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28 novembre 2011 1 28 /11 /novembre /2011 11:27

Il regno di

Signora Solitudine

 

C’era una volta un paesino molto, ma molto lontano, così lontano, che se ne è persa traccia persino nelle cartine.

Questo paese non era solo lontano, era anche molto, ma molto strano, bizzarro oserei dire.

Perché mai? Direte voi.

Ecco perché, era tanto strano perché strani erano i suoi abitanti.

E cosa avevano di strano? Direte voi.

Avevano, che erano immensamente spaventati. Di cosa?

Di tutto, ma proprio tutto. Avevano paura dei tuoni, del temporale, dei lampi, della pioggia, delle montagne, delle valli, delle pianure, del buio, della notte, delle stelle, del cielo, sì persino del cielo, ma ancora avevano paura degli animali feroci e di quelli innocui, del sangue, delle malattie, dei germi, della salute, della felicità, avevano paura di ciò che si vede e di ciò che non si vede, dei pensieri, dei sogni, delle aspettative altrui, ma anche delle proprie, dei giudizi, dei brutti voti, degli errori, insomma di Tutto!

Ed erano strani perché con tutte queste paure camminavano di traverso, si guardavano in continuazione le spalle, dormivano con un occhio aperto, ascoltavano contemporaneamente due cose, interrompevano i loro sogni per timore di cosa potesse rivelarsi, non uscivano mai di casa se non per lo stretto necessario, non si prodigavano mai in un complimento, in una carezza, in un appoggio, mai e poi mai né ad amici, né a parenti. Gli sconosciuti poi erano proprio banditi dalle case e dalle vite, di queste persone. E così, gira che ti rigira facevano sempre lo stesso percorso, le stesse cose, dicevano le stesse identiche parole, vedevano le persone di sempre, quelle indispensabili e niente altro, non sognavano, non desideravano, non piangevano, non ridevano. Niente altro davvero!

Ma sapete cosa? A tutte le paure già citate, ne dobbiamo aggiungere una molto speciale, la più grande di tutte: la paura della Solitudine!

Sì, gli strani abitanti di questo nostro paese lontano, avevano una paura tremenda anzi il terrore della solitudine, si guardavano bene dall’incontrarla e vivevano in funzione di questo, proprio di questo, il loro più importante obiettivo era evitare assolutamente di incontrare questa cosa, questo evento, questa sciagura indicibile: la Solitudine. In passato si erano riuniti intorno al fuoco per parlarne, discutere, trovare uno stratagemma per sconfiggerla, ma ora no, non più, non ne parlavano neanche, solo il parlarne ghiacciava loro il sangue nelle vene, l’aria si raggelava e loro si trasformavano in statue di sale. No, no, è bene non parlarne neanche, abbia mai a succedere che si presenti, quasi invocata misteriosamente da quelle parole.

Allora non se ne parlava più, si evitava accuratamente di pronunciare quella parola misteriosa e sinistra, sssss….. zitti non la dite, non la pensate neanche, che non abbia a leggervi nel pensiero, facciamo finta che non ci sia, non esiste, fuggiamo da essa e guardiamoci ad ogni angolo possibile, tante volte si nascondesse furtivamente, per sorprenderci quando meno ce lo aspettiamo. Occhi aperti e orecchie dritte!

Ma la vita è strana, alla fine ci fa sempre incontrare i nostri mostri e …. questa povera gente era proprio sfortuna, eh … tocca sempre ai deboli e agli indifesi. Sapete perché?

Perché loro che si sforzavano di scappare dalla … no, non pronunciamo neanche quella parola, ci siamo capiti da cosa scappavano, ecco loro che tentavano così tanto di evitarla, alla fine ce l’avevano in casa. Nel bel mezzo del bosco infatti, l’unico che circonda il loro paese, esisteva un regno assai bizzarro e maligno, il Regno di Signora Solitudine.

Il Regno era un enorme parco con alberi e animali di ogni tipo, con al centro una casa, la dimora di Signora Solitudine appunto. Si narrava che un tempo vi dimorava una signora dai capelli bianchi e dall’aspetto spettrale, pallida come un morto, magra sfinita, scarmigliata, con uno sguardo truce e ameno, che faceva cose strane. La più anomala di tutte era che viveva lì da secoli e secoli da sola, non c’era anima viva. Lei parlava spesso sì, ma non si sa a chi, nessuno aveva mai veduto i suoi interlocutori. Si aggirava nella sua enorme casa, parlava, sorrideva, volteggiava nell’aria, muoveva le mani in modo oscuro e misterioso, faceva strane cose, recuperava oggetti di ogni tipo, ne faceva utensili incomprensibili, qualcuno li definiva capolavori ma nessuno li ha mai capiti.

Ma la cosa più strana davvero era che lei, Signora Solitudine, non aveva paura di niente. Se uno straniero le si presentava alla porta, lo faceva entrare, lo faceva accomodare, gli offriva la poltrona migliore, lo sfamava del suo cibo, lo ammantava del suo nero mantello, lo riscaldava della sua desolante coperta. Da non credere davvero!

Questo è ciò che si narrava ormai da generazione a generazione, ma nessuno in quel paese l’aveva mai vista, nessuno mai aveva neanche osato avvicinarsi a quel regno, no davvero, anzi si evitava anche di parlarne, quasi ad esorcizzare la sua eventuale presenza, fosse anche solo nei sogni, o di sbieco nei pensieri, anche i più furtivi e passeggeri, di quelli che ti attraversano la mente sfuggendo al controllo.

Lungi da noi, quella strega orrenda.

Ma in verità …… un giorno a qualcuno toccò!

Bhe, andò così, ci fu un giorno un bambino stufo di stare alle regole dei grandi, continuava a sentire delle frasi circostanziate, degli accenni, parole troncate e ogni volta che chiedeva a cosa si riferissero, gli veniva risposto “Ssss….. zitto, zitto, i bambini non si devono occupare di certe cose, sono cose da grandi, fai il bambino e vai a giocare”. Poi quando era stanco e faceva i capricci, all’inverso si sentiva dire, “Basta, non fare il bambino, sei grande ormai! Comportati da ometto!”

Insomma, i grandi se la accomodano come gli pare! Allora un giorno, stufo di non sapere le cose e stufo di non essere compreso, fece fagotto e se ne andò di casa, s’incamminò. E cammina cammina si ritrovò nel bosco, quello strano luogo di cui nessuno voleva parlargli. Non era così male, però!

Proseguì per un bel po’, incuriosito da tutte quelle piante, radici, da colori più strani, dagli odori, i rumori, animali che spuntavano da ogni angolo, tutti pacifici, lo guardavano e proseguivano oltre. Ogni cosa era nuova ed eccitante. Ma ad un certo punto, cominciò ad avere freddo, sonno, fame ma non sapeva più da che parte girarsi, mangiò un po’ di quelle provviste che aveva messo nel fagotto e si mise nuovamente in cammino, un po’ meno affamato ma più sperso e disorientato di prima.

Vagando un po’ qua un po’ là, si ritrovò pensate un po’, nel regno di Signora Solitudine, era un luogo strano, un po’ come quelli descritti nelle fiabe, tutto circondato da un’aria leggera e grave nello stesso tempo, una sottile nebbia creava un effetto alone assai singolare. Una parte di lui aveva paura ma l’altra si sentiva incredibilmente attratta. Una vocina gli diceva “Non andare là, non è posto per bambini, torna di filato a casa senza voltarti mai!”, ma poi l’altra parte, che aveva anch’essa la sua voce, diceva di no, di non fidarsi, di correre, andare che sicuramente ci sarebbe stato qualcosa di interessante, tutto quello che i grandi non vogliono che i bambini vedano e sentano e poi glielo spiattellano davanti quando meno se lo aspettano. Le due voci si contendevano il primato e ciascuna voleva regnare sovrana, la sua mente era confusa e colma di pensieri, ma le gambe cominciarono a correre senza sentir ragione e lo portarono fin davanti alla casa di Signora Solitudine.

Tutto era ancora più misterioso e singolare, bussò, nessuno rispose ma la porta si aprì e lui entrò, oh che casa enorme, anomala, meravigliosa, piena di oggetti mai visti. Ancora più strano, anche dentro si spandeva quella nebbiolina e c’era un profumo che riconosceva come noto, ma non riusciva ad identificare, non sapeva dargli un nome. La luce era tenue e piacevole, di quella che non mostra i dettagli ma non ferisce gli occhi. Anche nella penombra si muoveva serenamente, era l’intuito a guidarlo, era l’odore, il rumore, la spinta del suo corpo e niente altro, non c’erano false prospettive ad illuderlo e a muoverlo, ma solo movimenti interni.

Vagò per la casa, prima il piano terra, poi il piano superiore ed infine la cantina, nel sottosuolo, non avrebbe saputo descrivere ciò che vedeva, in verità assai vago e annebbiato, ma si sentiva a suo agio in uno spazio che lo lasciava libero di muoversi. Era stanco, affamato e sentiva anche una certa tristezza nel cuore, gli occhi si piegavano all’ingiù, la bocca era serrata. Tornò al piano terra, mangiò e si accomodò in un giaciglio, triste ma libero di esserlo. Si addormentò.

Nel frattempo, a casa sua era scattato l’allarme, non si trovava più e tutto il paese si era mobilizzato, del piccolo nessuna traccia. Dove sarà? Dove non sarà? Che fare? Che gli sarà successo? Ma come, proprio a loro che evitano ogni possibile rischio?

Arrivati a sera, la madre fra le lacrime e la disperazione ascoltò il proprio cuore e allora, senza ombra di dubbio seppe dove si trovava. Comunicò al marito e a tutti quanti quanto aveva intuito e fra l’incredulità, lo sconcerto e l’orrore si alzarono mille voci “Ma chi andrà? A chi toccherà? Chi se la sente?”

La donna, senza dire una parola si incamminò nel bosco.

Tutti quanti non capivano se fosse disperata, pazza, savia o cos’altro, non sapevano se lasciarla andare o trattenerla e mentre loro discutevano animatamente, lei procedeva veloce, davanti le si stagliava una vegetazione folta e spaventosa, era buio e scorgeva assai poco ma c’era una luce dentro di lei, una forza, una disperazione ed una speranza insieme, che guidavano magicamente i suoi passi. Di fronte a tanta possenza la folta foresta si inchinava e anziché ingoiarla, si piegava al suo passaggio, le spianava la strada.

E così, velocemente arrivò nella casa di Signora Solitudine. Entrò senza esitazione e subito vide il suo piccolo che dormiva. Si accostò, lo prese in grembo e lo lasciò dormire, lo guardava con la luce non degli occhi ma del cuore, della speranza, della gioia e del dolore, lo guardò con gli occhi della memoria, ricordò, pensò, sentì, pianse lacrime amare, tristi, lacrime liberatrici. Era sola, sola con sé stessa, con quel luogo, con il presente, col passato, col futuro, con le decisioni, le azioni e le responsabilità da grande …… eppure lei si sentiva ancora una bambina, una bambina della stessa età del suo bambino. Si sentiva smarrita e spersa, veramente sola e sopraffatta dal mondo, che chiede molto, che ti mette a confronto con mille ostacoli e spaventi, ti confronta con te stessa.

Allora le venne in mente la filastrocca che da bambina si raccontava ripetutamente, per accompagnarsi nel sonno, ricordò il bacio di sua madre, il suo orsetto e il suo amico immaginario, si tranquillizzò, si sentì sicura e sopraggiunse il sonno a ristorarla.

Il mattino dopo si svegliò e ….. sapete cosa? Era in braccio a Signora Solitudine, come fosse sua figlia e a sua volta lei teneva il suo figlio. Quella strana Signora era dolce, dallo sguardo triste e tenero, ma il suo abbraccio forte e rassicurante. La donna si sentiva ancora sola, ma sapeva che questa signora poteva accompagnarla, che la solitudine era come una grande mamma, che rende incerti e spersi ma offre anche la possibilità e la fiducia di creare qualcosa di nuovo, di cambiare. Ed era così che era venuto suo figlio ed era così che voleva crescerlo, cambiando quanto le era capitato.

Si svegliò anche il piccolo e fu felice di trovarsi stretto in questo doppio abbraccio, che non lo stritolava ma lo sosteneva, senza costringerlo. Sentì ancora l’odore della sera prima, stavolta ancora più forte, lo seguì e arrivò in cucina era odore di latte caldo, di un abbraccio profumato, di aria di primavera, di giochi soavi, di lacrime e sole. Aprì la finestra e vide suo padre e tutto il paese a seguito che alla fine era arrivato fin lì, armati di fucili e bastoni, quasi fossero in guerra.

Uscì sorridendo, andandogli incontro, lo seguì la madre che salutò mestamente Madre Solitudine, la ringraziò e le promise di ritornare a farle visita. Le persone del villaggio si trovarono disarmate di fronte all’espressione di madre e figlio, ma fu subito chiaro che non servivano né bastoni né fucili, si sentirono stranamente sereni e osservarono incuriositi la Signora dai capelli bianchi alla finestra, poco strega e molto più vicina a loro, di quanto avessero mai creduto.

Tornarono in paese e da quel giorno la parola Solitudine tornò nelle loro bocche. Si parlò per molto tempo di quanto era successo. Non tutti ne capivano bene il senso, non tutti non cedevano al tentativo di fuggire ancora da essa, ma almeno ora era più vicina e meno orribile. Ora, era possibile prendere per mano la Solitudine, farsene abbracciare senza esserne sovrastatati, sentirsi vivi, con un mondo in divenire.

E la leggenda si tinse di nuovi colori, non solo di nero ma anche di bianco, di verde, di latte, di sorpresa, di fiducia …….

 

                                   By Sabrina Costantini

 

 

 

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21 novembre 2011 1 21 /11 /novembre /2011 11:01

Perverso, Predatore,

Ammazzafemmine!

 

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

 

Una delle situazioni che coinvolgono e accomunano frequentemente le donne, forse in una sorta d’iniziazione alla vita e all’adultità, è rappresentata dalla relazione perversa.

Si tratta della relazione con un individuo, di solito il partner di una relazione sentimentale, con una struttura prettamente narcisistica. In quanto tale, la relazione è caratterizzata da asimmetria, abuso, uso narcisistico, violenza psicologica, talvolta violenza fisica, prevaricazione, ecc.

L’etimologia stessa della parola “perverso” ci rimanda al latino “pervertere”, ovvero rivoltare, rovesciare. Di fronte ad un individuo perverso ci troviamo ad un rovesciamento continuo della realtà e della posizione. Non si sa mai dove trovarli, creano fascino e obnubilamento, dicono e subito dopo negano quanto detto, non vogliono essere trovati e al di là della posizione cosciente, loro stessi non sanno dove realmente sono, di conseguenza l’ambivalenza regna sovrana, all’insegna dell’inconsapevolezza e della violenza. Gli umani oggetto della loro manipolazione, di solito donne, si sentono disorientate, affascinate, “sotto sopra”, rivoltate nella loro integrità e continuità, predate della loro essenza.

La storia di Barbablù è assai interessante e connotativa rispetto a questa condizione. Ne troviamo versioni differenti, da quelle raccolte dai fratelli Grimm (vedi ad esempio L’uccello di Fichter o il Maiale fatato), alla versione anglosassone del Signor Fox, alla produzione di Charles Perrault, di Henri Pourrat, alle versioni orali narrate in tutta l’Asia e l’America Centrale, a quella facente parte delle fiabe di Mille ed una notte, ecc.

Ciascuna con una qualche variante, ma accomunate dal tema centrale coerente in tutte quante. Il fatto che ce ne sia tante versioni sparse in posti così lontani, lascia pensare all’universalità del suo tema di fondo, all’elevato valore simbolico dell’ossatura.

Bettelheim ci ricorda che questa non è una fiaba, perché manca l’elemento magico e soprannaturale (eccetto per il sangue sulla chiave) ed inoltre, nonostante il male venga punito, questo esito non produce consolazione né salvezza.

Malgrado ciò, la storia contiene dei significati simbolici importanti e la mancata consolazione si traduce in una sorta di morte, che apre ad una nuova consapevolezza. Rappresenta la morte di una parte di noi, per lasciare spazio ad altri elementi. Muore l’ingenuità, la fatuità, l’instabilità, la vanagloria, a favore della consapevolezza, della scelta, della forza.

Partiamo dalla storia, almeno da una delle versioni, quella che deriva dalla mescolanza della versione francese e slava.

La storia narra di un uomo di nome Barbablù che corteggiava tre sorelle, ma queste si nascondevano perché spaventate dallo strano colore della sua barba, da un non so che sinistro e insidioso. Per cui un giorno l’uomo le invitò a fare una passeggiata nel bosco, in quest’occasione le intrattenne con ogni sorta di squisitezza, per il palato, per le orecchie, per il divertimento. Alla fine le sedusse tutte, ma al ritorno nella loro casa, le più grandi mitigarono quest’impressione con i sospetti iniziali, la piccola invece si lasciò trasportare totalmente da quest’alone di gentilezza e fascino.

E così lui la chiese in moglie, si sposarono e tutto sembrava andare bene, fino a che un giorno lui le disse di dover partire e lei era libera di fare tutto ciò che voleva, poteva invitare la sua famiglia, fare un banchetto, una festa e quant’altro desiderasse. Le lasciò le chiavi del castello, poteva aprire tutte le porte, da quella della dispensa a quella degli ori e fare come meglio credeva, eccetto per una porta, aperta dalla piccola chiave con la spirale in cima.

Lei ne fu felice e lo lasciò andare tranquilla. Arrivarono le sue sorelle, che saputo quanto comandato dallo sposo, curiose più che mai, si divertirono un mondo a scoprire quale chiave, aprisse quale porta, fino a che arrivarono alla cantina e lì la porticina che si aprì fu proprio quella della piccola chiave. Dentro era buio, fu necessario portare una candela che rischiarasse e fu così che le tre donne tutte insieme urlarono dall’orrore nel vedere un lago di sangue, ossa annerite, teschi impilati. Erano i resti delle mogli precedenti, che Barbablù aveva fatto a pezzi.

Uscirono immediatamente e la giovane prese la chiave che si era macchiata di sangue, la mise in tasca e quando arrivò in cucina si accorse che aveva macchiato il suo abito bianco, perché gocciolava ancora. Tentò di portar via quella traccia con vari mezzi, strofinando la chiave con un cencio, cauterizzandola, strusciandola con cenere, cospargendola di ragnatele, ma niente portò al risultato sperato. Disperata la nascose nell’armadio e ben presto tornò lo sposo, che la interrogò sul soggiorno e quando si accorse della mancanza della piccola chiave, la interrogò più brutalmente, lei allora cercò di inventare delle scuse inutili. Gridandole “infedele” la trascinò giù in cantina per ucciderla, ma quando furono nella stanza dell’orrore la giovane moglie gli chiese di concedergli un quarto d’ora prima di morire, per potersi riconciliare con Dio. Lui glielo concesse.

Lei corse in fretta nella sua stanza e ad ogni istante interrogava le sorelle: “Sorelle, sorelle. Vedete arrivare i nostri fratelli?” e loro “Non vediamo nulla, sulle pianure aperte”, dopo un po’ ancora “Sorelle, sorelle. Vedete arrivare i nostri fratelli?”, all’ennesima domanda sempre uguale “Vediamo un turbine in lontananza, forse un polverone. Intanto Barbablù tuonò dalla cantina, chiamando la moglie, prese poi a salire i gradini di pietra chiamandola sempre più adirato, lei ancora interrogava le sorelle. Alla fine “Sì, li vediamo, i nostri fratelli sono appena arrivati e sono entrati nel castello”. Barbablù si precipitò nella stanza della giovane moglie, con le mani protese ad afferrarla, ma i fratelli proruppero a cavallo con le spade sguainate, colpendo, fendendo, tagliando e sferzando, lo uccisero e lasciarono il suo sangue e le cartilagini alle poiane.

Questa storia mi ha sempre lasciato un po’ interdetta. Nell’ascoltarla, ti percorre un brivido lungo la schiena ed un retrogusto amaro ti gira in bocca senza posa, forse il sapore del pericolo appena scampato, del mistero che si aggira nel suo significato più recondito e incomprensibile. Mha … lascia un po’ attoniti e perplessi.

Barbablù rappresenta un uomo malvagio e violento, un individuo sinistro che si aggira intorno a noi, il predatore della psiche femminile. Alcuni racconti orali dicono che Barbablù fosse un mago mancato (Estés) e nell’Uccello di Fichter, di fatto il protagonista è un mago (cattivo).

Ora questa condizione di mago mancato, ci fa pensare ad un individuo che aspirasse a qualcosa di superiore, ad un piano più misterioso e spirituale, un piano su cui ha fallito, un po’ come il narcisista che non riesce a raggiungere quello splendore tanto desiderato, quella lucentezza a cui mira tutta la vita, che cerca di accaparrarsi depredando gli altri, attraverso relazioni perverse e deprivanti. Dato questo suo mancato traguardo, è pieno d’invidia, d’odio e più o meno consapevolmente cerca di spegnere il femminile, la psiche, la forza interna, per portarla via, negandola e stravolgendola. Qual è l’obiettivo? Sottraendo il termine di confronto, evita di sentirsi troppo inferiore e si vendica della donna che non ha saputo donargli quella stessa luce: la madre.

Ora, uscendo dalla storia e cercando di tradurla nella realtà, possiamo identificare Barbablù sia in un personaggio esterno che interno, un predatore della psiche che attacca da fuori e da dentro.

Nella prima accezione, Barbablù può costituire un ipotetico partner di relazione amorosa o amicale, in cui vi sia un coinvolgimento ed una relazione perversa, come inteso da M.F. Hirigoyen, dove si stabilisce uno scambio asimmetrico, a vantaggio solo di uno dei due componenti della coppia, a discapito dell’altro, che si sente depauperato, sfruttato, umiliato, svalutato in ogni aspetto. Come nella storia, la donna si lega ad un uomo che di primo acchito non vuol riconoscere come predatore, negando il suo istinto primario, se ne lascia ammaliate e si fa sedurre, ovvero se-durre, portare a sé da parte dell’uomo, che sotto una luce di fascino, mistero, interesse, amore, inganna la donna circa le proprie intenzioni.

L’uomo non ama realmente quella donna per ciò che è ma per ciò che lui desidera sia, per ciò a cui vuol limitarla, per come lei e la sua limitazione lo fa sentire. Lo scopo ultimo consiste proprio nel sentirsi forte, grande, potente, furbo, dominatore, negando ogni propria mancanza ed inconsistenza. Proiettando sulla donna la componente deprivata, cioè quella di persona debole e incapace, può vivere l’altra faccia del continuum, sentendosi il polo decisivo, forte, potente, indispensabile, il dominatore, il signore del castello.

Nella storia, Barbablù dà alla moglie tutte le chiavi del castello, lasciandola supporre di essere la regina della casa, la padrona, libera di andare dove vuole e di fare quanto desidera, ma di fatto nel momento in cui afferma questo lo nega, perché le vieta la vera libertà di decidere e la stanza della conoscenza. Addirittura la indirizza anche nella trasgressione, inducendole la condotta vietata, proprio nel momento in cui la vieta. Lui fa e dispone e lei deve solo recitare la parte.

Non a caso nel film Lezioni di Piano, Jane Campion mette in scena nel teatrino natalizio della colonia britannica sita in Nuova Zelanda, proprio la storia di Barbablù, che riproduce pari pari ciò che il marito della protagonista farà alla moglie. La sceglie per posta, mettendosi d’accordo con i genitori di lei, le impone una vita e delle regole stabilite da lui senza chiederle parere, la priva della sua voce, dello strumento che la fa parlare, il piano appunto, inoltre di fronte alla passione di lei, interviene drasticamente prima rinchiudendola in casa, poi tagliandole brutalmente un dito.

Dall’altra però, Barbablù rappresenta anche il predatore interno di lei, che la sabota fin da piccola, togliendole la voce per dire, per urlare, per scegliere, inducendola a ritirarsi in un mondo lontano dal mondo, lontano dalla vita. Anche la protagonista del film, affronterà un’iniziazione ed un passaggio, il dito perso ed il sangue che scorre, ma ancora di più il pianoforte in fondo al mare e con esso la sua possibile fine, la farà scegliere definitivamente per la vita, niente e nessuno potrà opporsi al suo desiderio ed il marito infatti la lascerà andare, consapevole di poterla fare a pezzi, ma di non poterla piegare al suo volere.

In questo film esiste il Barbablù esterno, il marito, ma esiste anche quello interno precedente a questo, rappresentato da un’esistenza che mette a tacere i propri desideri ed i propri voleri. Un tema riproposto in un film successivo, sempre della stessa regista “Ritratto di signora”, dove la violenza è espressa in modo più sottile e psicologico, qui il marito-padrone la induce al suo volere facendola sedere su una sedia più alta, un po’ come si farebbe con un bambino, per metterlo alla propria altezza, non in segno di parità, ma per favorire un contatto visivo più diretto e quindi più pressante. “Lezioni di piano” invece, oltre a contenere forti elementi di violenza psicologica, arriva fino a mostrarci le estreme conseguenze di una violenza, materializzata in atti crudi e indicibili.

Guardando Bettelheim, la storia di Barbablù tratterebbe di un tabù di tipo sessuale, ovvero il divieto al tradimento. Ovvero, Barbablù fingendo di partire ed invitando la moglie a divertirsi, la sottoporrebbe ad un test di fedeltà e la chiave insanguinata che macchia l’abito bianco ne sarebbe la prova, rappresentando la rottura dell’imene e la perdita della verginità-ingenuità. Questa visione relegherebbe la morale della storia ad uno spazio limitato, spingendo verso valori quali l’onesta e la fedeltà, sia di uomini che di donne, che non devono infrangere la promessa fatta al coniuge. Vista così, la storia ci mostrerebbe anche una visuale altamente maschile e maschilista, attribuendo all’uomo la legge, la decisione di quali stanze aprire e quali no.

Ritengo, d’accordo con Estés che la storia rimandi a qualcos’altro di più profondo del tradimento coniugale, si riferisce sì ad un tradimento, ma di un altro tipo e qui si torna al secondo elemento rappresentativo del personaggio, l’elemento predatorio interno.

E’ la donna che tradisce sé stessa fin dall’inizio, dal momento in cui decide di farsi traviare e negare il proprio istinto, il primo istinto che le ha fatto diffidare di quest’uomo tanto bizzarro e anomalo, nel colore della barba e nei modi. L’abito bianco rappresenta l’inesperienza, la verginità rispetto alle esperienze della vita, all’inconsapevolezza della propria sorte.

Le sorelle più grandi invece, non si lasciano mai sedurre e nonostante la bella giornata trascorsa, i cavalli dai finimenti d’oro, la splendida passeggiata, i racconti, le leccornie ed i complimenti, non cambiano idea e non si fidano. Apparentemente ne sono sedotte, ma al rientro a casa, nella propria dimora fisica e psichica, ritornano a sé e al proprio sentire. La più piccola invece, dimentica il suo sentire, per lasciarsi ammaliare da quel fumo ed è condotta fuori da sé, dal rispetto del proprio bene e del proprio intuito.

Ma perché, cade proprio la più giovane? Proprio in quanto più giovane, non tanto per l’età quanto per l’inesperienza, per l’impulsività tipica di chi ancora non crede in sé, per l’ingenuità e la fatuità. Questo è essenzialmente un valore simbolico, infatti la vittima non è necessariamente giovane, ma giovane rispetto all’espressione libera di sé, rispetto all’esplicamento delle proprie forze interiori. Si tratta di una donna che si fa ancora catturare dai piaceri dell’Io, che non crede in sé, non si fida fino in fondo del proprio sentire e attribuisce il proprio potere ad un altro, che le direzionerà la vita, in termini economici, sociali, relazionali, decisionali, in termini del senso di sé e della propria identità.

Le sorelle maggiori rappresentano la parte in ombra di lei, la donna potenziale che ancora non ha spazio, quella saggia, quella che crede nella propria intuizione, quella che lascia che curiosità e scoperta emergano. Non a caso la trasformazione, sia nella terapia che nella storia, è anticipata e permessa dalla domanda giusta. Formularsi la domanda appropriata nel momento appropriato, permette di aprire la porta per il disvelamento, per la scoperta ed il cambiamento. La sorella giovane è pronta ad obbedire e a seppellire ogni possibile dubbio. Sono infatti le sorelle maggiori, che prese dalla curiosità si chiedono dove fosse quella porta, aperta da quella piccola chiave con la spirale (simbolo di cambiamento ed evoluzione) e cosa avrebbero trovato al di là.

E la porta condusse ad una stanza buia, che richiedeva un lume per poter far chiarezza, il lume della consapevolezza che mostrò appunto un carneficio, di cui vi era traccia solo attraverso le ossa ed il sangue. Due elementi rappresentativi e basilari dell’individuo. Le ossa denotano le fondamenta, la struttura base, la colonna portante, la parte solida, ciò che tiene in piedi la persona, il sangue denota la fluidità, la vitalità, la forza, una presenza pulsante e vibrante. Il sangue rappresenta la vita che scorre, che è stata portata via, quindi anche la sua mancanza, la ferita dell’esserne stati sottratti, deturpati e usurpati. Quella stanza degli orrori, rappresenta il luogo della psiche femminile, dove risiede il sabotatore, il carnefice, il non senso, la parte distruttiva, svilente della propria natura.

E che orrore ha provato la giovane sposa, ma pur scappando, pur cercando di eliminare le tracce di quella consapevolezza, la chiave-ferita-feritoia-finestra non ha smesso si sanguinare. Ha provato in tutti i modi, con mezzi più propriamente femminili (strofinare con uno straccio di cucina), con metodi naturali (la cenere), con metodi più scientifici (fuoco), con la superstizione (le ragnatele), ma niente è valso quello sforzo. La ferita non si è rimarginata, non si è chiusa, la chiave non ha smesso di sanguinare, neanche operando tutti gli elementi per filare la vita e la morte delle Parche, quel luogo non poteva essere cancellato.

Qui arriviamo al Barbablù interno, ovvero a quel luogo della psiche che sabota e si unisce in un connubio distruttivo con il Barbablù esterno in carne ed ossa. E’ la parte distruttiva, quella razionale, concreta e brutale, che nega nel suo essere la sensibilità, l’intuito, l’emotività e la creatività femminile, è il maschile imbrigliante, una regola che seduce e prostituisce ad un ordine esterno (i ritmi quotidiani, il lavoro, la moda, la produttività, il denaro, i numeri, l’apparenza, l’aspetto civettuolo, seduttivo e compiacente).  Così la donna compie il sacrificio di sé, della parte più creativa, appiattendosi nell’affettività, nelle idee, nella capacità di stare in relazione, sanguina silenziosamente, diventando anemica.

Nella storia, l’abito della moglie e gli abiti nell’armadio si tingono di rosso, si macchiano di questo crimine. L’abito nella psicologia archetipa personifica la presenza esterna, ma del resto la stessa origine etimologia habitus rimanda alle sembianze esterne, alla parte più visibile di noi, espressa attraverso azioni, modi di fare e dire. La parte esterna è una maschera che si presenta al mondo, più  o meno congruente con l’interno, si può decidere di allearsi col sabotatore ed accrescere l’immagine di efficienza, impegno, serietà, fascino, ma una volta raggiunta la consapevolezza, illuminata la stanza degli orrori e svelate ossa e sangue di precedenti vittime, le parti fondamentali della psiche femminile, non possono più essere cancellate e trasudano anche dalla maschera.

Le ossa delle donne uccise, rappresentano la parte indistruttibile, quella più dura e resistente, l’anima che traspare anche dalla maschera-abito. Per quanto represse, le parti fondamentali di noi, non possono essere cancellate, nulla della psiche si perderà.

Del resto la cantina, la prigione, la caverna, la stanza segreta, rappresentano tutti antichi ambienti iniziatici, il luogo dove sterminare l’assassino della psiche, dove smettere di far finta di essere altro, dove smettere di credere ad una parte di sé, alleata con lo sterminatore, una parte più volatile e frivola, quella che si fa sedurre dai bisogni narcisistici di facile riempimento.

Adesso la donna non è più ingenua, ha visto e non può più nasconderlo a sé, fino a quel momento aveva negato la luce della propria intuizione, ma adesso non è più possibile. O crede in sé, recupera tutta la forza necessaria e affronta l’ammazzafemmine o perirà inesorabilmente.

A tal proposito, mi viene in mente il film Ti do i miei occhi, incentrato su una

relazione perversa. All’interno del gioco amoroso-sessuale di una coppia legata in modo insano, i due si donano parti di sé, del proprio corpo e la donna regala al partner i propri occhi. La donna nega a sé stessa, finge di non vedere la violenza del marito predatore e continua a credergli ogni volta che lui torna amoroso. Lui la bistratta, maltratta, fino a picchiarla, ma lei resiste giustificandolo, fuggendo nei momenti di maggiori intolleranza ma poi tornando nuovamente da lui, sedotta dal fumo che gli confonde la mente ed il sentire. Finge di non vedere e dona i suoi occhi a lui, si nasconde la vista di ciò che si dispiega di fronte a lei, senza ragionevole dubbio.

Solo al momento di far ingresso nella stanza degli orrori non potrà più far finta di non vedere, solo allora riprenderà i propri occhi e lo sguardo. E questo avverrà quando lui la spoglierà e la chiuderà fuori di casa, sul terrazzo, nuda. Solo allora, solo dopo essere stata messa in vetrina, esposta alla profonda vergogna, allo svilimento più totale, quando sarà denudata di ogni dignità e decisività, allora vedrà veramente. Quando una donna sente di essere stata preda sia del mondo esterno, di un uomo che mondo interno, della propria cecità non può più ignorarlo, non può tollerarlo oltre, non può più nascondersi a sé stessa.

E come in questo caso, anche per la giovane moglie di Barbablù, la donna finge di ritirarsi, di prepararsi alla morte, per recuperare tutte le proprie forze per sferrare il colpo finale.

Nella storia la donna chiede alle sorelle di far arrivare i fratelli e sono proprio questi, annunciati da un turbine, da un polverone, che arrivando sferrano colpi che uccidono il marito. Questo sta ad indicare l’importanza dell’integrità di ogni parte di noi, delle parti femminili più consapevoli e intuitive, più astute ed esperte (le sorelle) e delle parti maschili, l’azione, la forza, guidata dall’intuizione e dall’emotività, dalla rabbia vitale. Il turbine rimanda proprio alla rabbia che travolge e rovescia tutto, una rabbia necessaria, distanziante, differenziante e risanatrice.

Il finale ci ricorda l’importanza dell’integrazione della parte maschile e femminile, fuori ma anche dentro di noi, ci ricorda anche che le relazioni riuscite, vincenti, sono quelle alla pari (come quelle fra fratelli e sorelle) e non quelle asimmetriche e perverse, di chi comanda e subisce. La fanciulla che apre gli occhi, avrà al suo fianco dei validi guerrieri, pronti a difenderla e a portare avanti i suoi diritti.

Barbablù viene smembrato e lasciato in pasto alle poiane, non per crudeltà ma come rito di purificazione. Nei tempi antichi infatti, esistevano figure rappresentate da spiriti, animali, talvolta da uomini, che in qualità di capro espiatorio prendevano su sé tutti i peccati, purificando l’umanità. Questo rimando della storia, sta un po’ a simbolizzare un’operazione di purificazione della donna, che proiettando all’esterno da sé, la parte distruttiva sabotante e allontanandose, redime sé stessa dalla caduta, in questa possibile triste sorte.

C’è inoltre da sottolineare una differenza significativa fra l’azione del predatore e quella dei fratelli. Barbablù lascia macerare in cantina le donne vittime del suo delitto, nascoste dagli occhi e dalla conoscenza. I fratelli invece, lo smembramento e lasciato alle poiane, alla luce del giorno, pubblicamente. Anche in questo caso non c’è un delitto, ma un passaggio evolutivo, pertanto non c’è bisogno di nascondere e la finalità non è distruggere ma recare trasformazione.

Se dovessimo poi, guardare meglio cosa rappresenta il sabotatore interno, potremmo definirlo in tanti modi. Forse Freud lo definirebbe come derivato dell’istinto di morte. L’analisi transazionale (Eric Berne) potrebbe definirlo come il connubio fra Bambino Adattato e Genitore Normativo, ovvero l’espressione della distruttività di un Bambino Adattato (inteso come parte della personalità), rimasto impigliato in una lotta con il Genitore Normativo, prima esterno poi interiorizzato. E potremmo andare avanti ancora per un po’.

Io direi in modo più generico che il predatore rappresenta una parte fragile della nostra psiche, che in quanto tale è maggiormente scoperta, soggetta ad aderire a dinamiche non evolutive, contorte e spesso distruttive. Queste fragilità potrebbero essere successive e conseguenti a situazioni traumatiche precoci, a condizioni di deprivazione, ad elementi mancanti nella relazione madre-figlio e padre-figlio, ad esperienze fondamentali di non amore, ecc. E’ un po’ come se questa parte fosse un bambino indifeso, con delle grosse capacità in termini di intuizione e sensibilità, ma carente per motivi evolutivi, di un pensiero più strutturato, carente di conoscenze ed esperienze, in conseguenza di questa condizione, si trova ad essere facile preda di fascinazioni esterne e superficiali, quali possono arrivare da un individuo perverso, ciò crea un vincolo difficilmente dissolubile, se non in seguito, attraverso un passaggio evolutivo-iniziatico.

In questo senso direi che in realtà la vittima di Barbablù non è necessariamente una donna, può essere anche un uomo. Generalmente è più facile che il ruolo di vittima sia impersonato dal femminile e viceversa il ruolo di carnefice da quello maschile, ma solo per una sorta di prevalenza di disagi nell’una o nell’altra categoria. Per una serie complessa di fattori infatti, le donne sono più facilmente rintracciabili in alcune strutture di personalità, mentre gli uomini più facilmente in altre e questo crea il ruolo in certi tipi di incastri.

Comunque può capitare anche il contrario, vedi ad esempio il film The Reader, che ci narra un chiaro esempio in questo senso. Il protagonista è un ragazzo di circa 16-17 anni che viene soccorso per un malore da una giovane donna, si sente visto e aiutato da lei che è esterna alla sua famiglia e per lui è un’esperienza importante da qui si forma un aggancio importante per lui, che una volta ristabilitosi dalla malattia, il ragazzo tornerà da lei per ringraziarla. Di lì inizia una relazione sessuale con lei, che lo usa e abusa psicologicamente. Più dell’abuso sessuale c’è quello psicologico, gli attribuisce un ruolo da cui lui non riesce a scappare, lei stabilisce le regole, gli orari, i modi della relazione, non c’è spazio per sue decisioni o voleri. Lo usa come lettore, lei non sa leggere e gli chiede continuamente di farlo per lei, arriverà a fare scelte importanti nella sua vita proprio per non mostrare a nessuno questa sua incapacità, arriverà ad essere processata come guardia nazista, tacciata di unica responsabile di un atroce crimine di guerra e lei si accollerà la colpa pur di non dire. Durante gli anni di carcere, il ragazzo ormai adulto le invia delle cassette, su cui ha registrato la sua voce che legge dei libri, da lì lei impara a leggere, ma una volta fuori ancora si aspetta che lui legga per lei, mentre lui si sente finalmente sdebitato.

La relazione con questa donna, dura molto tempo ed è una relazione subita, dove lei mantiene ancora il suo potere anche dal carcere, proprio perché si è stabilita una sudditanza psicologica, senza possibilità di cambiamento di ruoli. Lui è suddito e predato perché è giovane, inesperto, ma soprattutto perché è fragile, non visto e lei lo ha visto e lo ha raccolto mentre vomitava, lei ha raccolto le parti peggiori di lui, quelle che lui rigurgita, butta fuori, in cui lei evidentemente s’è rispecchiata. Lui sente un debito profondo con lei, colluderà persino nel suo silenzio in aula circa l’analfabetismo, che la porterà alla condanna. Scioglierà questa collusione solo molti anni dopo, quando riuscirà a renderla autonoma e a indurla indirettamente, ad imparare a leggere.

Ritengo che, a quello appena citato, si debba aggiungere un ulteriore caso, quello dove la relazione perversa si sviluppa fra persone della stesso sesso. Pensiamo ad esempio ad un’amicizia fra donne, dove una trascina l’altra in decisioni, iniziative, pensieri, scelte. Una funge da polo propositivo, da modello forte e l’altra, che si percepisce debole ed incapace si appoggia incondizionatamente, delegando le proprie capacità decisionali, pur di sentirsi amata, apprezzata, in compagnia, accompagnata. In questo caso, il predatore è una donna nei confronti di un’altra donna, rappresenta la figura che manipola, spinge, raggira, depreda, valuta a proprio piacimento e a proprio favore. Apparentemente questa figura funge un po’ da guida, rispetto ad una sorta di iniziazione, verso attività sconosciute all’altra (il sesso, le relazioni coi ragazzi, la femminilità, le sigarette, le trasgressioni, il tradimento, ecc.), ma di fatto non lascia la libertà di compiere una scelta e di produrre il passaggio con le proprie risorse.

E dunque il nostro nemico più feroce non è certo un ammazzafemmine esterno, ma quello interno, quello che sabota la parte intuitiva ed emotiva, delle donne ma anche degli uomini. Quel luogo di fragilità dove albergano rinuncia, arrendevolezza, passività, paura, adattamento e privazione. Quella parte sabotante che continua a ricordarci che non ce la faremo mai, che non siamo in grado, non abbastanza forti, non abbastanza intelligenti, astuti, capaci, ecc. E’ anche quella parte che si lascia riempire con riconoscimenti fatui, che colma il vuoto narcisistico non con la sostanza, ma con la forma, attraverso lusinghe effimere e passeggere. Si accontenta di vedersi rispecchiato negli occhi dell’altro, magnificato dal riflesso luccicante, senza colmare il senso di insicurezza, di mancanza, di inafferrabilità della vita, l’impotenza più estrema.

E ancora oltre, dobbiamo concludere che non si tratta di un ammazzafemmine, ma di un ammazzafemminile. Ovvero, del delitto di quella parte più introspettiva e riflessiva, che appartiene sia alle donne che agli uomini. Nel momento in cui si delega il proprio potere ad un altro, ad un oggetto, attività o relazione, si perde il centro di noi, andando verso un maschile (il fare, il pensiero razionale, ecc.) eccessivo e sbilanciato, perché non ponderato dall’elemento più femminile (la riflessione e l’ascolto).

La salvezza da questa triste sorte è lunga, deve compiere un passaggio, deve procedere per la redenzione dell’anima, che sente di avere un debito con quella persona che l’ha legata/o indissolubilmente. E’ necessario dare qualcosa, lasciar andare qualcosa per poter prendere altro, per dare peso a quanto alberga nel nostro interno.

La rottura dell’imene psichico, dell’ingenuità, deve passare da una ferita, da una delusione, da sangue pulsante ed ossa indistruttibili, che devono essere rimesse insieme, esattamente come fa la Loba (Estès), la vecchia raccoglitrice di ossa del deserto. Si recuperano le parti essenziali di noi, per modificare il modo in cui queste parti vengono viste, ricomposte e utilizzate.

La vittoria arriverà nel momento in cui si riprenderà la luce del proprio sguardo, che guiderà il guerriero armato di fiducia e determinazione.

 

 

Bibliografia e Filmografia

 

       Berne E. (1967). A che gioco giochiamo. Bompiani.

Berne E. (1971). Analisi transazionale e psicoterapia. Astrolabio.

Bettelheim B. (1977). Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Milano,Feltrinelli.

Estés C.P. (1993). Donne che corrono coi lupi. Il mito della donna Selvaggia. Piacenza, Frassinelli.

Grimm J., Grimm W. (1951). Fiabe. Torino, Enaudi.

Hirigoyen M.F. (2000). Molestie morali. La violenza perversa nella famiglia e nel lavoro. Enaudi.

Iciar Bollain. Ti do I miei occhi. Attori principali: Luis Tosar, Candela Peῆa, Rosa Maria Sardà. Gen. Drammatico, Spagna, 2003.

Jane Campion. Lezioni di Piano. Attori principali: Holly Hunter, Harvey Keitel, Sam Neill. Gen Drammatico, produzione Austria/Francia/Nuova Zelanda, 1993.

Jane Campion. Ritratto di signora. Attori principali: Nicole Kidman, John Malkovich, Barbara Hershey, Valentina Cervi. Gen. Drammatico, produzione USA, 1996.

Stephen Dardry. The Reader - A voce alta. Attori principali: Kate Winslet, Ralph Fiennes, David Kross, Lena Olin. Gen. Drammatico, USA-Germania, 2008.

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14 novembre 2011 1 14 /11 /novembre /2011 12:35

LA NOSTRA STORIA

Narrata

 

Dott.sa Sabrina Costantini

 

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Più volte ho messo in evidenza l’importanza delle fiabe nella nostra vita, nella vita di piccoli e grandi, nel fornirci serenità, appoggio emotivo, soluzioni, uno spazio per noi stessi e valore per il mondo interno.

Vari autori ci suggeriscono come le fiabe contengano elementi simbolici, universali ed evolutivi, di grande aiuto nell’elaborazione delle problematiche naturali, dei conflitti vitali, delle ambivalenze presenti nelle varie fasi di vita (Benini, Bettelheim, Marcoli, Santagostino, Von Franz, Scheidre).

Le fiabe, le narrazioni, i miti sostengono i bambini nei loro processi di crescita, attraverso la proiezione dei propri conflitti interni, in oggetti esterni simbolici, che fungono da rappresentati dei temi inconsci. Il racconto poi, sostiene il bambino nel percorso stesso, nel darsi forza per affrontare la situazione e nella risoluzione dei conflitti stessi. Tutto avviene in modo indiretto e triangolato, così da smorzare la tensione e l’emotività connessa con le problematiche interne. Il distanziamento dal proprio coinvolgimento, permette di avvicinarsi alla tematica, di vederla più chiaramente e di ritenerla affrontabile. Cosa che non avverrebbe altrettanto facilmente, se fosse vissuta in prima persona dal diretto interessato. In questo caso infatti, le emozioni coinvolte creano ansia e spingono ad attuare meccanismi di difesa quali negazione, disconoscimento, diniego, rimozione, ecc., che aggirano il problema, fuggendolo.

Non di meno le storie sono di grande aiuto anche per gli adulti, che pur desiderando ormai un po’ di pace e di serenità, continuano ad essere istigati al cambiamento dagli eventi, dalla vita in perpetuo mutamento. Gli adulti stessi quindi, sono portatori di perplessità, complessità, dubbi e problematiche, meglio affrontabili attraverso l’utilizzo di oggetti di proiezione e distanziamento, che ne aumentano la visibilità.

Non a caso molti curandero di varie parti del mondo, i cantastorie, gli uomini medicina, molti psicoterapeuti, utilizzano storie e fiabe per nutrire l’anima e lenire le ferite (Estés, Jung, Marcoli, Scheidre). Sono ottimi mezzi per incontrare noi stessi, per guardarsi allo specchio, per scorgere ciò che si nasconde nella nostra anima e nel nostro destino.

Pensate un po’ alla fiaba preferita della vostra infanzia. Ve la ricordate? Avete fatto mente locale?

Ricordate trama e personaggi, cosa succede, quale il punto di partenza, l’eroe, l’antieroe, gli eventi, il percorso, l’esito ed il cambiamento?

Adesso riflettete sul perché proprio quella, è stata la vostra preferita. Cosa vi ha colpito? Quale melodia del vostro mondo interno, ha risuonato? Quale elemento della storia, vi ha dato sollievo? Quale spunto ne avete tratto?

In seconda analisi, riflettete sul fatto che se quella storia vi ha tanto affascinato, catturato, quasi stregato, sicuramente vi ha anche guidato nella vita, ha dato via ad alcune vostre mosse, decisioni e ha anche fornito una forma peculiare ad alcune vostre scelte. Magari al limite più estremo avete realizzato pienamente, in senso reale o simbolico, quanto contenuto nel racconto stesso.

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Pensate ad esempio alla giovane, che attende il “principe” che la vada a risvegliare dal sonno e dalla noia della sua vita, che la porti via, che la sottragga ai pesi familiari, alle incomprensioni, ecc. Non è così lontano dalla realtà, che vi siano giovani propense a pensare che sposandosi, la loro vita cambierà!

Nello stesso modo, non è poi così lontano dalla realtà il pensiero di alcuni ragazzi: “Quando incontrerò una donna che mi sappia amare davvero, allora mi sentirò pienamente realizzato.” E via dicendo per molti altri esempi.

Qualunque di queste possibilità vi appartenga, ci ricorda quanto siano fondamentali le narrazioni. Del resto, se perdiamo la nostra narrazione di vita, il filo che lega la nostra storia dalla nascita fino al presente, ne siamo oltremodo confusi, disorientati, spersi. Ci manca un senso, l’appartenenza, il nido, la casa d’origine.

Spesso infatti, le persone vanno in terapia, o chiedono un consulto psicologico perché hanno perso il loro centro, la visibilità sul senso della loro vita, su dove andare, su dove si trovano e perché vi ci si trovano, su dove vogliono andare. Se capita questo è perché non si è ancora ben compreso chi siamo, cosa e chi ha determinato ciò che siamo, quali sono i nostri mezzi, gli strumenti, quali i diritti che ci appartengano. E’ come se non riuscissimo a comprendere il senso della nostra vita, come se avessimo smarrito il filo che lega tutti questi eventi che ci hanno attraversato. Questo capita a giovani in fase di crescita, a giovani adulti che si affacciano in un mondo di scelte, ad adulti in fase di cambiamento o di stasi, a chi ha subito un trauma di vario tipo, a chi ha subito una perdita significativa, a persone non più giovani che si affacciano nella fase di stasi e vanno verso la rivalutazione regressiva di quanto è stato, di quanto hanno realizzato, ecc.

Leggere storie, raccontarle, sentirle raccontare è una grande possibilità di rassicurazione e cambiamento. Uno stimolo, un seme che si getta oggi e non si sa quando germoglierà, ma fidatevi … germoglierà!

Nella loro semplicità, nel contenere elementi significativi, ridotti ai minimi termini e usati in senso simbolico, universali, nell’intervento di mondi altri, della magia e di forze misteriose, si racchiude l’importante opportunità di andare oltre la concretezza e la riduttività degli elementi oggettivi, per dare spazio al mondo interno, a quelle forze sconosciute che popolano il piano sotterraneo, la cantina, il sottosuolo, con la potenza che la contraddistingue. Le fiabe e le storie collocano l’individuo nell’inconscio, esattamente come i sogni, ma diversamente dai sogni agiscono di giorno, coinvolgendo in seconda contemporaneamente anche consapevolezza e coscienza.

Le fiabe rappresentano una fonte di grande rassicurazione perché forniscono la speranza di possibilità nascoste, mai viste prima, c’è sempre una soluzione dentro il cappello del prestigiatore. Nulla è impossibile, se l’eroe s’impegna lungo il suo percorso di crescita e di conquista (il castello, la principessa, l’anello più bello, sciogliere l’incantesimo, la prova da superare, ecc.), l’obiettivo sarà superato appieno. Chi ascolta la narrazione si sentirà consolato dalla possibilità di avere una possibilità, di andare oltre l’impotenza annichilente.

Il passaggio “orale” della fiaba da un individuo ad un altro inoltre, stabilisce un momento magico, di profonda condivisione a livello inconscio ed emotivo, fra chi racconta e chi ascolta, una complicità intensa e profonda, altamente rassicurante e nutriente. In questo caso esiste un doppio apporto, quello della fiaba e quello del legame con chi narra, consolidato dall’atmosfera emotiva narrante.

Non a caso le storie, le fiabe, costituiscono dei modi ottimali di accompagnare il bambino, lungo il transito dallo stato di veglia a quello del sonno e lo rendono possibile perché lo fanno sentire meno solo, più fiducioso, pieno di occasioni.

Anche per gli adulti è un mezzo importante, in terapia (Calabretta, Jellouschek) ma anche nella vita di tutti i giorni. Pensiamo ad esempio ai libri, ai romanzi. Non sono forse delle storie più o meno avvincenti, più o meno vere?

Ebbene, spesso passiamo un po’ del nostro tempo a trastullarci, a farci accompagnare, a farci sorprendere, meravigliare, riempire, rassicurare dalle storie scritte nei libri. E’ uno strumento, un modo di esprimere i nostri contenuti interni, ma soprattutto è un accompagnamento nella nostra vita, come fosse qualcuno che ci tiene per mano e cammina a fianco a noi.

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Eppure sono solo parole di qualcuno che neanche conosciamo, talvolta si tratta di storie inventate, eppure possiedono un’efficacia, un fascino, un sostegno indicibile. E stranamente, misteriosamente, noi incontriamo nella nostra vita, i libri che siamo pronti a leggere in quel preciso momento, che hanno un senso in quella fase esistenziale. Lo stesso testo poi, letto in momenti diversi ci dirà delle cose diverse, in modi e tempi diversi. L’incontro fra noi e la narrazione, ha un preciso tempo, modo, un preciso scopo.

La terapia psicologica, la consulenza, il sostegno psicologico, hanno questa funzione di recuperare una narrazione che consoli, che esprima delle possibilità e soprattutto che ridia un senso ad un’esistenza che in qualche modo l’ha persa. Ecco perché raccontarsi ad un altro è importante, perché insieme si ritrova il filo perso o se ne trova un altro, più adatto al momento, tradotto in un linguaggio più esplicativo ed esemplificativo.

Talvolta in terapia si usano le storie di altri, le fiabe antiche, talvolta le proprie storie, talvolta si porta la persona ad impersonare i propri personaggi, a disegnarli, talvolta si spinge ad inventare storie di proprio pugno. Quest’ultima pratica costituisce un’altra grande possibilità di rassicurazione e cambiamento.

Sembra banale, ma non lo è.

Sembra facile, ma non lo è.

Non lasciatevi ingannare dalle apparenze.

In cosa consiste? Semplicemente, è uno strumento assai utile nei momenti di crisi individuale, quelli in cui vi sono scelte da compiere e non si ha chiarezza, quelli in cui si è confusi e non si sa perché, quelli in cui c’è malessere ma non se ne trova ragione. In tutte quelle circostanze in cui non si sta bene nei propri cenci, come avrebbe detto Dante Alighieri, allora le storie ci vengono incontro, le si possono leggere, ricordare, ma le si possono anche inventare, le si possono tradurre dal fondo della propria anima, scovando parola per parola, immagine dopo immagine, personaggi, intrighi, luoghi, tempi, eventi e ……….

Come ci ricorda Santagostino P. la fiabazione è utilissima come strumento conoscitivo, sia per il paziente che per il terapeuta, in quanto permette di conoscere le dinamiche profonde con notevole rapidità e ricchezza di elementi. Di per sé, inventare una storia contiene un elevato effetto terapeutico, infatti avvicina alcuni processi in corso, per lo più inconsci, al livello di coscienza, rendendoli più comprensibili e gestibili. Inoltre l’esplorazione immaginativa, costituisce un modo innocuo di esplorare le risorse e le possibili soluzioni alle problematiche in corso.

In effetti, le tappe fondamentali della fiaba sono costituite proprio da: presentazione del problema, crisi, soluzione. I tre momenti fondamentali e necessari per individuare con chiarezza la situazione ed escogitare una risposta costruttiva, gli stessi adottati nelle tecniche di problem solving. Come tale costituisce un metodo per favorire l’autoguarigione, per sviluppare consapevolezza e creatività, elicitando un percorso parallelo e di sostegno alla terapia, ma anche un processo che può proseguire per proprio conto, per il resto dell’esistenza.

Come la narrazione costituiva un rituale per l’intera tribù, ritengo che abbia questa funzione anche per l’individuo, in quanto si fonda su elementi significativi ripetitivi, che devono diventare passi di un processo, di uno strumento risolutivo e conoscitivo. E’ un rito che ciascuno compie ripetutamente con sé stesso, armonizzando cognizione, emotività, corpo, relazione. L’immaginazione inoltre, costituisce quello spazio intermedio, transizionale (Winnicott) fra conscio e inconscio, veglia e sonno, quello che permette il passaggio dall’uno all’altro, offrendoci l’esperienza del sonno, del gioco di fantasia, della costruzione di senso, dell’elaborazione artistica, dell’intuizione, ecc.

Ed è proprio la formulazione tipica dell’inizio delle fiabe “In un paese molto lontano”, “In un tempo ormai sconosciuto”, “In un tempo in cui desiderare serviva ancora a qualcosa” ….. e così via, ad introdurci immediatamente in un altro mondo, diverso da quello concreto e cognitivo, il mondo dell’inconscio, dove tempo, spazio, significato, desideri hanno un altro peso e confini sconosciuti. Proseguendo poi oltre le prime parole, per cogliere le prime frasi, già ci inoltriamo nel vivo della questione. Esattamente come le prime parole del primo colloquio (G. Lai) (sia in un contesto terapeutico che non) ci introducono ed esplicitano chiaramente i termini della questione, allo stesso modo le prime frasi di una fiaba già delimitano il tema centrale.

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Prendiamo ad esempio la formulazione “In un tempo in cui desiderare serviva ancora a qualcosa …”  come avvio della fiaba Il principe Ranocchio o Errico di Ferro (nei fratelli Grimm). Questa ci esplicita subito qual è il problema: desiderare. Il senso finale della fiaba infatti ritorna qui: se desideri realmente qualcosa, se sei disposto a tutto e ti prendi la responsabilità di questo tutto, che talvolta può essere pesante e spiacevole, ma alla fine avrà un senso e ti ripagherà, se farai tutto questo allora avrai esattamente ciò che desideri.

In questa fiaba infatti, la principessa più piccola ha smarrito la sua palla d’oro in una polla di acqua profonda e pur di averla promette ad un ranocchio di portarlo con sé a corte e di condividere tutto con lui, il piatto, il bicchiere, la tavola, il letto. E così è stato, il ranocchio le ha ripescato il balocco e lei, responsabilizzata dal padre, seppur di mala voglia, ha condiviso tutto col freddo e viscido ranocchio, che sul più bello si è trasformato in un bel principe. Desiderare dunque è importante, costituisce una forza vitale, la spinta alla crescita, al cambiamento, all’autorealizzazione. Desiderare ha un peso e un costo, ma ripaga sempre. E’ importante credere nei propri desideri: ecco il senso.

L’elemento significativo delle fiabe è che si propongono non i “come” ma i “perché” delle storie, degli eventi, delle azioni, ridando appunto un senso, un significato perso o mai trovato, a ciò che ci capita. Vanno a rintracciare le cause, gli antecedenti di una data scelta, di un sentire e di una condizione. Ripescano l’origine e quindi il desiderio di base, il bisogno ed il conflitto.

Cenerentola ad esempio, è triste e sfaccendata, presa da mille lavori, perché è sola di fronte ad una madre buona che ha lasciato il posto ad una matrigna, alleata alle sue figlie legittime. La storia ci dice che la ragazza è triste perché l’alleanza con la propria madre non è possibile, è morta per sempre, lasciando posto all’elemento competitivo e malevolo della relazione al femminile. Ed è grazie all’intervento della fata, di una madre buona non più naturale e primaria, ma magica e secondaria (quale potrebbe essere un terapeuta con una buona funzione materna, una curandera, ecc.), costituisce la fiducia di poter trovare una funzione materna sostitutiva, che restituisca potere alla propria femminilità e forza al proprio destino. Anche Cenerentola ha diritto a desiderare un futuro ricco e pieno d’amore e la fata l’aiuta a realizzare questo suo desiderio.

A maggior ragione che le fiabe sono l’espressione pura e semplice di processi psichici non solo dell’individuo, ma dell’inconscio collettivo, rappresenta il linguaggio internazionale di tutta l’umanità, di tutte le età, razze e civiltà (Von Franz). Bettelheim ce l’ha dimostrato con la fiaba Cenerentola, di cui se ne trovano versioni persino nella Cina antica e addirittura nell’Egitto faraonico.

Alcuni intendono la storia che ci appartiene dalla nascita alla morte, come una sorta di espressione di archetipi universali, secondo un andamento proprio, che sostiene ora l’uno ora l’altro elemento, quale l’innocente, l’orfano, il viandante, il guerriero, il martire, il mago, rappresentanti di figure simbolo di funzioni psichiche comuni (Pearson). Come se la nostra realizzazione prendesse le mosse da una serie di personaggi interni, ciascuno con spinte proprie, paure, meccanismi, obiettivi, ecc.

E allora tuffiamoci nelle storie, nelle fiabe, ma ancora di più recuperiamo le nostre storie, narriamoci la nostra vita attraverso la fantasia e l’immaginazione. Doniamoci questo strumento conoscitivo e di auto guarigione. Inventiamo le storie che ci appartengono, lasciamo che questi personaggi nascosti vengano alla ribalta e ci chiariscano le dinamiche della vita quotidiana. Lasciamo che il nostro mondo cosciente sia popolato, almeno per un po’, da draghi, castelli, principesse, gnomi, folletti dei boschi, fate, streghe, rospi …………..

Come si procede? Come si inventano le storie?

Dopo aver riflettuto sul vostro dubbio, sul problema, sui termini della scelta, cercate un luogo tranquillo, in un momento in cui potete concedervi tempo, lontano da rumori o invasioni. Fate in modo che questo spazio venga protetto, spengendo cellulari, telefono, TV, chiudete le finestre e le imposte, riparatevi da qualunque altro elemento possa essere disturbante.

Dunque fate un po’ di rilassamento, sdraiandovi sul letto, su un tappetino, facendo una meditazione, un rilassamento guidato o qualunque cosa vi aiuti a rilassarvi e a sgomberare la mente da pensieri di qualunque sorta. Di seguito, con in mano foglio e penna, attendete che i personaggi arrivino a voi.

Abbiate fiducia, tempo e pazienza. Non giudicatevi, non arrendetevi. Se non arriva nulla, aspettate finché ce la fate, se non arriva ancora nulla, ripetete l’operazione in seguito, in un altro momento propizio.

Può anche capitare che arrivino personaggi e intrighi, ma ad un certo punto non sappiate più come andare avanti. C’è un blocco. Non importa, aspettate e se non arriva, riprovateci successivamente. Non c’è fretta, non ci sono tempi stabiliti o preferiti. Ognuno ha i suoi tempi. L’inconscio non rispetta gli orari usuali della vita.

Può essere che se non siete allenati a rilassarvi, ad ascoltarvi, a lasciarvi andare alla fantasia e alle vostre immagini interne, non arrivi nulla nell’immediato. Non vi scoraggiate, è solo una questione di esercizio, di tempo e pazienza.

Prendetevi tempo. Vedrete che riprovandoci ripetutamente, intanto si creerà uno spazio di serenità, uno spazio per voi, poi si creerà uno spazio dell’introspezione ed infine della libertà, dove i propri contenuti potranno volare fuori senza remora e senza regole. Non ci sarà niente di più bello!

Vedrete che le storie che emergeranno, saranno significative, avranno un senso rispetto al dubbio iniziale, al problema o alla scelta, dovete solo saperlo vedere.

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Vi invito a provarci e sperimenterete uno spazio magico, veramente magico, creato senza l’ausilio di bacchette fatate.

Non svalutate quest’operazione, non deridetevi, non giudicate quanto state facendo, non sminuite ciò che emergerà, date spazio anche al sentire, all’immaginazione, non lasciate che queste parti siano sepolte nel passato della vostra infanzia. Anche se la vita è piena di impegni, doveri, lavoro, scadenze, spese, non possiamo cedere alla brutalità di una vita fatta solo di urgenze, pressioni e cose concrete. Esiste anche altro. Esistiamo noi!

Dentro di noi, dentro ciascuno di noi risiede un luogo spesso sconosciuto a noi stessi, popolato di personaggi, fantasie, immagini, emozioni, intrecci, una realtà parallela e pur in forte connessione con quella di superficie, quella che conosciamo meglio. Laggiù si nasconde la nostra forza, la carica, la creatività, il caos fonte di crescita e vita.  Non priviamoci di tutto questo, non escludiamo dalla nostra vita un po’ di colore.

Sicuramente ci saranno voci dentro di voi, figure oscure che vi diranno di non provarci neanche, non è roba per voi, non ci riuscirete di certo, sono solo sciocchezze, cose da bambini e così via. La razionalità cercherà di sabotarvi, non permetteteglielo, lasciatevi andare al fiume del vostro respiro, al ritmo del vostro cuore e lasciate che emerga altro da voi.

Chiunque decida di inventare delle storie, di provarci, di farsi questo grande dono e decida anche di voler condividere con gli altri quanto emerso, farà un gran regalo a sé e agli altri, chi vorrà potrà trovare spazio di pubblicazione in questo blog. Sarò ben felice di condividerlo con voi e di metterlo in condivisione con gli altri.

Inviatemi pure le vostre storie!

L’indirizzo è sabrina.costantini1@tin.it

Recuperando la propria storia, narrata in una creazione propria, sarà un vera festa.

Buona storia e buona scoperta!

 

 

Bibliografia

 

Benini E., Malombra G. (2010). Le fiabe per vincere la paura. Franco Angeli.

Bettelheim B. (1977). Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Milano,Feltrinelli.

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9 novembre 2011 3 09 /11 /novembre /2011 07:56

                                            Stile di dipendenza VI parte

Dott.sa Costantini Sabrina

 

Grafico n° 13. “Considerazioni dopo aver risposto a queste domande sul tuo  stile di vita?”

(per problemi tecnici non è possibile riportare i grafici, chi fosse interessato mi può contattare e li invio per email. sabrina.costantini1@tin.it)

 

  

Da quanto emerso in merito al differenziale semantico, i ragazzi si presentano e si vivono nella condizione intermedia del continuum che unisce le coppie debole-forte, piccolo-grande, passivo-attivo, indifferente-emotivo, falso-vero, senza scopo-motivato, cattivo-buono, sporco-pulito, disonesto-onesto.

Infine, il Grafico n° 13 mostra la distribuzione delle risposte relative ad una delle due ultime domande aperte, che chiede impressioni e considerazioni al termine della compilazione. Notiamo subito un’alta percentuale di non risposte (32,3%), seguita da considerazioni pertinenti agli obiettivi del questionario, in quanto riguardanti lo stile di vita (29,2%), il conoscersi (9,4%), considerazioni sulle regole (9,1%),  valutazione della propria situazione (6,3%) e così via. Queste risposte, sembrano confermare l’utilità di uno strumento, che crea l’opportunità di riflettere su certe tematiche e di scardinare alcune abitudini acquisite da tempo, protratte automaticamente al di fuori della consapevolezza.

 

 

 

Conclusioni

 

La nostra trattazione aveva l’intento di condividere un’esperienza di Educazione alla Salute e allo Stile di Vita, rivolto ad alcune classi delle scuole medie inferiori e superiori. Come già esposto avevamo due obiettivi primari, raccogliere informazioni circa lo stile di vita di questi ragazzi e fungere da catalizzatore del pensiero e dell’autoriflessione, primo passo per il cambiamento.

In linea generale, l’intervento è stato ben accolto dai ragazzi e dagli insegnanti, che sembrano aver afferrato l’opportunità di riflessione e di confrontazione su certe tematiche.

La collaborazione aumenta decisamente per i ragazzi della scuole media inferiore, mentre in quella superire si è riscontrato maggiore ostracismo e ribellione generale, in linea del resto con i dati ricavati dal questionario, dove i comportamenti più estremi sono maggiormente rappresentati dai ragazzi più grandi (ubriachezza, possesso di più cellulari, abuso di TV, abuso di SMS, abuso di internet e playstation).

Dai dati abbiamo riscontrato che il nostro campione è costituito da ragazzi con una vita dinamica, piena di sport, hobbies, interessi, relazioni, ecc. Piena anche di mezzi di comunicazione di massa, quali PC, TV, cellulare, Playstation, utilizzati quotidianamente, in linea coi tempi.

Come per l’uso di sostanze e di cibo, anche i media sono conosciuti ed usati da tutti, ma in alcune buone percentuali sfiorano o arrivano fino all’abuso e alla dipendenza. Come già accennato, i comportamenti più estremi sembrano più propri dei ragazzi della scuola secondaria, in sintonia con l’età e alla fase più pienamente adolescenziale, ma anche più vicina alla maggiore età, che li rende più svincolati e autonomi, rispetto alle figure genitoriali. C’è anche da chiedersi se questi dati siano rappresentativi della fascia d’età o meno, ricordiamoci infatti che arrivano da studenti di un istituto professionale, spesso scelto preferibilmente dai ragazzi più in ribellione, rispetto alle figure adulte e a certe condotte normative.

Nello specifico, i dati più salienti sono costituiti da un’alta percentuale di soggetti che consuma alcool, ma da una percentuale di esperienze di ubriachezza contenuta (il 4% si è ubriacato più di 10 volte ed il 63% non si è mai ubriacato). Questo elemento si mostra in linea con altre ricerche, che individuano un abbassamento dell’età media di utilizzo d’alcool, in Italia è pari a 12,2 anni contro la media europea di 14,6 anni. Si ricava quindi (soprattutto per i ragazzi più grandi) il nuovo modello di consumo, caratterizzato da occasionalità, intensità e spesso intossicazione.

Anche l’uso di fumo e di cibo, mostrano una certa propensione all’abuso e alla dipendenza, almeno per una percentuale dei ragazzi. Infatti, il 15% fuma quotidianamente, il 17% invece ha sperimentato l’abbuffata di cibo, per oltre cinque volte.

Nello specifico abbiamo visto che i ragazzi maschi più grandi fanno maggior uso di fumo, di alcool e si ubriacano più spesso, conoscono più persone che fanno uso di droghe.

Ancora in linea con i dati di altre ricerche, abbiamo individuato che l’80% dei ragazzi possiede il cellulare, il 20% ne ha due e il 50% di loro, è entrato in possesso del primo cellulare a 10-12 anni, ma una certa percentuale abbassa l’età a circa 4-5 anni. Mentre nell’uso di sostanze i ragazzi più grandi si distinguono dai più piccoli, ciò non si verifica per i cellulari, indicandoci quindi un suo utilizzo quotidiano assai precoce.

I ragazzi inoltre, si distribuiscono per lo più nell’uso di internet nella fascia che va da 1 a 2 ore, ma percentuali significative si riscontrano anche per la fascia delle 7 ore. L’uso di TV si attesta su un range che va da 1 a 3 ore, il 3% dei ragazzi di secondo grado arriva fino a 7 ore, come arriva sempre a 7 ore per quanto concerne l’uso di Play station (4,3%). In effetti il 18,8% dei ragazzi inserisce fra gli hobbies il multimediale.

Da altre indagini (Petrella) si è visto che i bambini fra i 4 e i 14 anni in Europa, siedono davanti alla TV per una media di tre ore al giorno, con un picco massimo di sei ore. In America riscontriamo dati ancora più eclatanti, si trascorrono circa 15.000 ore annue davanti alla TV, contro le 11.000 trascorse a scuola.

Se mettiamo insieme l’uso di tutti i mezzi a disposizione (TV, computer, Playstation, cellulare) vediamo che i valori salgono notevolmente, facendoci pensare ad una giornata tipo, piena di medianità. Tirando le somme di tutto questo, possiamo dire che esiste una certa tendenza all’abuso di sostanze (fumo e cibo) e di mass media di vario tipo. Una tendenza per va accrescendosi con l’età, soprattutto nei confronti dei comportamenti estremi (esperienze di ubriachezza, 7 ore di internet, di TV, ecc.) e riguarda maggiormente i maschi piuttosto che le femmine (per alcool e fumo).

Altri elementi più innocui, presentano parimenti una percentuale d’abuso, il 9,9% di ragazzi pratica da 8 a 10 ore di sport settimanali, il 9,9% ne pratica oltre 10, inoltre il 6,5% frequenta gli amici per 6 ore il giorno ed il 7,5% per sette ore.

In questo senso si può parlare di stile di dipendenza, presupponendo che esista comunque una certa tendenza ad abusare di certi strumenti o sostanze. Abbiamo già visto come l’adolescente, seppur svincolato concretamente rispetto alla totale dipendenza del bambino, rimane dipendente emotivamente. Una dipendenza che va a riversarsi su certi strumenti e certe sostanze, come probabile riempitivo di tempo, di stimoli e come tramite di socializzazione. Non a caso, il nostro campione trascorre molte ore con gli amici e nello stesso tempo con i mezzi tecnologici o con lo sport, come se costituissero appunto uno strumento intermediario per la socializzazione. All’inverso potrebbe anche essere vero che gli amici costituiscono un tramite per compiere date attività (sport, internet, ecc.). In entrambe i casi, si evince come la necessità di un oggetto intermedio (forse “transazionale” nei termini di Winnicott?) per arrivare ad un certo obiettivo, ci parli di bisogno e di dipendenza da elementi strumentali esterni.

Per cui, dando per scontato che esista una qualche forma di abuso, si tratta di individuare lo stile di dipendenza, l’oggetto che la riguarda ed il grado di nocività. Da quanto intravisto in quest’indagine, i ragazzi sembrano già dipendenti dalla tecnologia e dal loro uso smodato.

A conferma di ciò, durante la discussione di classe, è emerso varie volte che alcuni studenti hanno sperimentato vera e propria angoscia-panica, nel momento in cui sono privati del cellulare, mentre altri non possono fare a meno di controllare l’arrivo di sms o di posta elettronica, durante altre attività (es. lo studio). Queste considerazioni inoltre, sono emerse dai ragazzi più piccoli, che dai dati sembrano i meno dipendenti.

Un dato che ci ha stupito notevolmente è rappresentato dalla mancata influenza dello stile educativo, sul consumo di sostanze e di mass media. Ciò, toglierebbe potere all’apporto genitoriale nel direzionare e proteggere da certe condotte. Questo dato, potrebbe essere interpretato in altri modi, una possibilità consiste dalla provenienza del risultato, ovvero determinato da un’autocompilazione. Non sappiamo se la classificazione autodescritta, corrisponda alla visione prodotta in letteratura, nel scegliere certi concetti. Un’altra possibilità, potrebbe essere data dallo scarso controllo genitoriale, un’ipotesi particolarmente appropriata soprattutto per quanto concerne la TV, il PC, il cellulare, la playstation, gli amici, lo sport, in quanto ambiti apparentemente innocui. Questo indurrebbe a pensare ad una possibile sottovalutazione dei rischi e di conseguenza del controllo, apportato su tali condotte. Può anche darsi che data l’impostazione quotidiana dell’era post industriale, i genitori, al di là dello stile educativo, siano sempre meno presenti e attenti nel dare certe regole e nel farle rispettare, spesso i ragazzi stessi trascorrono molte ore fuori casa, quindi fuori dall’occhio genitoriale. In questo caso, l’assenza concreta del genitore, condurrebbe ad un’autoregolazione della condotta non sempre concretamente regolata. Inoltre, un elemento sempre più evidente delle ultime generazioni di genitori, corrisponde alla crescente difficoltà di gestire le regole ed i confini dei propri figli.

Infine, potremmo anche pensare che quanto scoperto da Lewin valga pienamente anche per l’influenza genitoriale, ovvero che per incidere sulle abitudini dei ragazzi sia necessario qualcosa di più delle semplici informazioni, regole o ramanzine. Può darsi che, anche in questo caso sia necessario scardinare le idee e le abitudini con un coinvolgimento diretto e critico della parte interessata, ciò che abbiamo cercato di introdurre appunto con il nostro intervento.

Le risposte alla domanda aperta sulle considerazioni finali e le riflessioni nate dal confronto diretto con i coetanei, ci fanno pensare alla grande utilità di interventi di educazione che cerchino di costruire uno spazio di riflessione e autosservazione, circa le proprie abitudini, credenze, usi ed abusi.

Ovviamente, non sappiamo che ricaduta avrà il nostro intervento a breve e lungo termine, sulle convinzioni e sulla condotta. A brevissimo termine, sembra aver stimolato riflessione e pensiero su condotte ormai automatiche. Probabilmente costituisce solo un piccolo intervento, ma ciò che conta è che fornisca la spinta ad apportare un modello d’intervento condotto in modo continuativo ed evolutivo.

L’efficacia maggiore, per quanto riscontrato nel corso degli incontri, riguarda soprattutto i ragazzi delle scuole medie inferiori. I ragazzi delle scuole superiori invece hanno mostrato un atteggiamento ribelle e svalutante, confermato anche dalle risposte all’ultima domanda (“considerazioni finali”).

L’elevata percentuale di mancate risposte, soprattutto nella prima parte del questionario, induce a pensare ad una certa mancata collaborazione, ma anche ad una sorta di ansia, concretizzabile in ansia dell’anonimato, ansia del giudizio, ansia del confronto, che mostra la difficoltà e problematicità nel parlare di sé, pur trattandosi di abitudini e modi di fare.

Tutto ciò non fa che rinforzare l’idea, di dover promuovere un’Educazione alla Salute permanente e sempre più precoce rispetto all’età, che riguardi prima di tutto la capacità di fermarsi a guardarsi, a riflettere su sé e a confrontarsi con gli altri.

Relativamente al contenuto, ci sembra che i risultati diano ragione circa l’importanza di continuare a lavorare su abitudini, routine, convinzioni, comportamenti, usi e abusi, relativi a tutto ciò che ci circonda. Nel corso del nostro intervento (confermato nei questionari), abbiamo anche intravisto la difficoltà e problematicità circa l’integrazione razziale, che potrebbe costituire ulteriore tema di intervento.

Durante gli incontri, si è riscontrato una scarsa sovrapposizione fra quello che pensano alcuni insegnanti e quanto visto da noi. Alcune classi ci sono state presentate come poco collaboranti e poco capaci di fermarsi a riflettere e discutere, invece con nostra sorpresa il più delle volte, quelle si sono mostrate delle ottime classi, nel svolgere il compito assegnato. Ciò ci induce a riflettere sulla necessità di ampliare ed uniformare la visione dei mezzi a disposizione, delle risorse e capacità di ciascuno, per poter tirar fuori le parti migliori di ciascun ragazzo.

E’ importante sottolineare che l’educazione alla salute non deve riguardare esclusivamente i ragazzi, ma deve essere estesa ad insegnanti e genitori, per costruire una rete unica ed integrata di protezione per le nuove generazioni. La salute deve costituire un bene desiderabile e perseguibile nel tempo, con l’integrazione e la collaborazione di tutte le parti in gioco.

 

 

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7 novembre 2011 1 07 /11 /novembre /2011 11:55

                                                Stile di dipendenza V Parte

Dott.sa Costantini Sabrina

 

Grafico n° 4. Valutazione comparativa fra stile educativo e uso di sigarette (item 10: “Hai mai provato a fumare sigarette?”)

(per problemi tecnici non è stato possibile riportare i grafici, chi fosse interessato può scrivermi e li invierò per posta elettronica: sabrina.costantini@tin.it

Grafico n° 5. Valutazione comparativa fra stile educativo e uso di alcoolici (Item 12: “Hai mai bevuto alcolici?”)

 

Grafico n° 6. Valutazione comparativa fra stile educativo ed esperienze di droga (Item 15: “Conosci qualcuno che fa uso di droghe?”)

 

Osservando i dati successivi, entriamo nel merito delle condotte multimediali.

Intanto dalla Tab. 5 osserviamo l’età in cui i nostri ragazzi hanno avuto il primo cellulare. Più del 50% ha avuto il primo cellulare fra i 10 e i 12 anni, la restante gran parte del campione si distribuisce nella fascia superiore (13 anni) e quella inferiore (9 anni), ma è presente anche una piccola percentuale dei casi riguardante la fascia dei 4 -6 anni.

I dati sono abbastanza conformi con quelli di Ribecco (Centro studi Minori e Media), relativi all’indagine condotta su un campione di 2264 minori, uniformemente distribuiti sul territorio italiano. In questa ricerca emerge che l’84,4%  dei bambini tra gli 8 e i 14 possiede un cellulare, l’età media di acquisto del primo telefonino si verifica a 10-11 anni, il 20% degli intervistati arriva a possedere due o tre telefonini e una parte di loro ha avuto il primo cellulare all’età di quattro anni.

Il Grafico n° 7 ci mostra la conformità di quanto detto, infatti l’80% circa possiede questo mezzo e il 20% ne possiede due. In questo caso, la differenza fra i due istituti è minima, si differenzia a favore dei ragazzi più grandi, rispetto al possesso di due cellulari.

Anche riguardo al numero di sms spediti, non si individuano differenze statisticamente significative fra i due istituti (grafico n° 8). Il 36% dei ragazzi di primo grado ed il 24% di quelli di secondo grado inviano da 1 a 5 messaggi al giorno ed il 3% circa dei ragazzi di primo ed il 21% di secondo grado ne inviano più di 20, rispettivamente l’8,3% ed il 2,5% ne spediscono da 50 a 100 al giorno e il 5,3% e 2,5% oltrepassa i 100 sms quotidiani. Complessivamente, una buona percentuale invia un numero di sms assai elevato.

Tenendo inoltre conto che l’istituto superiore è scarsamente rappresentato dal sesso femminile, quello più propenso all’uso di sms, si può supporre che una distribuzione più proporzionata fra i due sessi, potrebbe far schizzare il dato ad un numero decisamente più elevato per la fascia d’età maggiore.

Il Grafico n° 9 ci mostra che, in larga parte il nostro campione non eccede in telefonate, rispettivamente il 42% e il 35% dei due istituti telefona da 0 a 5 minuti il giorno. Naturalmente, come per ogni condotta presa in esame, esiste poi sempre una quota che abusa del mezzo, in questo caso rispettivamente il 6% ed il 9% telefona per più di 45 minuti al giorno, il 3% ed il 6,9 telefona da 30 a 45 minuti al giorno, l’intervallo che va dai 15 ai 30 minuti conta un 15% e un 18% rispettivamente.

Complessivamente il cellulare sembra molto presente nella vita di questi ragazzi. Non solo è posseduto da quasi tutti, ma se una metà circa del campione lo usa moderatamente (sia in termini di sms che in tempo di telefonate), l’altra metà va verso valori più elevati, fino ad arrivare all’abuso e alla dipendenza.

Tab. 5 Distribuzione dei dati relativi all’età del primo cellulare

 

 

Grafico n° 7. Distribuzione comparativa fra i due istituti, dei dati relativi alla domanda: “Quanti cellulari hai?” (item 16)

Grafico n° 8. Distribuzione comparativa fra i due istituti, dei dati relativi alla domanda: “Quanti sms spedisci al giorno?” (item 17)

Grafico n° 9. Distribuzione comparativa fra i due istituti, dei dati relativi alla domanda: “Quanti minuti al giorno trascorri in telefonate?” (item 18)

Il Grafico n° 10 ci mostra la distribuzione comparativa fra i due istituti, per quanto concerne l’utilizzo di internet. Una buona percentuale (17% dei ragazzi più grandi e 24% circa di quelli più piccoli) utilizza internet per meno di un’ora al giorno o per un’ora (rispettivamente il 17% ed il 20% circa), ma anche gli intervalli superiori presentano dati elevati: tre ore al giorno (il 9% e 3,8), quattro ore (3,8% e 4,4%), sei ore (4,5% e 1,9%) ed infine una buona percentuale (23,3 e 15,1%) lo utilizza per sette ore, un dato molto elevato e allarmante.

Le percentuali di consumo della TV (Grafico n° 11) ci mostrano che il 25% dei ragazzi di secondo grado ed il 31% circa di quelli di primo grado, si attestano sulle due ore, mentre il 21% e il 15% rispettivamente si attestano sulle tre ore, il 7% circa di entrambe i gruppi si spostano sulle quattro ore ed il 3% dei ragazzi più grandi si attestano sulle sette ore. Se sommiamo questo tempo alle ore trascorse davanti al PC, riscontriamo una quantità di video veramente elevata e preoccupante.

Il Grafico n° 12 riguarda i dati relativamente all’uso della Play Station. Il 17% ed il 28% circa dei ragazzi dei due istituti, lo usano per meno di un’ora al giorno, il 18% ed il 10% circa rispettivamente per un’ora al giorno, il 13% e 8% rispettivamente per un paio di ore al giorno e via via scemando verso i valori più elevati, fino ad un 4% di ragazzi della scuola superiore, che lo utilizzano per 7 ore circa.

Anche se non esiste differenza statisticamente significativa, si nota che per tutte le condotte, i valori più estremi (6-7 ore) relativi a tutti i  mezzi (cellulare, computer, TV, playstation) riguardano quasi esclusivamente i ragazzi più grandi, come se le condotte fossero ben presenti fin dai 12 anni, ma non arrivassero ancora all’abuso e alla dipendenza.

La Tab. 6 infine, ci mostra le preferenze relative ai vari mezzi. Su internet sembrano andare per la maggiore le chat amicali (22%), i giochi interattivi (11%) e l’attività di scaricare musica, video, ecc. Relativamente alla TV invece sembra esserci una equodistribuzione per i vari programmi, che vanno dai cartoni, ai film, alla satira, ecc. I giochi della play station preferiti invece riguardano principalmente quelli di guerra (22%) e di sport (34%). Un po’ conformemente all’età dei ragazzi, intermedia fra l’infanzia e l’età adulta, la fruizioni dei programmi distribuire le preferenze su vari tipi di prodotto, nell’una e nell’altra direzione.

Il dato allarmante, che conferma le indagini riportate da altri (Petrella), non è quanto tempo questi ragazzi impiegano con uno di questi mezzi, quanto piuttosto il tempo totale che impiegano miscelando tutti questi mezzi, che produce un cocktail mediatico assai potente e nocivo.

 

Grafico n° 10. Distribuzione comparativa fra i due istituti, dei dati relativi alla domanda: “Quanti ore al giorno trascorri su internet?” (item 19)

Grafico n° 11. Distribuzione comparativa fra i due istituti, dei dati relativi alla domanda: “Quanti ore al giorno trascorri davanti alla TV?” (item 24)

Grafico n° 12. Distribuzione comparativa fra i due istituti, dei dati relativi alla domanda: “Quanti ore al giorno trascorri davanti alla Play station?” (item 26)

 

Tab. 6 Distribuzione relativa all’utilizzo di Internet, TV e Play Station

 

Età del primo cellulare

N

%

4 anni

2

0,7

6 anni

2

0,7

7 anni

3

1,0

8 anni

10

3,4

9 anni

30

10,3

10 anni

55

18,8

11 anni

54

18,5

12 anni

49

16,8

13 anni

27

9,2

14 anni

13

4,5

15 anni

2

0,7

nr

45

15,4

TOTALE

292

100

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2 novembre 2011 3 02 /11 /novembre /2011 11:59

                                                     Stile di dipendenza

Dott.sa Costantini Sabrina

 

 

Grafico n° 1. Confronto fra istituti e genere, relativamente al consumo di sigarette

 (Dato il problema tecnico, chi fosse interessato ai grafici mi scriva, glielo invio direttamente. sabrina.costantini1@tin.it)

 

Grafico n° 2. Confronto fra istituti circa l’abitudine di bere alcolici

 

Grafico n° 3. Confronto fra istituti circa l’abitudine di ubriacarsi

 

I grafici n° 4, 5, 6 ci mostrano la valutazione comparativa fra certe condotte (fumo, alcool e droga) con gli stili educativi. Da quanto possiamo vedere esiste una propensione degli stili educativi permissivo e supportivo ad influire su questi comportamenti, accrescendo la percentuale d’uso di fumo, alcool e presumibilmente droghe. Tendenza che non raggiunge però la significatività statistica.

Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, non è emersa influenza neppure fra stile educativo e uso dei media (cellulare, computer, Tv, play station) (per brevità, non riportiamo i dati).

Questa mancanza di correlazione ci induce a pensare che, o lo stile educativo non prevede la regolazione dell’utilizzo di tali mezzi (cellulare, PC, ecc.), in accordo con la loro supposta innocuità, oppure che il loro impiego è influenzato prepotentemente da altri fattori, che non sono mediati dallo stile genitoriale. Nel caso delle sostanze però, non si può parlare di loro presunta innocenza, in questo caso quindi peserebbe più l’ipotesi di una preponderante influenza di altri elementi.

In ogni caso, anche in assenza di significatività, si osserva comunque una tendenza da parte di stili educativi meno strutturati e rigidi, ad influire sul loro uso. E’ probabile quindi che queste condotte di abuso siano influenzate da fattori diversi, interagenti in modo diverso nelle varie circostanze, tale da creare un processo difficilmente misurabile in modo univoco. Può anche essere possibile che le condotte più soggette ad abuso, proprio perché facilmente seduttive e avvolte da certi valori simbolici, necessitano di una regolamentazione e di un controllo esterno forte e costante.

C’è inoltre da dire che, la classificazione dello stile educativo è stata compiuta in base all’autovalutazione dei ragazzi, per cui potremmo ipotizzare che questa percezione non corrisponda necessariamente all’idea teorica degli autori che hanno individuato queste categorie educative.

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2 novembre 2011 3 02 /11 /novembre /2011 07:56

                                                                 Stile di Dipendenza Parte IIIB

 

 

 

 

Tab. 3 Distribuzione dei dati relativamente ad alcune attività quotidiane

 

 

 

ITEM 5

Quante ore alla settimana dedichi allo sport?

N

%

 

0-2

50

17,1

 

2-4

65

22,3

 

4-6

47

16,1

 

6-8

31

10,6

 

8-10

29

9,9

 

Più di 10

29

9,9

 

nr

41

14,0

 

TOTALE

292

100

 

 

 

 

ITEM 6

Quante ore al giorno studi?

N

%

 

Mai

35

12,0

 

Meno di 1

52

17,8

 

1

69

23,6

 

2

69

23,6

 

3

34

11,6

 

4

21

7,2

 

5

7

2,4

 

Oltre 6 ore

1

0,3

 

nr

4

1,4

 

TOTALE

292

100

 

 

 

 

ITEM 7

Quante ore al giorno trascorri con gli amici?

N

%

 

Mai

12

4,1

 

Meno di 1

20

6,8

 

1

26

8,9

 

2

56

19,2

 

3

62

21,2

 

4

35

12,0

 

5

34

11,6

 

6

19

6,5

 

7

22

7,5

 

nr

6

2,1

 

TOTALE

292

100

 

 

 

 

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31 ottobre 2011 1 31 /10 /ottobre /2011 13:57

 

 

                                                Stile di dipendenza Parte III A

 

Dott.sa Costantini Sabrina

 

 

 

 

 

La Tab. 4 ci mostra che il 41% del campione ha provato a fumare sigarette e di questi solo il 15,8% fuma quotidianamente, mentre il 12% non risponde. Ricordiamo che questo dato corrisponde ad una media determinata dalla metà del campione costituito da ragazzi dell’istituto di media inferiore, forse ancora distanti da certe condotte abituali e dall’altra metà da ragazzi di un istituto superiore, dove invece il fumo sembra una realtà quotidiana, osservabile direttamente nella stessa scuola. Ciò lascia pensare che la media dei ragazzi d’età inferiore sia nettamente più bassa, mentre la media dei ragazzi  d’età superiore sia nettamente maggiore, che quindi la media svilisca molto il problema effettivo.

 

L’80% dei ragazzi fa uso di alcoolici, ma il 63% (Tab. 4) dichiara di non essersi mai ubriacato, mentre l’8% circa si è ubriacato dalle 4 volte in poi, il 21% circa si è ubriacato in modo più occasionale (da 1 a 3 volte) e il 7% non risponde.

 

Dai grafici n° 1, 2 e 3 possiamo notare che esiste una differenza statisticamente significativa fra maschi e femmine e fra istituti, relativamente all’uso di sigarette e alcool. E’ risultato che i maschi fumano (chi2 =4,8 con p =.03) e bevono (chi2 =6,9 con p =.009) più delle femmine  e l’istituto di secondo grado fuma (chi2 =85,4 con p <.001), beve (chi2 =14,8 con p <.001) e si ubriaca (chi2 =52,3 con p <.001) più di quello di primo grado. Lo stesso andamento, è stato individuato anche relativamente alla conoscenza di persone che fanno uso di droghe (per brevità non riportiamo i dati). La differenziazione in base all’età e al sesso, ci conferma quanto appena detto sulla riduttività della media statistica, nella descrizione di queste condotte.

 

E’ probabile che i ragazzi di una certa fascia di età, più delle ragazze, abbiano trovato uno status simbol o un modello d’identificazione (adulta e/o maschile) contraddistinta da certe condotte (uso di alcool, fumo e droghe), del resto pubblicizzate in modo più o meno diretto da film e spot. Identificazione, che probabilmente le ragazze hanno trovato in altri tipi di condotte, quali il look, lo shopping, certi interessi, attività più marcatamente femminili, in base all’immaginario collettivo.

 

    

Tab. 4 Abitudini relative all’uso/abuso di fumo e alcool

 

 

 

-         nr sta per non risponde

     

ITEM 10: Hai provato a fumare sigarette?

N

    %

SI

120

41,1

NO

171

58,6

nr

1

0,3

TOTALE

292

100

ITEM 11bis

Attualmente quanto spesso fumi?

N

%

 

Ogni giorno

46

15,8

 

Almeno una volta a settimana

15

5,1

 

Meno di una volta a settimana

9

3,1

 

Non fumo

187

64,0

 

nr

35

12,0

 

TOTALE

292

100

 

 

 

 

ITEM 14 bis

Hai bevuto tanto da essere ubriaco?

N

%

 

No, mai

184

63,0

 

Sì, 1 volta

41

14,0

 

Sì, 2-3 volte

21

7,2

 

Sì, 4-10

13

4,5

 

Sì, più di 10 volte

12

4,1

 

nr

21

7,2

 

TOTALE

292

100

 

 

 

 

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27 ottobre 2011 4 27 /10 /ottobre /2011 14:08

                                                     STILE DI DIPENDENZA II Parte

                                                           Dott.sa Sabrina Costantini
Considerazioni sull’attività svolta

 

L’attività sopra descritta, ha trovato un diverso accoglimento nei due tipi di scuole.

Presso la scuola media inferiore, si è riscontrato un buon interesse generale, sia da parte dei discenti che dei docenti. Alcune classi si sono distinte per l’interesse sull’argomento e la vivacità nella discussione. Parimenti, alcuni docenti hanno offerto complicità e sostegno, preparando gli alunni al lavoro preposto, attraverso attività pregresse e interagendo con la discussione di classe, durante l’intervento stesso.

In quest’ ambito, sono nate riflessioni assai interessanti circa la natura della dipendenza e gli elementi che accomunano oggetti diversi (alcool, fumo, cellulare, internet, ecc.). E’ stata riscontrata un’alta consapevolezza circa la dinamica della dipendenza, non legata specificatamente all’oggetto, ma alla relazione con l’oggetto. I ragazzi comprendono che anche oggetti innocui come internet, il cellulare, o il cibo stesso, possono diventare fonte di disagio e abuso. Alcuni di loro, vivono già questa condizione, sentendosi incapaci di rimanere una sola giornata, senza connettersi, telefonare o scambiare sms.

Nella gran parte dei casi, è risultato uno stile di vita ancora molto dinamico, legato alle attività sportive e alle relazioni vis a vis. Non mancano comunque attività fortemente abitudinarie, vicine ad uno stile di dipendenza (in particolare da internet e cellulare).

Grazie al reciproco confronto, gli studenti hanno mostrato una notevole sensibilità circa questi temi ed una grande intuizione, nell’individuare le giuste definizioni alle parole “abitudine” e “dipendenza”. Si sono mostrati in grado di descrivere i contesti e le personalità, che possono in qualche modo essere a rischio di abuso, la loro naturale curiosità a sperimentare cose nuove e dal desiderio di sentirsi grandi, “ganzi”, rispettati da tutti, nonché le influenze implicite derivanti dal gruppo dei pari, dai media televisivi, dagli spot pubblicitari, ecc.

Le classi coinvolte nella discussione, hanno mostrato un particolare senso critico verso l’utilizzo della tecnologia, suggerendo spesso la necessità di trovare limiti entro cui muoversi, per una fruizione più sana e consapevole.

Relativamente alle sostanze, i ragazzi sembrano abbastanza lontani sia da alcool che da droghe, mentre una certa percentuale sembra già dedita al fumo di sigarette.

Durante l’attività svolta, sono stati riscontrati anche degli ostacoli e difficoltà. Uno di questi riguardava una scarsa capacità di discussione, a livello di classe. Ovvero, i singoli ragazzi sono stati capaci di produrre riflessioni assai interessanti e stimolanti, i piccoli gruppi hanno evidenziato un sufficiente livello di analisi, ma il livello di discussione di classe, si è articolato con una certa fatica. In quest’ultima condizione, si è individuato una difficoltà a dialogare e ad esprimere il proprio mondo interno, in relazione agli altri.

Si è verificato frequentemente, un mancato rispetto dei turni di parola ed del corretto rispetto delle opinioni altrui, che hanno dato luogo a sovrapposizioni fra più persone.

Inoltre, spesso i ragazzi di provenienza ed etnia diversa risultano esclusi (da sé o dagli altri), nella discussione, in piccolo e grande gruppo. Nonostante questa situazione, un solo insegnante si è fatto carico di esporre il problema dell’integrazione razziale.

Quanto descritto è genericamente valido anche riguardo alle classi di scuola media superiore, con un minor senso di collaborazione, un atteggiamento più marcatamente ribelle, una scarsa disposizione al confronto nel lavoro di plenaria ed un atteggiamento più marcatamente antirazziale.

 

Osservando i dati

 

Osserviamo adesso alcuni dati, emersi dal questionario.

Nella Tab. 1 vediamo la descrizione dettagliata del campione, composto principalmente da adolescenti che rientrano nella fascia 13-16 anni, per lo più di sesso maschile. La prevalenza del sesso maschile è determinata da una percentuale assai esigua di ragazze, presso l’istituto di secondo grado, che abbassa la media generale.

La Tab. 2 ci mostra che il 64,7% dei ragazzi ha mangiato tanto da sentir lo stomaco scoppiare e di questi il 17,1% per più di 5 volte (il criterio da noi scelto per misurare una condotta che va oltre la situazione occasionale), mentre il 34,9 non risponde.

La Tab. 3 evidenzia che quasi tutti questi ragazzi praticano sport, la metà circa si attesta nell’intervallo che va dalle 2 alle 6 ore settimanali ed un 30% si distribuisce nelle fasce di impegno superiore (fino alle 10 ore).

Relativamente alle ore di studio, il campione si distribuisce per il 60% nella fascia centrale, che va da meno di un’ora a 2 ore giornaliere, abbiamo poi un buon 12% che dichiara di non studiare mai e meno del 10% studia dalle 4 ore in su. Infine, il 60% circa trascorre con gli amici dalle 2 alle 5 ore quotidiane, il 14% vi trascorre 6-7 ore ed il 4,1% mai. Questo dato si sovrappone alla frequenza riscontrata nelle altre attività, infatti con gli amici si fa sport, si usano i media, si ascolta musica, si studia, ecc.

Un altro elemento interessante è rappresentato da una discreta percentuale, relativa alle mancate risposte (nr), persino nelle domande che riguardano il sesso e l’età, oppure in quelle a carattere neutro come “Quante ore di sport settimanali?” (ben un 14%). E’ difficile dare un’interpretazione univoca a questo dato. Se da una parte fa pensare al probabile tentativo di non essere identificato, dall’altra forse raccoglie anche quelle situazioni in cui c’è incertezza nella risposta. In ogni caso, traduce una motivazione non sempre piena e una probabile sfiducia nell’utilizzo dello strumento e in particolare nell’effettivo anonimato. Se però procediamo con le domande vediamo che tale elemento, tende a scomparire a circa metà del questionario. Non sappiamo se determinato da una maggiore serenità di risposta dopo un po’ di domande, che fungono da frangi ansia, o se determinato dal contenuto specifico delle domande. E’ possibile che le domande sull’uso di internet, play station, cellulare e altro, siano vissute come maggiormente serene, rispetto a quelle inerenti l’uso di alcol, cibo, ore di studio, ecc. Teniamo conto infatti, che il questionario è stato somministrato nel contesto scolastico, talvolta in presenza del docente.

 

 

Tab. 1 Descrittiva del campione

 

Età      N         %                                           Genere                       N         %

 

12        14        4,8                                          Femmine                    83        28,4

13        83        28,4                                        Maschi                       202      69,2

14        76        26,0                                        NR                             7          2,4

15        38        13,0                                        Tot                              292      100

16        45        15,4

17        22        7,5

18        7          2,4

nr        7          2,4

Tot      292      100

 

-         nr sta per non risponde

 

Tab. 2 Distribuzione relative a condotte alimentari inappropriate

 

nr – sta per non risponde

 

Item 2

Ti è mai capitato di mangiare moltissimo e in fretta tanto da sentirti lo stomaco scoppiare?

N

%

 

SI

189

64,7

 

NO

101

34,6

 

nr

2

0,7

 

TOTALE

292

100,0

 

 

 

 

Item 3 

Se sì, quante volte?

N

%

 

1 volta

37

12,7

 

2 volte

53

18,2

 

3 volte

38

13,0

 

4 volte

9

3,1

 

5 volte

3

1,0

 

Superiore a 5 volte

50

17,1

 

nr

102

34,9

 

TOTALE

292

100

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26 ottobre 2011 3 26 /10 /ottobre /2011 09:51

                                                     Stile di dipendenza   I Parte

Dott.sa Costantini Sabrina

 

 

 

Presentazione

 

Il presente articolo costituisce la rielaborazione dell’attività di prevenzione ed educazione alla salute, svolta in alcune scuole pisane da: Dott.sa Sabrina Costantini, Psicologa Psicoterapeuta, Dott.sa Agnese Petrelli, Psicologa, Dott. Renzo Piz, Psicologo Responsabile Educazione alla Salute e Bioetica, Azienda usl 5, Pisa.

Gli interventi avevano l’obiettivo di raccogliere informazioni circa le abitudini dei giovani, in relazione all’alimentazione, al bere, all’organizzazione quotidiana, all’uso dei mezzi tecnologici, alle relazioni. I dati conseguentemente raccolti, avevano una doppia funzione, quella di monitorare le condotte giovanili da una parte e di costituire un’opportunità di riflessione per gli interessati stessi, dall’altra. Questa a sua volta, costituiva la base per la promozione e l’educazione alla salute, in merito alle condotte designate, divenendo quindi il tema centrale dello scambio fra ragazzi ed esperti.

L’intervento proposto infatti, si pone come attività di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, mirando a prevenire, modificare e confinare lo stile di vita e quelle abitudini, diventate ormai veri e propri abusi fino a costituire delle possibili dipendenze.

 

 

Campione e Metodologia

 

L’attività di prevenzione ed educazione alla salute che andiamo a presentare, è stata svolta nel maggio 2008, dalla Dott. sa Sabrina Costantini e dalla Dott. sa Agnese Petrelli, in collaborazione con l’Unità Operativa di Educazione alla Salute e Bioetica, diretta dal Dott. Renzo Piz.

L’intervento ha coinvolto un Istituto di scuola media inferiore e un Istituto Professionale, del comprensorio pisano.

Sono stati coinvolti complessivamente gli alunni di nove classi, otto terze ed una seconda classe del primo istituto e otto classi del secondo, per un totale di 292 studenti, distribuiti come segue:

-         8 classi terze e una classe seconda, di scuola secondaria di primo grado (N=159; età media 13,3) e

-         8 classi (4 prime e 4 seconde) di scuola secondaria di secondo grado (N=133; età media 14,9).

 

Tre classi delle scuole medie inferiori includevano la presenza di un insegnante di sostegno, per la presenza di disabili, uno di questi caratterizzati da un livello di ritardo cognitivo importante, gli altri da un livello medio-basso.

Varie classi, sia delle scuole medie inferiori che di quelle superiori inoltre, comprendevano numerosi alunni di altre nazionalità, religioni ed etnie.

Ciascuna classe ha usufruito di un intervento di due ore circa, durante le quali è stato distribuito e compilato individualmente, un questionario anonimo relativo allo stile di vita. Il questionario aveva lo scopo principale di permettere ai ragazzi di fermarsi e riflettere sul proprio modo di vivere, sulle abitudini e sulle emozioni connesse.

     Si tratta di un questionario anonimo sugli stili di vita, costruito appositamente per l’occasione, composto da 32 domande (sia aperte che chiuse), formulate per indagare la frequenza di numerosi comportamenti riguardanti la salute, la percezione del proprio benessere e le abitudini, spaziando su argomenti vari, quali l’utilizzo del cibo e dell’alimentazione, lo sport, lo studio, le relazioni amicali, gli hobbies, il fumo di sigarette, l’uso di alcoolici, l’uso di droghe, l’uso di cellulare, internet, PC, TV, Play Station, ecc.

     Relativamente a ciascuna condotta, si è cercato di rinvenire qualità, quantità e frequenza, in modo da stabilire se si trattasse di uso saltuario/occasionale, uso quotidiano, abuso o dipendenza.

     Nell’ultima parte inoltre, è stato introdotto il questionario “Io e la mia salute” di Bonino et al. (2003), volto all’individuazione dello stile educativo genitoriale percepito (autorevole, autoritario, supportivo e permissivo).

     Il questionario si conclude con due domande aperte riguardanti considerazioni, pensieri, sensazioni, conseguenti alle tematiche proposte.

La compilazione del suddetto strumento, aveva lo scopo di favorire la partecipazione e riflessione personale, di fungere da catalizzatore della consapevolezza sulle abitudini quotidiane, spesso diventate automatiche e scontate. Nello stesso tempo, contemplava l’obiettivo di utilizzare il breve tempo a disposizione nel modo più fruttuoso possibile, per ottenere una ricaduta sugli interessi sulle loro curiosità, in particolar modo sui loro bisogni, nonché su un auspicabile cambiamento nello stile di vita (laddove necessario).

     In seguito alla compilazione, per favorire la discussione, si è divisa la classe in piccoli gruppi. In particolare, ci interessava far soffermare i ragazzi sulle possibili connessioni, di alcuni temi trattati. Sono state proposte due tracce di riflessione:

1)   lo stile relazionale, connesso con il tipo di uso dei mezzi tecnologici (quali internet, cellulare, ecc.) e i relativi stati emotivi

2)   lo stile alimentare, connesso all’uso-abuso di alcool, fumo, droga e i relativi stati emotivi.

 

     Infine, come momento finale si apriva la condivisione di quanto emerso nei piccoli gruppi, con relativa discussione finale di classe.

     E’ stata scelta questa metodologia di lavoro, articolata su più livelli (individuale, di piccolo gruppo e in plenaria), per favorisce la partecipazione di tutti gli individui, da quello più timido e introverso a quello più rumoroso e vivace, offrendo la possibilità (a vario titolo) di esprimere il proprio pensiero e le proprie idee.

 

 

Promozione della Salute e Dipendenze

 

Il tema degli incontri, articolato attraverso il questionario, i gruppi di confronto e la plenaria, concerneva lo stile di vita e le nuove dipendenze (da cellulare, internet, play station, TV, ecc.).

La scelta del contenuto dell’intervento è derivata da una concertazione di fattori quali, richieste degli insegnanti, osservazione delle condotte scolastiche dei ragazzi, conoscenza delle statistiche in merito a certi fenomeni, logica lavorativa degli organizzatori in termini di prevenzione, ecc.

La scelta metodologica a sua volta, è stata determinata da una duplice motivazione, di tipo conoscitivo e d’intervento vero e proprio nei confronti dell’utenza.

Le due finalità sono strettamente connesse e di reciproco supporto. Infatti, si è ritenuto di notevole importanza comprendere l’atteggiamento che favorisce l’uso delle proprie risorse (materiali e non), degli altri e del proprio ambiente. Ciò costituisce la base di partenza, per conoscere e quindi direzionare gli interventi di prevenzione e formazione scolastica. La conoscenza e la riflessione su sé, costituisce uno strumento fondamentale anche per l’individuo stesso, come occasione di autosservazione ed eventuale cambiamento.

In particolare ci siamo posti l’obiettivo di conoscere l’atteggiamento generale verso sé stessi, le relazioni, il fare, l’uso di alcool, cibo, ecc. Nello specifico eravamo curiosi di sapere quali  tecnologie sono presenti nella vita degli adolescenti, quali idee alimentano la scelta di tali mezzi, rispetto alle più tradizionali modalità di comunicazione (uscire con gli amici, praticare attività sportiva, avere degli hobby).

La parte più orientata al cambiamento, si modellava su un tipo d’intervento di tipo ricerca-azione come delineato da K. Lewin, in cui si esalta un’interrelazione fra intervento e ricerca. In esso sono implicati due processi, il primo riguarda l’importanza della focalizzazione di ciò che si vuol cambiare, il secondo prevede la consapevolezza che il cambiamento effettivo dei comportamenti e degli atteggiamenti. Come ha ben messo in luce Lewin, la modificazione delle condotte infatti, è realizzabile solo attraverso una partecipazione attiva da parte dei soggetti-targhet del cambiamento.

In linea con questi principi, il lavoro da noi condotto, è stato portato avanti attraverso due fra le tre tipologie d’intervento preventivo (Zani, 1995, pp. 382-386), ovvero:

-                     Intervento centrato sull’informazione.

Si sono cioè fornite informazioni su atteggiamenti, abitudini, comportamenti e oggetti legati alle vecchie e nuove dipendenze.

-                     Intervento centrato sulla formazione.

 Orientato ad aiutare l’adolescente a costruire un’immagine positiva di sé e un concetto di salute, legato alle scelte della vita quotidiana. Volto ad emancipare l’individuo, aiutandolo a crescere ed evolversi attraverso il confronto con gli altri, con le informazioni, con i dati, ecc.

 

Come suggerito da varie ricerche (Hewstone et al., 1991, pp. 179-186, 194-205; Arcuri, 1995, pp. 27-29), abbiamo preso in debita considerazione la base su cui si desiderava apportare i cambiamenti. Una base costituita di atteggiamenti, credenze, esperienze, di vissuti emotivi e di fattori di personalità degli interessati. Per dare inizio ad un cambiamento effettivo e duraturo nel tempo, si è cercato di rendere partecipi i singoli individui, attraverso la riflessione su sé stessi e la discussione attuata in piccolo e grande gruppo, come fonte di rottura rispetto a credenze e atteggiamenti precostituiti e consolidati.

L’attività di prevenzione descritta, è scaturita in seguito alla richiesta attiva da parte di alcuni insegnanti, che costantemente si avvalgono della consulenza e prestazione da parte dell’U.O. di Educazione alla Salute. L’intervento quindi rientrava in un’attività costante e continuativa di promozione della salute e del benessere.

In questo caso, si è progettato un lavoro orientato allo stile di vita giovanile e alle nuove dipendenze, con i seguenti obiettivi:

1) preparare un momento di riflessione individuale sui comportamenti acquisiti, per valutarne l’utilità e la correttezza;

2) monitorare i comportamenti più frequenti, per dargli un senso più ampio, confrontati ai dati nazionali.

3) Ottenere una base di riflessione, per eventuali ulteriori interventi futuri.

 

Inoltre, tenendo conto della fase evolutiva in questione, con i relativi cambiamenti a livello di personalità, di comportamento, di progettualità, si sono voluti indagare e rafforzare quelli che sono ritenuti “fattori di rischio e protezione” (Bonino, Cattelino, Ciairano, 2003), ovvero: andamento scolastico, stili educativi e gruppo dei pari.

Gli stessi fattori infatti, in base all’andamento vitale, possono rappresentare un elemento protettivo oppure di rischio rispetto a condotte disfunzionali e disadattive, quali abbandono scolastico, ribellione familiare, isolamento, uso, abuso e dipendenza di varie sostanze quali cibo, alcool, droghe, PC, cellulare, TV, ecc.

Si è partiti dal presupposto che gli adolescenti, per la specifica fase evolutiva, siano caratterizzati da una dipendenza emotiva da persone e cose, marcata rispetto a fasi successive. Abbiamo quindi utilizzato questa stessa caratteristica, come strumento d’intervento (il confronto e la discussione fra pari, in piccolo e grande gruppo). Si è cercato di stimolare la riflessione sulle proprie abitudini e dipendenze, in modo da poterle ridimensionare ed usare a proprio vantaggio, di agirle anziché esserne agiti.

     Ci interessava anche introdurre il tema delle nuove dipendenze, assai attuale in questa fascia d’età, soprattutto per quanto concerne l’utilizzo di mezzi quali cellulari, PC, internet, play station, TV (Costantini). Volevamo inserire una visione critica dell’impiego di tali strumenti, organizzare opportunità di verifica e di regolazione di queste condotte a rischio spesso inosservate e sottovalutate.

     Ricordiamo infatti che, ciò che contraddistingue la dipendenza non è l’oggetto in sé, ma il tipo di legame che si stabilisce con la sostanza, l’oggetto o la persona (Young, 1998; Zoja, 1985; Harrison, 1989; Fain,1983). L’individuo vive sottomesso al suo oggetto di dipendenza, come se non potesse farne a meno, come se fosse fonte esclusiva di vitalità, benessere, fiducia, ecc. Per cui, senza quell’oggetto la persona si sente incapace, nuda, stanca, sfiduciata e non se ne può più fare a meno, o almeno così pensa.

       Per cui, anche oggetti innocui possono diventare oggetto di tale relazione. I mezzi di comunicazione di massa ad esempio, in sé per sé non costituiscono mezzi pericolosi, ma è il loro abuso, la dipendenza totale, l’attribuzione di un potere di vita che non hanno, che li rende nocivi ed estranianti.

Si è parlato di “stile di dipendenza” perché presupponiamo che ci sia comunque una qualche forma di dipendenza.

Il bambino infatti, per sua natura è totalmente dipendente dalle figure di riferimento principali, per quanto concerne i bisogni primari, di sopravvivenza ed emotivi. L’adolescente, seppur svincolato concretamente in gran parte da questa dipendenza, grazie al raggiungimento di una maggiore autonomia, rimane però dipendente emotivamente. Una dipendenza che va a riversarsi su certi strumenti e certe sostanze, come probabile riempitivo di tempo, di stimoli e come tramite di socializzazione.

Il gruppo di coetanei è notoriamente un oggetto di dipendenza sostanziale del ragazzo di questa fascia d’età, è un mezzo di sostegno e di confronto continuo e reciproco. Le sostanze e/o oggetti di dipendenza, quali il fumo, l’alcool, cannabioli, internet (es. facebook, smn, comunity, ecc.), cellulare, play station, ecc., costituiscono spesso dei tramiti per la socializzazione stessa, facilitano la relazione, rappresentano oggetti intermedi, organizzatori della relazione, talvolta veri e propri oggetti transazionali (Winnicott).

     Per cui, dando per scontato che esista una qualche forma di abuso, si tratta di individuare lo stile di dipendenza, l’oggetto che la riguarda, il grado di nocività e la qualità relazionale che li lega. Tutto infatti può diventare fonte di dipendenza, se si stabilisce un legame di necessità, un vincolo apparentemente indissolubile, connesso con la storia del singolo individuo, del singolo gruppo-classe, gruppo-extrascolastico, ecc.

     Giocando sui confini, i significati sottesi ed il coinvolgimento emotivo, ci si propone di trasformare la dipendenza patologia in dipendenza sana o, dove possibile, in indipendenza completa.

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