un processo più ampio. Tenere a mente un oggetto o un evento, anche quando non è lì presente davanti a lui, non è semplice e scontato, ma richiede un processo di interiorizzazione di quell’oggetto, diventato immagine, che può essere mentalmente e astrattamente manipolata, come in passato lo era stato l’oggetto concreto. Imprimere per così dire, un’immagine nella propria mente, poterla manipolare, archiviare, recuperare successivamente e ancora utilizzare in base alle esigenze, comporta un processo mentale assai complesso.

Per fare un esempio, questa difficoltà la riscontriamo nel momento in cui chiediamo al bambino di disegnare il paesaggio che ha davanti, come se stesse dal lato opposto in cui sta guardando. Per operare un tale processo è necessario manipolare mentalmente l’immagine, ribaltarla e spostare la prospettiva dello sguardo ad una certa angolazione. Tutto ciò non è né semplice né innato, ma acquisito dopo una infinita serie di processi cognitivi.

Ora cerchiamo di applicare tutto questo al concetto di verità o bugia, capiamo bene che non è così ovvio che una certa espressione, implichi la trasmutazione intenzionale della realtà. L’intenzionalità infatti, prevede che vi sia piena capacità e consapevolezza. Fin tanto che il bambino non sa distinguere fra realtà e fantasia e non sa spostarsi mentalmente su prospettive diverse, non sa immedesimarsi nell’altro, non sa tenere a mente ciò che non è più percettivamente presente, non può dire bugie come le intendiamo noi. Dirà delle cose non vere, ma non per ingannare intenzionalmente, ma perché ritiene che il solo fatto di desiderare una cosa, la renda vera o perché non riesce ad allargare l’orizzonte e vedere ciò che dice e che fa, nella prospettiva della relazione con gli altri e del possibile effetto.

Il realismo morale (Piaget) del resto, ci mostra ancora una volta questo processo. Nei suoi studi Piaget, aveva ideato una serie di ricerche, che andavano ad indagare lo sviluppo del giudizio morale. In uno dei suoi esperimenti aveva verificato che fino a 5-6 anni i bambini ritengono ad esempio che fra due bambini che abbiano parimenti preso di nascosto la stilografica del padre, compie un errore più grande il bambino che fa una macchia d’inchiostro più grande. Si parla di realismo morale nel senso che, i criteri di valutazione della condotta, sono rappresentati dalle conseguenze visibili, per cui è la macchia più grande crea una colpa più grande e non l’atto in sé di aver sottratto indebitamente un oggetto. Parimenti, in altri esperimenti in cui si chiedeva il giudizio sulle bugie, emerge che per i bambini piccoli, è più grave dire bugie all’adulto piuttosto che ad un altro bambino, perché l’adulto se ne accorge più facilmente o perché l’adulto è più importante del pari, è “sacro”, un’autorità. Il bambino cioè ci mostra di essere incapace di formulare concetti astratti sulle regole morali, sulle regole relazionali e di vita.

Riflettiamo sul perché non si devono dire bugie. Non perché lo diciamo noi, non perché lo prescrive la morale, l’etica o il buon gusto, ma in quanto espressione di mancanza di presa responsabilità di sé, delle proprie idee e azioni (dalle piccole alle grandi) e conduce alla rottura della fiducia dell’altro, della relazione, fatta di reciprocità e costruzione. Tutto ciò, comporta una serie di acquisizioni cognitive, emotive, relazionali complesse ed articolate, che giungono ad una fase di totale e matura acquisizione, solo con l’età adulta.

Anche se si parla di un’età di 6-7 anni come termine di confine per l’inizio di acquisizioni cognitive, che superino l’egocentrismo, l’onnipotenza ed il realismo morale, la cosa è molto sfumata. In realtà già prima di quest’età, vi sono i prodromi di queste abilità e quindi le prime forme di bugie, che non sono ancora piene e definitive. Inoltre, a 6-7 anni i confini non sono ancora netti, non sempre egocentrismo e onnipotenza sono superati pienamente, a favore di una completa reversibilità (a 8-9 anni circa) e di un pensiero ipotetico-deduttivo (10-11 anni).

Queste quindi, le premesse per definire bugia, una non verità.

Stabilito se siamo o meno di fronte ad una bugia, passiamo alla seconda fase: chiederci perché. “Perché sta mentendo?” “Con quale scopo?” “Cosa sta capitando nel suo mondo?”

Se da una parte l’adeguata valutazione dello sviluppo cognitivo, ci impedisce di classificare erroneamente una condotta, dall’altra conoscerne la causa, ci permette di affrontare quella data condotta, più serenamente e adeguatamente.

A questo proposito si deve tener presente che il bambino si trova a dover scegliere assai presto, nella sua vita concreta appariranno velocemente la necessità di decisioni su quale direzione prendere, dalle piccole alle grandi cose (quale giocattolo preferire, quale cibo mangiare, con quale persona giocare, dove andare, ecc.). In questa serie quotidiana e infinita di scelte, c’è una grande incognita: faccio ciò che desidero io o ciò che i genitori mi dicono di fare? Seguo o no, un divieto genitoriale?

Qualunque sarà la direzione scelta, dovrà rinunciare ad una parte di sé, o rinuncia a ciò che desidera o rinuncia alla gratificazione di un’aspettativa genitoriale. In base a quali forze spingono per determinare una data scelta, ancor più della scelta in sé, il bambino si troverà in una situazione di rabbia, frustrazione e angoscia oppure di sufficiente serenità. Che scelga per l’una o l’altra cosa poco importa, importa ancor di più se lo fa per amore, per contrapposizione, per sfida, per paura, ecc.

Forniamo alcuni esempi. Se sceglie di giocare anziché di studiare, come desidererebbero i genitori, per il piacere del gioco e di un particolare gioco, alla fine ne risulterà soddisfatto e la frustrazione di un eventuale brutto voto, del disappunto genitoriale, sarà sicuramente accettabile e passeggera. Se invece compirà la stessa scelta per rabbia, per opporsi al volere genitoriale, non godrà di quell’azione, ma ne sarà oltremodo frustrato, perché si troverà in uno stato costante di ansia e stress, rispetto alle possibili ripercussioni genitoriale, scolastiche, ecc., sarà preso dal costante sforzo di avere ragione e voler essere riconosciuto. Ugualmente, se sceglierà  di studiare per far sentire orgogliosi i genitori, sotto la spinta dell’amore per loro e di una relazione sana, sarà lui stesso felice di renderli fieri e sarà orgoglioso di sé, della soddisfazione relazionale e scolastica. Ma se la stessa scelta (studiare), sarà compiuta per paura della disapprovazione, della perdita di amore e di stima, allora anche in questo caso non trarrà nessun piacere, né dalla soddisfazione genitoriale né dal buon esito scolastico, perché sarà sempre in ansia, costretto a tenere tutto sotto controllo, per evitare eventuali fallimenti.

Capite bene come la stessa azione può condurre a condizioni emotive ben diverse, di conseguenza ad un assetto interno particolarmente sereno o ansiogeno. Ciò determinerà il bisogno all’eventuale utilizzo di meccanismi di difesa e strategie, per ritrovare un sufficiente equilibrio. La negazione e la “bugia” possono essere due strumenti importanti, per ricreare l’equilibrio perso.

Si esprime il bisogno inconsapevole di negare una parte della realtà, per la propria sopravvivenza emotiva. Con questo strumento, il bambino può escludere che i genitori lo rifiuterebbero se fallisse, può fingere di non aver ragione, di non provare soddisfazione per un bel voto o per l’approvazione genitoriale, può “cancellare” un conflitto intollerabile, ecc. Ovvero, la negazione serve per eliminare dalla consapevolezza una parte del conflitto, una parte della realtà, in modo che la soluzione scelta, sembri quella giusta, l’unica possibile e non la rinuncia a qualcosa, la costrizione in una qualche direzione. La negazione riguarda anche gli altri, ma principalmente riguarda sé, cioè nega qualcosa a sé stesso, per incapacità di sostenere una certa dinamica interna. Quindi non si tratta tanto di nascondere agli altri la propria realtà (questo poi di riflesso avviene), ma principalmente di nascondere a sé, qualcosa che non si riesce a digerire.

La bugia può essere di vari tipi, può assumere più la forma della negazione, ad esempio mentendo a sé circa l’aspettativa genitoriale, circa la competizione e lotta con loro, ecc. Ma può anche assumere la forma della vera e propria bugia, dove mente su ciò che ha fatto o detto, per incapacità a sostenere la propria scelta, ad esempio dirà di aver studiato, anche se non l’ha fatto, per difficoltà a esprimere in modo aperto il conflitto con i genitori, per timore di avere la loro disapprovazione, ecc. In questo secondo caso, la bugia è più rivolta agli altri, il bambino sa cos’ha fatto, ma non riesce ad affermarlo di fronte a loro, non sa darsi il diritto alla propria scelta.

Esistono poi le fantasticherie, utili per ristabilire un equilibrio mancante, per riempire un vuoto angosciante, per evitare la realtà, come strategia produttiva e riempitiva, ecc. Ad esempio Vanessa (3 anni), che non può avere un cane, ha raccontato alla zia che presto cambieranno casa, avranno un giardino grande e un bellissimo cane, che la inviterà e giocheranno insieme. La piccola abbonda di dettagli e si sforza di coinvolgere la zia in una realtà fantasticata, che in quel momento finge sia vera, per poter sopperire all’ansia e alla frustrazione di un desiderio non soddisfatto. In lei, non c’è intenzione di ferire gli altri, di mentire e tradire la realtà, ma semplicemente il bisogno di tollerare l’impossibilità, di intervenire su una realtà spiacevole.

Altro esempio, Angela (4 anni) produce un disegno molto articolato della sua casa con i suoi abitanti, dove rappresenta sé alla finestra che guarda i suoi due cani. In realtà non ha cani, ma anche in questo caso non è una bugia, bensì la proiezione di una dinamica interna, Angela non sta rappresentando la realtà concreta ma quella emotiva, dove i cani assumono una parte di sé.

Agnese di 14 anni, mente alla madre circa l’età dei ragazzi del gruppo con cui vorrebbe uscire. Si tratta di una vera e propria bugia, non tanto per raggirare i genitori, bensì per timore di non avere il permesso di uscire con loro e di saperne discutere, per cui cerca di prevenire il conflitto e la frustrazione del divieto, nascondendo e modificando una parte della realtà.

Spesso, questi meccanismi (bugia, negazione, fantasticheria) si mescolano e confondono fra loro, creando ulteriore disorientamento. Soprattutto quando il rapporto fra realtà e fantasia non è ancora chiaro, anche i meccanismi vengono usati in modo indiscriminato. Sta all’adulto, mettere insieme ciò che vede del bambino, della sua condotta, di ciò che gli capita intorno, di ciò che succede nelle sue relazioni e ciò che dice o non dice.

Quelli citati sono solo pochi dei tanti possibili casi, ve ne sono un’infinità: brutti voti, cibi che non si apprezzano, abitudini impegnative (stare a tavola composti, lavarsi le mani, andare a scuola, fare i compiti, ecc.), rapporti conflittuali con insegnanti, rapporti difficili con i parenti, situazioni di violenze extrafamiliare, violenza familiare, desideri repressi (voler diventare come l’eroe preferito, desiderare un oggetto particolare, ecc.) e via dicendo.

Ci ricorda in modo chiaro quanto sia importante comprendere la natura della menzogna, la causa. Il perché di una data bugia fa molta differenza, prima di tutto fornisce una certa razionalità, un senso ed un controllo a quanto sta capitando. Ciò è fondamentale per i genitori, che di fronte alle bugie, soprattutto alle prime bugie del figlio, si trovano spiazzati, spersi, spaventati e proiettandosi nel futuro, vedono già un “figlio delinquente  o disonesto”.

Il perché inoltre, ci permette di capire cosa sta succedendo a nostro figlio, quali sono le sue dinamiche interne e quali quelle esterne, in relazione con noi e con l’ambiente più allargato. Infine, ci permette di intervenire con ragion di causa, in modo mirato, consapevole ed appropriato.

Capire cosa sta succedendo nel mondo interno di nostro figlio, nella sua relazione con noi infatti, permette di non intervenire con punizioni, rimproveri, accuse e litigi, ma di andare oltre il fatto in sé e per sé, usandolo come mezzo. Punire e rimproverare per una bugia, attribuisce ancora più peso e valore alla bugia stessa, creando un possibile circolo vizioso che va ad alimentarla. Il bambino si sentirà incompreso e pieno ei rancore, la bugia diventa un’arma rispetto alla relazione, proprio perché tanto intollerabile e irritante, per il genitore.

Comprenderne le ragioni e andare ad incidere su quelle ragioni, fa sì che la bugia venga vista e trattata come un sintomo, come uno strumento inappropriato, per esprimere una sofferenza, non come il problema in sé.

Generalmente, ciò che il bambino vive come intollerabile, al punto da doverlo nascondere o camuffare con la menzogna, corrisponde a ciò che i genitori vivono come intollerabile. Se i genitori non riescono ad accettare l’immagine di un figlio diverso da quanto loro si aspettano (sano, di successo, bello, simpatico, ecc.), questi a sua volta, più o meno consapevolmente, non potrà accettare di presentarsi loro con delle discrepanze, diverso da ciò che loro desiderano. Allora dovrà creare un mondo alternativo, diverso da quello in cui vive quell’immagine che non gli appartiene, un mondo dove si sente veramente sé stesso. Bugia, fantasticheria e negazione, diventano i mattoni di questa dimensione.

Nella realtà questa dinamica non è sempre così visibile e possente, ma spesso assume dei contorni più usuali, accettabili, subdoli. Pensiamo ad esempio alla difficoltà ad accettare che i piccoli rifiutino certi cibi, che non sentano il desiderio di baciare i propri cari, di fare le cose che fanno i familiari, di volere andare all’asilo o a scuola, di amare l’acqua, ecc. Insomma, talvolta sotto forme educative usuali e apparentemente appropriate, si nascondono delle forti paure e di conseguenza, la mancata  accettazione.

Per esemplificare, se all’interno della famiglia allargata i piccoli del parentado apprezzano tutti i cibi e i propri figli al contrario, non amano frutta e verdura, è possibile che il genitore si sentirà pieno di paura, inappropriato e vivrà il timore di essere giudicato un cattivo genitore, educatore incapace, quindi sarà portato a voler eliminare il problema, spingendo in vario modo il proprio figlio, a mangiare anche questi alimenti.

Questo è solo uno dei tanti piccoli esempi di induzione, dove si costringe il bambino a rinunciare a qualcosa di sé, in modo improprio e forzato, per eliminare inconsapevolmente una propria angoscia e senso di inadeguatezza, che spingerà lui di conseguenza a crearsi un proprio mondo, diverso da quello che mostra e dichiara. Pensate alla confusione e incomprensione genitoriale. In fin dei conti, loro stanno solo cercando di nutrirlo nel modo più corretto e sano possibile, del resto come fanno tutti i genitori a loro più cari, che stimano di più! Ma, come abbiamo visto, è il processo sottostante, che rende la condotta deprivante e piena di conflitto.

Pensate un po’, quanto diventa complicato, quando i termini del conflitto riguardano elementi più impalpabili e inconsapevoli, come certe caratteristiche di personalità, certe abilità, la capacità di ottenere successo, ecc.

D’Aloisio suggerisce di cogliere la “fiaba del bambino” ovvero il racconto di sé e del suo mondo, fatto di intrecci e incontri segreti con il suo vero interno, il suo vero sé, le sue motivazioni, i desideri, le paure, i fantasmi, ecc. Il racconto fantasticato e inventato del bambino, l’immagine fasulla di sé, le bugie quindi, rappresentano un filo conduttore che ci conduce al suo vero mondo interno, è una sottile linea di confine fra vero e non vero.

In  considerazione di quanto detto fino ad adesso, ritengo un po’ impropria la definizione “Sindrome di Pinocchio”. Impropria  riferita ad una condizione di bugia cronica e persistente, ma assai propria riferita alla condizione dell’infanzia. Se ci pensiamo bene, Pinocchio non era bugiardo, non aveva l’intenzione e l’intento di mentire, bensì la naturale difficoltà di quest’età, nel portare avanti quanto promesso. Carlo Collodi ci descrive la condizione evolutiva del dover scegliere il “dovere”, per rinunciare al “piacere”. Ma come mostra il libro, non è un’acquisizione semplice e richiede tempo. Spesso gli stessi adulti non sanno rinunciare al piacere o ad un vantaggio immediato e non possiamo certo pretendere, che lo sappiano fare i bambini e gli adolescenti. Come ci ha ben spiegato S. Freud, è necessario che il principio di realtà raggiunga la sua forza, in modo tale da far fronte al principio di piacere, ma questo processo inizia fin dai primi mesi di vita e non termina mai, è frutto di acquisizione permanente.

Pinocchio infatti, è animato dalle migliori buone intenzioni, ma la difficoltà risiede proprio nel portare avanti queste intenzioni, soprattutto nel momento in cui si affaccia un teatrino, un divertimento, qualcosa di festoso che sarà passeggero e una volta perso, non se ne potrà più godere. Per cui, non si può dire che Pinocchio menta in modo sistematico, ma semplicemente che rappresenti un bambino con i suoi impulsi e desideri. La storia di Pinocchio poi, avendo una connotazione moralistica propria delle favole e/o delle storie, attribuisce estremo valore all’educazione, ci mostra un personaggio “burattino in preda alle pulsioni”, che si trasformerà in un bambino in carne ed ossa, solo e unicamente nel momento in cui riuscirà a portare avanti con costanza e dedizione, gli impegni presi.

Carlo Lorenzini, in arte Collodi, per primo, assumendo il nome del paese natio come identità letteraria, mostra nel concreto della sua vita, un’estrema dedizione e abnegazione alle regole sociali. Ciò che viene auspicato per Pinocchio e per tutti i “bravi bambini”.

M. Titze propone un visione molto articolata di questa sindrome, al di fuori della usuale attribuzione. Mette in primo piano il senso di vergogna dell’individuo rispetto a sé, che origina dal rapporto fra il bambino e genitori egocentrici. Questo genere di genitori cioè guarda unicamente ai propri bisogni e “impone” al figlio, attraverso una serie di modalità dirette, indirette, dure, morbide, manipolative, ecc., di aderire a questi bisogni, impedendo lo sviluppo della sua personalità e dei suoi bisogni, compresi quelli di socialità extrafamiliari. Si arriva quindi alla sindrome di Pinocchio, come espressione di una gelotofobia, dove il termine greco gelos rimanda a risata, per cui si tratta di individui spaventati fino ad esserne fobici, di essere derisi e ridicolizzati, temono cioè che si rida di loro, vivendo in costante vergogna ed imbarazzo di sé, qualunque cosa accada intorno.

Sembra un salto lungo, ma ciò che Titze ci vuol far intuire è che Pinocchio, è un burattino in mano a genitori egocentrici. Del resto, Geppetto lo costruisce per stemperare la sua solitudine, per avere finalmente delle soddisfazioni e per avere un bastone della vecchiaia, la fata da parte sua alterna in modo ambivalente due posizioni, un ruolo di “fata bambina” nelle vesti di sorellina, un ruolo di “fata madre” esigente e dura, una mamma che pretende molto e che lo deride del suo “naso menzognero”, che lo ricatta facendolo sentire responsabile del suo dolore e della sua morte. Alla fine pinocchio è spinto a fare sempre ciò che gli altri si aspettano da lui. E di figure che gli chiedono delle cose, ce ne sono tante (Geppetto, la fata, l’insegnante, Mangiafuoco, Lucignolo, il Gatto e la Volpe, ecc.), appunto è un burattino in mano al desiderio altrui. Ogni volta che segue il proprio desiderio si trova a subire forti sciagure, prima di tutte l’abbandono e la solitudine, in seconda battuta l’essere trasformato in un animale, rischiare la vita, incontrare lungo il percorso ogni genere di animale e disavventura, quale proiezioni delle angosciose paure infantili (serpente, pescecane, essere impiccato, bruciato, ecc.)

Per cui, consapevoli in modo più o meno conscio di non essere sé stessi, ma di essere solo “burattini”, vivono il terrore di essere smascherati e derisi, perdendo definitivamente il valore e la possibilità di sorridere e ridere. Si smarrisce, non solo una parte della propria individualità, ma anche uno strumento importante di alleggerimento e serenità con sé e con gli altri, la relazione vissuta con piacere e nel piacere della leggerezza e del gioco.

L’individuo che emerge quindi, assomiglia molto a quello che Gabbard (pp. 496-498) ha definito Narcisista ipervigile, una variante del disturbo narcisistico di personalità (come descritto nel DSM IV-TR), dove l’individuo è estremamente sensibile alla critica, vive costantemente sotto la luce della vergogna e dell’imbarazzo. Per evitarlo, si nasconde in ogni angolo del mondo, sperimentando uno stato di allerta continua, l’ambiente è sotto continua osservazione per poter captare elementi a cui adeguarsi, le aspettative a cui aderire, le linee guida dell’accettazione insomma.

All’interno di questo quadro, la bugia si inserisce come modalità costante di stare in relazione con sé e con il mondo, non si è mai sé stessi, ma si recita sempre un copione in base a cosa l’ambiente si aspetta, o meglio in base a ciò che l’individuo ritiene che l’ambiente si aspetti. La bugia quindi, non è in primo piano in sé e per sé, ma diventa un meccanismo di difesa permanente, una parte stessa degli usuali processi relazionali, la base della costruzione della personalità, pena il rifiuto e l’abbandono. La vera personalità (se mai ha avuto modo di svilupparsi) si nasconde sotto una maschera, imposta dalla sopravvivenza emotiva. Si è persa anche l’origine della bugia e della vergogna, vive un sottile senso di inadeguatezza, giustificato via via con varie circostanze esterne, ma nel fondo di sé sa, che non andrà mai bene, non farà mai abbastanza e non sa perché.

Il film Il talento di Mr Ripley, tratto dall’omonimo libro di Patricia Higsmith, ci mostra un esempio ricco ed esplicito di tale struttura. Il protagonista infatti, è un giovane americano, assoldato dal padre di un vecchio conoscente, per riportare il figlio in patria dall’Italia, dove risiede ormai da tempo con la fidanzata. Da mandante del padre, diventa velocemente complice del figlio e della fidanza, altrettanto velocemente si trasforma in assassino del figlio, partner eterosessuale ed omosessuale di soggetti incontrati via via nel percorso e così via, impersonando di volta in volta identità diverse, vite diverse, intenti diversi, fino ad uccidere e a rinunciare alla persona che veramente ama e alla vita forse, più conforme ai suoi desideri, unicamente per incapacità di seguire ciò che realmente gli appartiene e per la difficoltà a far fronte, a mettere insieme tutti i personaggi paralleli di sé stesso. Non c’è posto per lui, non c’è tempo, non c’è sintonia con sé, non c’è sintonia con l’altro.

Ma questo tipo di etichetta non riguarda certo il bambino, che non ha ancora strutturato la sua personalità, ma è ancora in fase di evoluzione. Non di meno, le basi per una struttura di personalità narcisistica, si fonda qui, fin dai primi mesi di vita. Ed è proprio per l’importanza del “qui”, che risulta essenziale l’attenzione alla bugia, al suo significato, ma soprattutto all’attribuzione di questa pericolosa etichetta.

Bugia è un atto considerato grave, vergognoso, da nascondere ed il bugiardo con essa, ne assume tutti i connotati. Il bugiardo è qualcuno che non va bene, è riprovevole, sporco, truffatore, inadatto, beffardo, amorale. Il bugiardo si deve vergognare perché mente e questa condotta è condannabile.

In realtà, come ci ha mostrato Titze, Pinocchio si vergogna non delle bugie ma di sé, di ciò che è, vive un costante senso di inadeguatezza e inconsistenza, proprio perché non è sé e pensa che ciò che è, debba essere nascosto perché inadeguato e non amabile. Le bugie diventano una necessità emotiva: si rischia la disgregazione.

E del resto, vivere in un mondo di menzogne è come stare in un inferno di cristallo, in una prigione senza vie d’uscite, come essere rinchiusi in un sarcofago, all’interno di una stanza segreta che nessuno mai troverà! Veramente angosciante! Nessuno sa chi siamo e mai lo saprà e noi stessi ormai, non conosciamo più qual è la strada del ritorno.

Pensiamo all’effetto che può avere tutto ciò su un bambino in crescita, che sta cercando una definizione di sé, una comprensione di sé! Sicuramente castrante, sicuramente delimitante e instradante. Gli si dice cosa noi crediamo che sia, cosa non deve essere e quale sarà la sua forza, non la sincerità ma la menzogna, perché altro non può fare! Erik Berne amava dire in modo chiaro che se si vuole creare una certa condotta, basta dargli l’etichetta contraria, ovvero se vogliamo un bambino dipendente dobbiamo dirgli che è un ribelle, attivando così forze contrapposte, conflitti e sensi di colpa, che portano proprio ad un legame indissolubile. Perché in realtà l’etichetta è contraria solo in apparenza, la ribellione infatti è un atto di grande dipendenza, l’individuo non agisce in base a ciò che sente, ma in base a ciò che è opposto all’indicazione genitoriale, quindi il punto di riferimento non è lui, ma loro! Non ciò che lui desidera, ma l’opposto di quanto loro vogliono, quindi pur sempre ciò che loro prescrivono o vietano.

Alla stessa stregua pensiamo che definire un bambino bugiardo e rimarcare le sue azioni come bugia, non porta certo a creare sincerità, ma bugia!

Lo stesso vale per l’adolescente, troppo spesso giudicato per la sua condotta esterna, per la ribellione continua, l’opposizione sfinente, il negativismo, il rifiuto, la confusione, l’incertezza, ecc. L’adolescente, più che mai sta cercando la definizione di sé, non solo come individuo, ma come individuo semi-adulto, come persona che deve fare delle scelte, prendere in mano la propria vita, occuparsi del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. E non è certo facile!

Per raggiungere la meta, è necessario agire e guardarsi allo specchio, osservare le reazioni del mondo, necessarie come informazioni di ritorno. Ecco perché l’aggressività e la sfida costituiscono una costante, perché mirano proprio ad elicitare delle risposte chiare, pertanto rassicuranti, che fungano da confini e linee guida.

Non sempre è facile, non sempre ha la forza di guerreggiare da mattina a sera, non sempre sente di dover procedere da solo, senza conferme, accudimento e coccole, tipiche del bambino. Non sempre, l’adolescente si sente così spavaldo da sfidare tutto e tutti, presentando sé come individuo “giusto”. Pertanto la bugia può rappresentare una sorta di alleggerimento momentaneo, una sorta di falso adeguamento alle aspettative. Un occasionale strumento di respiro emotivo, insomma. Ben diversa la condizione in cui, diventa un comportamento cronico, ma anche qui sarà importante comprendere le cause e le origini, perché ciò rappresenta una spia rispetto ad una situazione particolarmente conflittuale per lui, o la possibile espressione di una strutturazione di personalità, nella direzione su detta.

Nonostante la nostra confusione e disorientamento, paura e rabbia, più che a punizioni, ammonimenti ed etichette, dobbiamo ricorrere alla sospensione di giudizio, all’osservazione e alla comprensione.

Del resto siamo noi che ci facciamo confondere, dando potere all’altro (piccolo o grande che sia), tralasciando la fiducia in noi e nelle nostre sensazioni. Facciamo in modo che ciò che siamo, ciò che sentiamo, dipenda da ciò che dice l’altro, da ciò che pensa, ecc. In realtà, noi siamo ciò che siamo, qualunque verità o bugia l’altro ci propini.

La nostra condotta onesta porterà ad onestà e sincerità. Dove onestà significa essere e stare, significa fare i conti con noi stessi, con le nostre spinte, i desideri, i malumori, i conflitti, con ciò che ci proponiamo e ciò che emerge nell’atto effettivo. Onestà significa mettersi in discussione, almeno provarci, significa riconoscere di aver sbagliato, riconoscere la diversità e la libertà, che comporta il diritto di lasciar che tutto sia ciò che è, che i bambini siano ciò che sono e che gli adolescenti vadano per la loro strada!

L’onestà più grande che possiamo regalare loro, risiede nella possibilità di non vergognarsi mai di sé stessi!

Se insegniamo con la forza dell’amore e del legame, anziché con la forza del diritto, della prepotenza e della morale, la vergogna non troverà terreno fertile. Non ci sarà un giudizio con cui confrontarsi e da cui nascondersi, ma “verità di vita”.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

     Antony Minghella (2000, USA). Il talento di Mr. Ripley. Protagonisti: Matt Damon, Gwyneth Paltrow.  Dall’omonimo libro di P. Highsmith, Il talento di Mr. Ripley.

D’aloisio A. La bugia nel mondo dei bambini. Scoprire il “racconto” che occulta la verità. www.lascuolapossibile.it

Gabbard G.O.  (2007). Psichiatria psicodinamica. Quarta Edizione. Raffaello Cortina Editore.

Petter G. (1961). Lo sviluppo mentale nelle ricerche di Jean Piaget. Giunti, Firenze.

Piaget J. (1937). Il giudizio morale nel fanciullo. Giunti, Firenze.

Titze M. La vergogna e il “Complesso di Pinocchio. Rivista di Psicologia Individuale. Gen-Giug, 43, 15-29,1998.

 

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