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21 marzo 2013 4 21 /03 /marzo /2013 17:06

Abusare il Corpo o Essere Corpo?

 

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DIVENTA PADRE PER FORZA 


L'Alta Corte di Birmingham lo condanna ad essere padre "per forza" e a pagare gli alimenti. L'aveva conosciuta, le era piaciuta e ci era andato qualche volta a letto usando scrupolosamente il profilattico.

Eppure, Jonathan Evan, manager nel settore telefonico, e' diventato lo stesso padre.

La donna, infatti, gli aveva "rubato" lo sperma dal preservativo, l'aveva congelato e in seguito l'aveva usato per farsi inseminare artificialmente.

Nonostante si tratti di un "concepimento fraudolento" per il tribunale inglese il rapporto di paternità e' reale... con tutti gli obblighi di legge.

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18 marzo 2013 1 18 /03 /marzo /2013 17:28

Usare un Corpo o Essere Corpo

  Parte 4°

 


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E-COMMERCE DI MUTANDE USATE 

Quattro studentesse neozelandesi vendono i loro slip non lavati su internet per pagare tasse universitarie e mutui bancari.


Uno "slip indossato da una di noi per almeno un giorno e che non e' stato lavato" costa circa 15mila lire sul sito web "Massey Girls Panties".

La presidente dell'associazione neozelandese studenti universitari, Tanja Schutz ha definito l'iniziativa "disgustosa e totalmente inappropriata".

Ma le ragazze difendono la loro iniziativa affermando che non hanno soldi sufficienti per mangiare od uscire con gli amici.

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11 marzo 2013 1 11 /03 /marzo /2013 23:38

Avere un Corpo o essere corpo?

Parte 3°


 

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ECCO IL PRIMO UOMO CHE DIVENTA ROBOT 

 
E' un professore anglosassone l'emulo di Terminator...

Kevin Warwick, insegnante di cibernetica all'università di Londra, potrebbe entrare nella storia come il primo uomo-robot.

Il docente inglese, a cui e' stato da poco rimosso un chip che dialoga con le macchine impartendo ordini silenziosi, ha intenzione di continuare gli esperimenti facendosi impiantare un microchip nel sistema nervoso.

Alla domanda "perchè lofa"?

risponde così: "Sono nato umano per caso e da questa mia condizione posso evolvermi usando la sperimentazione".

 

Kevin ha però anche ammesso che esiste il rischio, durante la "prova", di non poter più comandare i suoi gesti.

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5 marzo 2013 2 05 /03 /marzo /2013 17:47

 

Abitare il Corpo o Essere Corpo?

Parte 2°

 

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SI TOLGONO LE LABBRA PER ASSOMIGLIARE A UN GADGET

 
Riesplode a Tokio la "Hello Kitty mania"

 

Alle adolescenti giapponesi non basta più colorarsi i capelli e "sbiadirsi" la pelle della faccia.

 

Adesso sono convinte che per essere trendy devono assomigliare a Kitty, una micina-gadget. E per farlo arrivano a farsi togliere le labbra: la clinica di Roppongi (la Fashion Health) fa l'operazione in anestesia locale.

 

Al posto delle labbra viene applicato un leggero strato di pelle di maiale colorata che rende omogenea la superficie.

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2 marzo 2013 6 02 /03 /marzo /2013 09:31

Abitare il Corpo o Essere Corpo?

Parte 1°

 

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INDIA PAESE DELLA BELLEZZA 


Negli ultimi anni sono raddoppiati i saloni di bellezza e i centri estetici. In appena 10 anni, cinque ragazze indiane hanno vinto titoli di bellezza mondiali.

 

E' il risultato più appariscente dell'industria del corpo che prolifera nel paese e dà lavoro a migliaia di persone, dalle estetiste ai redattori di riviste specializzate.

 

Esistono vere e proprie scuole di bellezza frequentate da persone "comuni" che hanno deciso che la cura della propria persona e' fondamentale per avere successo.

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25 febbraio 2013 1 25 /02 /febbraio /2013 11:42

Prontuario per il Corpo

 

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Quanto segue, è rivolto unicamente al corpo!

Sì al corpo.

Non vi sorprendete, non è una scelta astrusa. In verità, si tratta di una comunicazione diretta col corpo.

Dal momento che la maggior parte delle volte, la mente ci mente, cioè ci inganna con i suoi mille giri e rigiri, allora ecco che decido di parlare direttamente al corpo, assai più saggio, più naturale e maggiormente in contatto con i bisogni e i desideri.

 

E poi …. Se la psiche influenza il corpo, lo stesso vale per il corpo: il corpo influenza la psiche!

Per cui, se adottiamo un cambiamento sul corpo, necessariamente passerà anche alla psiche, all’emotività!

In fondo, che importa da dove si parte?

L’importante è arrivare a destinazione.

E allora, ecco le direttive per il corpo! La mente intanto, vada a fare una passeggiata e non interferisca nella nostra conversazione, mi raccomando!

 

Cominciamo con il risveglio.

Al mattino, appena sveglio corpo, datti tempo!

Stiracchiati, rilassati e assapora ogni sensazione da parte di ogni tua parte.

Ce n’è una che cerca attenzione? Una che duole?

C’è prurito, senso di intorpidimento, arsura, calore, freddo …..?

Ti sei ascoltato? Hai dunque rispettato il messaggio che ti è arrivato?

Hai soddisfatto quei bisogni di caldo, freddo, sete, fame, tensione, prurito …..?

Se la risposta è SI, allora sei pronto per partire.

 

Appena apri gli occhi, osserva come osservi.

Quando apri gli occhi e vedi le prime immagini che ti circondano, come reagisci?

Chiudi gli occhi, li socchiudi, li sbarri?

Lascia che gli occhi si adattino alle immagini, alla luce, a ciò che si presenta intorno a te!

 

Gli occhi ancora in relazione agli altri.

Cosa fanno gli occhi, di fronte alle persone?

Cambiano direzione, evitano l’incontro con altri occhi, si aprono, si chiudono, assumono posture particolari …..?

Ricorda che se chiudi o socchiudi la tua apertura visiva, ridurrai ciò che fai entrare degli altri. Ti precluderai una gran parte di stimoli (spesso di quelli che arrivano diretti al cuore) e ti mostrerai superbo e arrogante, rifiutante!

Non aver paura di aprire in modo pieno e rilassato i tuoi occhi e di aprire una finestra generosa a quanto ti circonda!

 

Le orecchie. Un altro ben elemento di contatto!

Come le usi le orecchie, caro corpo?

Le apri ben bene? Le lavi e tieni ben recettive al mondo?

Ascolti tutti i suoni che arrivano a te, senza giudizio e senza filtro?

Se ti precludi una fascia di suoni, di parole o di discorsi, potrebbe atrofizzarsi una parte di te, lo sai vero?

Quale?

La mente, il cuore, le gambe, le braccia, ecc.

Diventando così, come un deserto che non riceve acqua.

 

 

La bocca.

Proprio quella. Non sorridere ironico.

La bocca, se te lo sei dimenticato, serve a molte cose, eccone alcune: a parlare, a soffiare, a baciare, a cantare, a ridere, a fare le boccacce, a dire senza parole …..

Se metti il morso alla tua bocca, se la riempi di sale o di amaro, se chiudi quest’apertura, non rimarrà molto in giro di te!

Non preservarti! Non stanca così tanto, usare la bocca!

Non risparmiare parole, complimenti, dolcezze sussurrate, clamori, trasalimenti, baci, sussulti, pernacchie, linguacce, starnuti, sbadigli e tutto quello che viene direttamente da dentro di te, da ogni parte di te, corpo saggio!

 

Il naso.

Ficca il tuo naso, liberamente dove vuoi!

Non farti inutili pudori. Non giudicare un odore cattivo e uno buono, è uno stimolo che proviene da fuori e da dentro te e comunica qualcosa.

Gli odori sanno di vita, di trasformazione, di messaggi, di alchimia, di energia, di molte altre cose ancora.

Non vorrai mica privarti dell’odore del pane appena sfornato? Dell’erba ancora bagnata di rugiada? Dell’odore inimitabile che i neonati lasciano ovunque si trovino? Dell’odore della madre che allatta? Dell’odore dell’orina, sparsa nei vicoli? Dell’odore dei cibi infranciditi? Di un cibo avariato, caduto dietro un mobile che non riesci a vedere? Di un fiore appena sbocciato in una mattina di primavera?……………….. ?

 

Le mani.

Le mani rappresentano un organo di contatto importantissimo. Il primo organo di contatto che differenzia l’uomo dall’animale. Sì, ricordate che la stazione eretta ha svincolato le mani da altre funzioni, donandole una grande libertà d’azione.

E allora usiamole!

Caro corpo, permetti alle tue mani di toccare tutto ciò che vuole toccare, di accarezzare, grattare, prendere, afferrare, avvicinare, simulare, allungare, spingere, sperimentare, analizzare ……

Non lasciare che siano preda di vergogna, non c’è motivo, loro sono libere, forti e importanti, ti avvicineranno il mondo e il mondo si avvicinerà a loro.

 

Le braccia.

Ah, le braccia, che gran strumento!

Sono forti, sono leve, sono sostegni, sono raccoglitori di abbracci, di tenerezza, sono insieme alle mani, il simbolo del tuo scambio col mondo, uno strumento così grande e potente.

Sono grandi portatrici di sensazioni quali caldo, freddo, ruvido, duro, morbido, soffice, pesante, leggero, ecc.

Non le limitare, loro riescono a fare molte cose, permetti loro di esprimersi in tutta la loro ricchezza e creatività.

 

Il collo.

Sì, il collo con le spalle sono un altro punto di grande passaggio, di collegamento fra la testa e la pancia.

Lasciali morbidi e aperti al flusso di passaggio, da sopra a sotto, da sotto a sopra.

Caro mio corpo, lascia che il collo e le spalle siano liberi di muoversi, di girarsi, di distendersi liberamente, senza remore, difese, né trincee.

Non ci sono guerre da combattere!

Il mondo non è un campo di battaglia, ma una foresta da esplorare, ricca, affascinante, misteriosa ….. talvolta pericolosa, ma niente che oltrepassi le capacità dell’homo sapiens!

 

Le gambe.

Un mezzo di spostamento fondamentale!

Con le gambe ti avvicini e ti allontani da tutto ciò che le braccia non riescono a raggiungere. Loro possono essere svelte, nervose, tese, rigide, flessibili, lente, naturali, forti, toniche, mansuete, inconsistenti …..

Puoi andare verso il mondo o puoi scappare da esso.

Usale per andare verso, che è meglio! Altrimenti, saranno sempre costrette a correre, per fuggire da qualcosa.

 

La pancia.

Sì, che c’è di strano?

La pancia è il luogo più segreto e importante di noi! Lì ci sono le energie primordiali, le emozioni, le istintualità.

Allora, non la reprimere, non la nascondere, non cercare di sopprimerla a tutti i costi, ma non farla neanche sfondare oltre i limiti.

Non la segregare nei canoni della moda, ma lascia che sia, non indurirla con doveri, con contrazioni inutili, lasciala morbida, pronta al passaggio per il fuori e dal fuori!

Ricorda che lì c’è un passaggio fondamentale: quello dell’aria e dell’ossigeno!

Insieme ad altri punti-strettoia, costituisce il via libero o meno per far entrare aria nuova.

Non limitare l’ossigeno-vita-vitalità-energia!

 

Ecco, se hai fatto tutto questo, ti faccio i miei migliori complimenti, perché vuol dire che ti sei dato uno spazio di libero movimento, caro corpo, vedrai che avrai sperimentato che il “mondo è la tua ostrica”!

Hai visto quante cose interessanti ci sono? Hai udito i suoni più impensati e annusato gli odori più stravaganti che parlano di terre lontane? Ed il sapore dei cibi, della pelle, del contatto, delle parole pronunciate senza la mente ……

Che leggerezza muoversi senza catene, senza pesi, né orpelli!

 

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1 ottobre 2011 6 01 /10 /ottobre /2011 07:34

Quando il corpo ci tradisce

 

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

 

 

Il corpo costituisce il nostro involucro, il confine col mondo, ciò che scambia con esso, che fa entrare ed uscire, trasforma, fa proprio ciò che riceve e rifiuta buttando fuori, ciò che non gli si addice (in termini di equilibrio, sanità, natura, ecc.).

Noi siamo il nostro corpo.

Il corpo rappresenta ciò che ci fa vivere, ci fornisce ossigeno e nutrimento, grazie ai suoi meccanismi automatici (quali il respiro e la trasformazione biochimica degli alimenti e delle bevande, delle sostanze sciolte nell’acqua e nell’aria, ecc.), ciò che ci salvaguarda nei confronti dell’ambiente circostante (ad esempio attraverso il dolore di elementi nocivi, come il fuoco, l’eccessivo caldo o freddo, ecc.) e nei confronti dell’ambiente interno (ad es. attraverso il vomito di elementi indigesti o nocivi sia in senso fisico che psicologico), che ripristina l’equilibrio psicofisico (ad esempio attraverso la malattia e la richiesta d’attenzione e cure).

Il corpo è anche caldo, talvolta freddo, più o meno liscio, peloso, morbido, sensibile, eccitabile, è fonte di infinite sensazioni con una gamma di variazioni illimitate, fonte di piacere e di godimento a livello sensoriale, sessuale, emotivo.

Costituisce anche lo strato più esterno, la prima immagine che noi forniamo di noi stessi al mondo, il primo biglietto da visita, nello stesso tempo è la parte che ci fornisce gli elementi di esplorazione e di conoscenza del mondo in senso concreto, materiale ma anche emotivo e relazionale.

Insomma, questo nostro corpo è un organo che possiede un suo equilibrio, una sua significatività, una funzione, un meccanismo, un incastro perfetto. Corpo e psiche, garantiscono un connubio unico e significativo, garantiscono la dimensione materiale e concreta, nonché quella emotiva e connotativa.

In esso, è racchiuso tutto l’universo. Esso contiene l’alchimia per potersi adattare nel modo migliore, al mondo.

Nonostante queste infinite possibilità che ci appartengono, noi le ignoriamo, non le conosciamo, non vi diamo il giusto peso e valore, ma ancora di più, non riusciamo a percepirle, ovvero non percepiamo l’esistenza concreta e sensoriale di questa nostra casa.

Non siamo consapevoli del corpo, non ne percepiamo le sensazioni, lo stato, la consistenza, la sensibilità, la condizione base. In verità gli stimoli sensoriali arrivano, ma la nostra attenzione, coscienza e consapevolezza li sottovaluta e li mette da parte. E’ un po’ come se il corpo non esistesse. Non lo percepiamo e lo trattiamo quasi come un elemento esterno, quasi fosse una macchina, come la nostra auto che ci trasporta da un luogo ad un altro. Ogni tanto richiede il carburante, una revisione e via!

Lo diamo per scontato, c’è e ci deve essere, è a nostra completa disposizione e deve funzionare alla perfezione.

Il dramma risiede nel fatto che ci accorgiamo di lui, lo sentiamo e lo percepiamo solo quando si ammala, quando “si rompe”, quando è mal funzionante. Allora, ci rendiamo conto che esiste, nel nostro mondo cosciente si dispiegano improvvisamente certe percezioni fini, le sensazioni relative agli organi, ai muscoli, alla pelle, alle ossa, ai tendini, ecc.

Ora che questo mezzo viene meno, solo ora che fa cilecca, ci accorgiamo che c’è! Non era così scontato e gratuito, come abbiamo pensato ed è venuto meno! Sorpresa! Sbalordimento! Non ci sono parole!

Ora che quell’arto ci duole, ora che la pelle brucia, ora che un organo cede nella sua funzione, ora che quell’organo s’inceppa, ora che gli organi sensoriali ci impediscono di percepire chiaramente il mondo, ora che le gambe ci impediscono la posizione eretta, ora che il corpo ci lascia a piedi nella nostra esplorazione del mondo, nella vita quotidiana, che si sottrae alla funzione di supporto di base per la sopravvivenza, che manca in termini di scioltezza e leggerezza, ora che ci impedisce di vivere un senso di onnipotenza e d’infinite possibilità: ora, solo ora, sappiamo che c’è.

Siamo basiti e trasecolati, siamo di fronte a qualcosa che non avevamo calcolato, tutto quell’equilibrio, quella potenzialità non era scontata, non era eterna, non era automatica e ora non c’è più.

Ci sentiamo profondamente traditi dal nostro corpo, che non fa più ciò che ha sempre fatto, che ci aspettiamo faccia e debba fare. Nessuno ci ha mai detto, che sarebbe andata a finire così!

Sì, sentiamo parlare in ogni dove di malattia, morte, invecchiamento, ma è una realtà distante dalla nostra, sono racconti che non ci toccano se non superficialmente, rifiutiamo di valutare questa reale possibilità e il significato che dovremmo trarne. Continuiamo a vivere, come se questa eventualità non ci toccherà mai, come se per noi l’invecchiamento sarà migliore, come se tutto sarà immutato per sempre e non ci riguarderà assolutamente.

Quando poi, ci troviamo a doverci svegliare improvvisamente da una realtà illusoria, si rimane shoccati, intorpiditi, delusi, non si capisce.

E lui, sì lui, questo corpo …. perché si è rivoltato contro di noi, sta lottando a nostro discapito, non ci sostiene più, non ci aiuta, non ci apre le strade? Che è successo?

Sembra una congiura contro di noi! Ma perché mai? Cosa abbiamo fatto, di così terribile?

Senza preavviso, ad un certo punto ci ha abbandonato, ha abdicato e noi siamo spersi, incapaci, impotenti, con le spalle scoperte, a piedi, siamo soli.

Una psiche disorientata e dolorante, non ha più il suo supposto supporto, sano e solido. Ma che sta succedendo?

Di solito è la psiche che fa i capricci, con i suo pensieri, le fantasie, i sogni contorti, suscitando quelle mille emozioni, che ci fanno traballare, ci tormentano, ci derubano della tranquillità, ci ribaltano le prospettive, che mutano continuamente e non sono mai le stesse. Ma il corpo no, il corpo è la base sicura. Dovrebbe esserlo, nel nostro immaginario. E ora? Che succede? Perché si è ammalato? Perché è venuto meno al suo patto?

Quello che ci tormenta, ci azzoppa, ci fa soffrire, che rimane imprescindibile, non è tanto la malattia in sé, ma la mancanza d’equilibrio e di continuità mente-corpo. Il corpo non risponde più alle aspettative, alle previsioni e ai comandi della psiche e del pensiero cosciente. Si è distaccato e va per proprio conto, proprio come a livello più interno fanno le metastasi, rispetto al tumore-madre, che come adolescenti ribelli seguono solo i propri impulsi.

Questa nostra reazione, il vissuto di tradimento profondo, ci ricorda che il corpo necessita di un suo spazio di attenzione, di uno spazio consapevole, di un tempo tutto suo, di un suo diritto d’essere, con tutte le sensazioni annesse, piacevoli e spiacevoli che siano. In realtà, non è lui a tradirci!

Pensiamo ad esempio alla condizione dell’anestesia. Qualunque intervento chirurgico, con anestesia locale ci sottopone all’esperienza del dolore (pur minimo che sia) e alla consapevolezza di quanto ci sta capitando, alla lucidità e alla partecipazione di quanto i medici operano sul nostro corpo. Non tutti sono pronti e desiderano affrontare questa condizione, i vari piccoli passaggi di quanto subisce il corpo in termini di asportazione, introduzione, tagli, cuciture, ecc.

L’assenza totale di anestesia poi, a causa del dolore intenso e dell’eccessiva presenza, renderebbe l’intervento impossibile. Ma a ben vedere, anche quest’affermazione è falsa, in fin dei conti si praticavano interventi anche prima dell’introduzione dell’anestesia (vedi ad esempio l’estrazione di proiettili). Non ci fermiamo su questo, che apparirebbe un estremo veramente estremo e ci inorridisce solo l’idea, continuiamo invece con la nostra dissertazione.

L’intervento con anestesia totale, che toglie tutte queste componenti dolorose e fastidiose, però ci sottrae il corpo, che pure ci appartiene. Ci svegliamo ed è cambiato qualcosa a cui non abbiamo partecipato, di cui non abbiamo avuto la consapevolezza e la percezione, momento per momento. Improvvisamente qualcosa non c’è più o qualcos’altro è stato aggiunto o sostituito, modificato, senza che noi abbiamo partecipato consapevolmente, neanche in minima parte. Il corpo non ci appartiene più, ci è stato sottratto e non ci possiamo fare niente. Riappropriarsene sarà quindi un processo veramente lungo e faticoso, più di quello che sembra in apparenza.

Si comincia col ritorno delle percezioni nel post operatorio, contraddistinto da una modalità immediata, violenta, verso cui siamo privi di preparazione, come nel caso del dolore che si presenta senza preavviso, o delle sensazioni di intorpidimento, di freddo estremo, di non appartenenza, di spossatezza eccessiva.

Ecco che gli esseri umani, presentano poi reazioni imprevedibili e anomale. Si parte dall’inspiegabile diversa capacità e velocità di guarigione, variabile da persona a persona, da crisi di pianto impreviste e imprevedibili, di pensieri distorti, per arrivare a fenomeni più anomali quali la percezione dell’arto fantasma, all’incomprensibile rifiuto dell’organo trapiantato, ecc.

I medici non capiscono, non sanno farvi fronte, sembra uno di quei casi anomali a cui non c’è spiegazione, del resto l’intervento è andato anche bene! Che altro fare? Magari un ansiolitico ed un ipnotico aiuteranno a ripristinare le cose e a far finta che non sia successo nulla.

Ma di fatto, la persona sembra improvvisamente impazzita, non la si riconosce più, non sembra più la stessa e non si sa darne ragione. In verità, neanche lei in prima persona si riconosce più ed è proprio questo che le succede ed è avvenuto per tramite del corpo, che è stato manipolato come se niente fosse, senza tenere conto delle sensazioni, delle emozioni, dei pensieri, dell’immagine di sé, ad esso connessa.

Pensiamo anche al caso non di una malattia, ma di un’interruzione volontaria di gravidanza o ad un raschiamento dovuto a complicanze della gravidanza. Nel primo caso, la persona decide autonomamente di fare questo tipo d’intervento, di per sé abbastanza breve e facile, ma assai complesso da un punto di vista psicologico, per il suo significato e per ciò che ne consegue.

Ma, vivere quest’esperienza con l’apporto dell’anestesia totale rende l’operazione momentaneamente più semplice, ci si risveglia ed è già tutto fatto, risolto. Psicologicamente no, non è ancora fatto nulla. Ovvero, la non presenza della consapevolezza e della percezione del corpo e dell’ambiente che opera quest’intervento, fa sì che è come se non fosse successo nulla. Occorre molto tempo, perché si possa effettivamente elaborare il lutto, perché si formi la consapevolezza di qualcosa di diverso, di un bambino che non c’è più, che c’è stato e adesso non c’è più.

Il secondo caso, quello di raschiamento non scelto, risulta più leggero dal punto di vista della responsabilità della scelta, ma ben più complesso circa l’accettazione del risultato ed il vissuto di mancata capacità di procreare. S’innesca un processo assai articolato e complesso, che richiede elaborazione, più complessa nel caso di anestesia totale.

L’interruzione di gravidanza eseguita con l’anestesia locale invece, mette fortemente in contatto con quanto è stato deciso e sull’effettivo atto che lo porta a termine, sulle singole percezioni, sul corpo agito e deprivato, rende l’intervento veramente duro e doloroso, di una durata interminabile. La percezione del dolore emotivo però è vivo e presente, forte ma percepito, in sintonia con le sofferenze del corpo e quindi pur nella sofferenza ma in armonia, come tale già in via di elaborazione.

La stessa condizione del parto, ci ricorda l’importanza del contatto col corpo. L’epidurale infatti, ha la funzione di ridurre il dolore e di anestetizzare molte sensazioni dell’importante evento in corso, ma proprio a causa di queste funzioni, toglie anche un’importante contatto con sé e col bambino. Anche in questo caso, il dolore ha un significato importante, rinforza il legame coi figli, accrescendo il valore di sopravvivenza e di adattamento per il nuovo arrivato, sia dal punto di vista organico e ambientale, che emotivo e psicologico.

La presenza effettiva a tutti i livelli, di quest’evento e di tutti i correlati corporei, ci riconducono prepotentemente alla realtà e ci ricordano la natura del legame coi propri figli, proprio quando si instaura un conflitto, a livello emotivo. Il maternage infatti, è uno dei meccanismi più potenti e resistenti, esistenti in natura, anche nei casi di condizioni insane, come di madri incarcerate o di patologie sostanziose, come nelle psicosi, o nei pregressi di abbandono, rifiuto e maltrattamento genitoriale. Generalmente, la prole viene allevata, almeno nei bisogni principali di sopravvivenza, anche in queste situazioni abnormi. Il legame biologico sacralizzato dal dolore, accresce l’elemento narcisistico, assai nutriente per certe personalità instabili, per cui mette il bambino al riparo da abbandoni precoci.

I figli sono sempre oggetto di proiezione genitoriale e parentale, alcuni sono soggetti a meccanismi potenti, distorti, rigidi al punto tale che se non vi fosse un legame biologico importante, rammentato proprio dalle percezioni del corpo che partorisce, rischierebbero di essere abbandonati, maltrattati, non visti, ecc. Pensiamo semplicemente alla situazione di separazione coniugale, dove i figli sembrano la fotocopia del partner lasciato e odiato, se non vi fosse il richiamo ad un legame importante con loro, si rischierebbe di “abbandonare” ingiustamente anche loro.

Nello stesso tempo, il dolore e l’idea di un corpo che si trasforma, può spaventare così tanto da dissuadere le persone con certi disturbi psichici importanti, a generare un figlio, costituendo un meccanismo preventivo e adattivo importante.

Inoltre, il legame col corpo risulta assai protettivo per il neonato, ma anche per il genitore che in questo modo, salvaguarda l’immagine e la pratica di essere un genitore sufficientemente buono, importante per la propria autostima, per la propria integrità e continuità morale, emotiva, cognitiva, utile fondamenta per la stima di sé come genitore e per la riuscita dell’allevamento filiale.

Un’altra situazione che ci aiuta a comprendere l’importanza dell’equilibrio, ma soprattutto dell’integrazione di ogni parte di noi, è rappresentata dalle montagne russe. Si tratta di un intrattenimento così tanto amato e tanto temuto, perché innalza l’adrenalina e la sensazione di eccitazione corporea, alimentando un accrescimento pressorio, il ritmo cardiaco, elementi di percezione e attenzione. A livello emotivo si sperimenta uno stato eccitatorio, un misto fra aggressività, rabbia, paura, sensazioni piacevoli di presenza estrema e di vitalità. Tutto questo, accade perché ogni funzione del corpo, della psiche e dell’ambiente sta al suo posto, adoperandosi per vivere quest’esperienza in modo sufficientemente controllato.

Ora, provate a stare sulle montagne russe, chiudendo gli occhi.

Cambieranno notevolmente le percezioni, sensazioni ed emozioni. Si perderà gran parte del potere che si avverte rispetto a sé e all’esterno. In realtà non è così, ma il nostro vissuto sarà questo, perché la vista permette di accompagnarci in quest’esperienza percettiva assai complessa, fornendoci gli strumenti per rendere meno spaventosi e imprevedibili gli effetti di un movimento subito, così veloce, violento e parziale (il corpo sta fermo ma è spinto violentemente nello spazio, da una forza esterna). Di solito, togliendo ogni forma di controllo, si toglie anche la basilare fonte di stabilità e comprensibilità di quanto ci accade, con la conseguente riduzione della varietà di sensazioni, con un effetto ad imbuto, volto all’esclusiva percezione della paura. Non c’è spazio per altro. Ci si trova in una situazione orribile, si subisce totalmente il mondo e le reazioni del corpo!

La vista infatti, costituisce un importante strumento di conoscenza e avvicinamento alle cose, le rende sicure e stabili. E come abbiamo appena visto, questa singola componente di noi, va ad influire con il sistema di vissuti, percezioni, emozioni, pensieri.

Tutto questo ci rammenta quanto sia importante il processo d’integrazione bio-psico-sociale. Ogni organo, ogni arto, ogni elemento somatico, con le mille capacità percettive, la psiche, l’emotività, il pensiero e la consapevolezza, sono elementi imprescindibili di un tutto che ha un senso così intero com’è, nessun elemento escluso, neanche il più piccolo.

Si rinnova quindi, l’importanza di un approccio medico, psicologico, psichiatrico, riabilitativo, educativo, che tenga conto di ogni parte del sistema, accrescendo l’integrazione e la consapevolezza. Ma ancora prima, si rinnova l’importanza di uno stile di vita che tenga conto di ogni parte di noi, corpo incluso. Niente di scontato!

Alpa Patel, ricercatore dell’American Cancer Society, sostiene che la quantità di tempo trascorso seduti può aumentare il pericolo di morte. L’osservazione deriva da una ricerca che individua, soprattutto nelle donne, la relazione fra tempo trascorso a sedere e facilità di decesso, avvenuto in prevalenza per malattie cardiovascolari.

Il ricercatore ha dimostrato che, l’abitudine di trascorrere molto tempo seduti, produce importanti conseguenze metaboliche, infatti può influenzare elementi biologici come i trigliceridi, la lipoproteina ad alta densità, il colesterolo, la glicemia, la pressione sanguigna e la leptina, che sono biomarcatori di obesità, di malattie croniche cardiovascolari e di altri disturbi.

Questa ricerca mette in luce la correlazione, ovvero il legame, fra questi due eventi: sedentarietà e decesso, soprattutto di tipo cardiovascolare. Questo legame però, non ci dice perché, cosa succede all’individuo, cosa causa effettivamente cosa. O meglio, ne spiega una parte, la reazione biochimica a catena, rispetto ad una serie di sostanze quali ormoni, proteine, lipidi, neurotrasmettitori e così via. Ma perché avviene tutto questo? Quali le cause prime? Quale processo effettivo?

Il perché io non lo so, però posso immaginare che un corpo seduto per tante ore al giorno, per tutti i giorni della settimana o quasi, ci faccia perdere il corpo stesso. Immaginate di stare per ore seduti, concentrati su un dato lavoro come cucire, lavorare a maglia, costruire manualmente qualcosa, intagliare, cesellare, leggere, scrivere, lavorare su internet, lavorare al computer, ecc. Siete lì, una sola piccola parte del vostro corpo è impegnata, mentre il resto si trova in una posizione d’immobilità, repressa in una posizione di comodo, magari azzittita dalla passività dello schermo, da alcool, fumo, caffè, psicofarmaci, ecc. Si perde inevitabilmente il contatto con esso, si verificano una serie di modificazioni muscolari, ormonali, metaboliche, ecc., ma noi non ce ne rendiamo conto, la nostra attenzione è altrove, la percezione è sopita e la mente ha escluso dalla coscienza il resto del corpo (di solito la gran parte di esso). Il corpo si addormenta e con esso tutte quelle percezioni che ci ricordano la sua esistenza, l’esistenza di bisogni e di movimenti che richiedono attenzione, tempo, ascolto, interventi, atti a ristabilire l’equilibrio.

Lowen (1977) ci ricorda che un corpo vivo, pulsa e vibra, quindi manda molti segnali, di conseguenza la persona armonica dal punto di vista corporeo (associato all’armonia interna), possiede una grande e naturale padronanza di sé. L’invecchiamento produce una graduale riduzione di questa vitalità, armonia e flessibilità, ma appunto è un processo graduale e naturale. Quando questi fenomeni di riduzione sono brutali, veloci e forzati, si crea una condizione patologica del corpo nelle sue costituenti fondamentali. Un esempio ci viene fornito dallo stato depressivo, dove uno specifico stato emotivo, unito a potenti pensieri di svalutazione, colpa, inadeguatezza e repressione, riducono la vitalità, la sensibilità e la reattività, con conseguenti problemi di sonno, alterazione del ciclo circadiano, del comportamento alimentare, ecc.

Io direi che la stessa cosa, capita quando deprimiamo il corpo forzatamente, attraverso quest’immobilità imposta per molte ore. In questo caso non sono pensieri depressivi, ma motivi logici e razionali, volti ad un fine pratico, ma il risultato non cambia. Si crea un’immobilità e una repressione.

Ancora in questa direzione possiamo riflettere sul ruolo di tutte quelle sostanze, che ci immobilizzano o ci portano via una parte di noi. Mi viene in mente l’ansiolitico per esempio, che appiattisce l’emotività, di conseguenza riduce la spiacevole sensazione di ansia, con tutti i suoi correlativi psico-fisici. Prendiamo ad esempio il caso di una persona che sta affrontando un compito ansiogeno, normalmente ansiogeno perché nuovo, imprevisto, impegnativo, richiedente, che può avere delle conseguenze nella sua vita. L’ansiolitico gli permetterà di eliminare tutte quelle sensazioni spiacevoli, quali sudorazione profusa, tremori, agitazione psicomotoria, elevazione pressoria, aumento del battito cardiaco, ecc. Non di meno, non cancellerà la situazione con tutti i suoi rischi reali e psicologici, tanto meno l’effettiva difficoltà nell’affrontarla, per cui al momento in cui l’evento si verificherà, succederà che la persona in questione si troverà improvvisamente catapultata in questa realtà di ansia ed essendo immediata, violenta, senza preavviso, risulterà ancora più disorientante.

L’ansia infatti, costituisce un importante strumento, una sorta di termometro che ci aiuta a valutare la nostra condizione in relazione alle richieste ambientali e alle nostre richieste interne, come le aspettative, di conseguenza attiva una serie di risorse importanti per affrontare al meglio la situazione, innalzando attenzione, concentrazione, pensiero mirato, riducendo le attività momentaneamente non essenziali, ecc.

E’ ormai storico lo studio (Yerkes e Dodson), che verificò l’andamento a U rovesciata, tipico dell’ansia. La forma ad "U" rovesciata della curva, è determinata incrociando su un asse cartesiano le due variabili: ansia e prestazione. Si osserva che la prestazione migliora in misura dell’accrescersi dell’ansia, almeno fino ad un certo picco, il punto più alto della U, dopo il quale l’ulteriore aumento di ansia, riduce progressivamente la prestazione, perché passa ad essere eccessiva e disfunzionale, è andata oltre il livello ottimale.

In conclusione l’ansia serve, è adattiva ed è importante che noi impariamo ad utilizzarla, impadronendoci gradualmente delle acquisizioni di meccanismi di gestione ottimale dell’ansia. Solo vivendola appieno, con i suoi inevitabili effetti, potremmo imparare a gestirla e a mantenerla a livelli produttivi, entro la prima parte della U rovesciata appunto.

Tornando ancora sui farmaci, pensiamo ad esempio agli antidolorifici, antinfiammatori, ecc. Ci forniscono sicuramente sollievo, rispetto ad un vissuto di dolore intenso, di bruciore, di martellamento, sottraendoci però le informazioni che il corpo ci sta inviando. Prendiamo semplicemente un dolore molto acuto ad un’anca, che impedisce molti movimenti, ma soprattutto impedisce di correre, di guidare, di camminare, se non a caro prezzo. Se somministriamo degli antidolorifici, il dolore sparisce e tutto torna uguale a prima, la persona ricomincerà a muoversi come se niente fosse, senza rendersi conto che non è esattamente così, non si trova nelle usuali condizioni. La sensazione di dolore è sparita, ma il processo infiammatorio in atto no, il problema non è risolto e la persona non ha ancora colto il meta messaggio, simbolizzato dal corpo, che segnala un problema o un errore nel proprio stile di vita, nel modo di rapportarci a sé stessi e all’ambiente.

Il corpo gli sta comunicando delle cose ben precise, gli sta dicendo che deve stare fermo, che non deve correre, che probabilmente non sta vedendo alcune cose di sé ed in conseguenza di ciò, si deve fermare e leggere i termini del conflitto. Sì, perché se c’è un’infiammazione, significa che ci sono due elementi che si contendono il primato. Eliminando la sensazione fisica, non si fa che mettere a tacere la spia rossa, ma se la benzina è esaurita, lo sarà anche se la spia non lampeggerà più. Anzi, ci troveremo improvvisamente, veramente a piedi, come se non avessimo avuto alcun preavviso. In realtà, il preavviso c’era, siamo noi che abbiamo messo a tacere la spia luminosa, abbiamo chiuso gli occhi e smesso di vedere quanto ci succedeva.

Questo è un po’ quanto capita quando poi si arriva a malattie gravi, che sembrano comparire come fulmini a ciel sereno, ma non è così, abbiamo solo spento i segnali. Se il corpo invia sensazioni di dolore, infiammazione, irritazione, ecc., vuol dire che sta succedendo qualcosa, che si stanno verificando delle dinamiche non comprese che chiedono di essere viste, per poter ristabilire l’equilibrio psico-fisico. Ignorare i segnali, continuare a correre, camminare, lavorare, fare di tutto di più, significa andare ad intaccare quelle riserve vitali, necessarie per l’adattamento dell’organismo, per far fronte alle richieste impreviste, per continuare a vivere e sopravvivere anche in circostanze avverse di stress acuto. La tendenza invece consiste nel vivere sull’onda di uno stress, divenuto ormai cronico, che esaurisce gradualmente tutte le riserve vitali.

Per cui, nonostante uno abbia vissuto sempre la solita vita, non abbia fatto cose eccezionali, non si sia posto in situazioni di pericolo o emblematicamente stressanti, ad un certo punto il corpo cede e tradisce ogni inevitabile aspettativa. Il corpo ci tradisce e ne rimaniamo basiti, non sappiamo perché, non troviamo spiegazione. In realtà, questo rappresenta solo l’ultimo tassello di una lunga serie di elementi, che devono essere decifrati e messi insieme. Una vita senza scossoni né eccessi, non corrisponde ad una vita sana e consapevole!

Talvolta succede che facciamo un movimento banale e ci stiriamo un tendine, ci procuriamo una frattura, ci rompiamo un osso, prendiamo un torcicollo, ecc., sembra incredibile, siamo caduti senza capirne il perché. Il dolore procurato, il danno effettivo, non corrisponde al supposto movimento e ancora una volta ci sembra che il corpo ci abbia tradito, non abbia assolto al suo dovere. Questo capita perché non ci ascoltiamo, non siamo in sintonia con il corpo e non percepiamo il suo reale stato, a livello di tendini, muscoli, tensioni, ecc. Abbiamo avuto bisogno delle conseguenze del nostro stato a livello concreto, altrimenti non ci saremmo accorti di come stiamo.

Ricordiamoci che l’identità ontogenetica (a livello dell’individuo) e filogenetica (a livello della specie), è prima di tutto un’identità corporea. Cioè il Sé e la percezione della propria identità, fatta di pensieri, capacità, credenze, emozioni, ecc., arriva dalla percezione del corpo, che ci fornisce i passaggi fondamentali per il senso di esistere. La cura quotidiana e ripetitiva del corpo del bambino e di tutti i suoi bisogni fondamentali (fame, sete, pulizia, protezione)  e non (carezze, baci, accompagnamento acustico attraverso la voce e la musica, ecc.), fa sì che il bambino impari a definire una serie di cose di sé e di non sé. Intanto per cominciare comprende i propri confini corporei, ciò che gli appartiene e ciò che non gli appartiene, ciò che può fare e ciò che non può, quali sono le abilità che possiede già, quelle che può sviluppare e quelle che non può .

Nei primi mesi, uno dei giochi-sperimentazioni preferiti consiste nel gettare gli oggetti in terra ed aspettare che qualcuno li raccolga. Quando quest’aspettativa viene soddisfatta, il bambino si rende conto di avere un certo potere sugli altri, che ha un suo ruolo determinante nel mondo. Successivamente, accrescendo le proprie capacità di movimento, spostandosi nello spazio attraverso la coordinazione di varie parti del corpo, imparerà ad andare a raccogliersi da solo l’oggetto lanciato, questo sarà il passo successivo, diretto all’acquisizione delle proprie capacità di movimento, di coordinazione, di potenzialità ulteriore verso il mondo.

Così gradualmente, acquisisce giorno per giorno la consapevolezza di essere amato, di avere qualcuno su cui contare, di avere qualcuno che fa delle cose per lui e su di lui, che ha anche la capacità di pensare e organizzare il movimento e giungere a determinati obiettivi, che ha un corpo che gli fornisce alcune sensazioni belle e piacevoli (sazietà, pienezza, calore, vicinanza, solletico, ecc.), altre spiacevoli (fame, sete, dolore, fastidio, freddo, caldo eccessivo, ecc.), che ha delle potenzialità e costituiscono lo strumento per svariate acquisizione di sé, con sé e con gli altri (pensiamo ad esempio il gioco corporeo, condiviso con altri bambini, oppure il litigio fatto di botte, sgraffi e morsi).

Il corpo, rappresenta lo strumento ed il luogo di acquisizione della propria identità, delle mille potenzialità, limiti interni ed esterni, della consapevolezza di sé, nei termini dell’azione, del pensiero e dell’emotività.

Harlow (1974) ci ha mostra già da anni l’importanza del tatto, della percezione, del calore corporeo. Nei suoi famosi esperimenti con cuccioli di scimmia infatti, evidenziò come il contatto fosse fondamentale per il senso di rassicurazione, per la crescita, per la sicurezza in sé e lo sviluppo della socializzazione.

Harlow aveva predisposto varie situazioni sperimentali, quella più emblematica e significativa era costituita da scimmiette che ricevevano il cibo da un surrogato materno, costituito da una scimmia di metallo, quindi fredda al tatto, posta all’interno di una gabbia. Attigua ad essa e di libero accesso, era presente una seconda gabbia con un’altra scimmia di metallo, questa volta ricoperta di morbido pelo. Nelle sue osservazioni, vide che anche se le piccole ricevevano il nutrimento dalla madre “fredda”, poi però si avvicinavano a quella “calda”, soprattutto quando si presentava uno stimolo nuovo che le sorprendeva spaventandole.

Questa condizione sperimentale veniva poi confrontata con una variazione della situazione tipo, quella in cui le scimmiette non avevano la possibilità di passare nella gabbia con la madre calda, ma dovevano permanere nella gabbia con la madre fredda. Successivamente, lo sperimentatore osservò che le piccole libere di farsi rassicurare dal surrogato di pelo erano nettamente più sicure e capaci di stabilire relazioni sociali, mentre le altre, obbligate nella gabbia con la madre fredda erano asociali e rintanate in un angolo, incapaci di farsi consolare e di consolarsi a loro volta.

I risultati ci suggeriscono quanto sia importante il contatto corporeo, anche se privo di movimento e la percezione del calore, nello sviluppo di sé. Andando oltre, possiamo dire che questo tipo di reazione sembra la stessa di quella osservata nella Strange Situation (M. Ainsworth), situazione sperimentale in cui si poteva osservare che un buon rapporto materno crea uno stato di sicurezza e di sufficiente rassicurazione, anche solo attraverso la vista e la vicinanza con la madre. Questo unicamente con i bambini del gruppo B, dove la relazione si era stabilita in modo sicuro. Mentre non avveniva con le madri che, nel corso della crescita erano state poco presenti, costanti e “calde” emotivamente, “corporeamente”, ecc.

Queste come molte altre condizioni sperimentali ci ricordano il valore primario del corpo nella crescita dell’identità e della sicurezza. Nonostante questo, sempre più ce ne dimentichiamo andando a fornire un primato crescente alle qualità più aeree ed intellettive-fredde. Per cui, ci si dimentica del corpo, relegandolo ad un piano ontologico inferiore, quando in realtà è la base e l’origine di tutto, del senso, oltre che dell’esistenza nei termini più concreti e basilari.

Direi quindi che il corpo non ci tradisce mai, siamo noi a tradirlo nel senso più completo del termine. Non gli diamo il suo giusto merito, tanto meno il suo giusto spazio.

Il corpo (Lowen, 1983, pp. 239-240) sano è caratterizzato da muscoli che presentano naturalmente dei tremiti fisiologici, che sotto stress diminuiscono, a favore di uno stato ottimale di adattamento alle accresciute richieste ambientali. Qualunque muscolo presenta questa caratteristica, compreso le corde vocali e i muscoli impiegati per la produzione di voce (muscoli della gola, della bocca, muscoli che s’innestano con le costole, diaframma e polmoni). Questo ci ricorda che già una parte del corpo come la voce, che può sembrare esterna e superficiale in realtà ci appartiene fino in fondo e parla in modo significativo di noi in senso diretto e indiretto, “tradisce” il nostro vero sentire. La qualità della voce traduce esplicitamente il nostro stato di equilibrio e di sanità. Infatti, una voce piatta e monotona esprime un alto indice di stress e di disequilibrio, una voce sommessa e flebile esprime uno stato depressivo e repressivo di sé.

Gli occhi a loro volta, rappresentano un altro organo che esprime lo stato dell’individuo a livello profondo, infatti s’illuminano quando l’individuo è eccitato e si spengono quando è annoiato, triste, depresso (Lowen, 1983, pp. 248-249). Quanto ci accade dentro, le emozioni, i pensieri, le fantasie, i desideri, ecc., si traducono  in un corpo che reagisce e cambia le sue espressioni. Gli occhi non esprimono solo i moti emotivi ma anche lo stato di salute, pensiamo ad esempio all’ittero che si mostra nella colorazione giallognola del globo oculare, l’anemia in un suo sbiancamento, ecc.

Infatti, la voce, gli occhi e tutto il corpo, sono elementi significativi per la diagnosi e per la terapia in bioenergetica (in verità ancora prima, sono stati usati e interpretati nella medicina cinese). Ogni elemento del corpo, i vari segmenti (tronco, arti inferiori e superiori, collo, testa, ecc.), l’armonia fra loro a livello di postura e di movimento, l’integrazione con lo spazio, la congruenza con l’obiettivo, l’espressività e l’intensità di occhi, voce, l’utilizzo del tatto, ecc., aiutano a determinare la storia dell’individuo e della sua personalità (Lowen, 1984).

Pensiamo per esempio al tipo masochista (come inteso da Lowen). Si tratta di un bambino cresciuto con rigidità e scarsa libertà, guidato in modo coercitivo dalla pressione genitoriale che ne ha determinato ogni tipo di scelta, dalla più piccola alla più grande. Questo individuo svilupperà un forte senso dell’obbedienza, della sottomissione, un senso d’incapacità marcato, d’impotenza rispetto a sé e al mondo, quindi anche un enorme bagaglio di rabbia repressa, manifestata unicamente in modo passivo e indiretto.

Ora, se lo guardiamo dal punto di vista corporeo, posturale e motorio, osserveremo un individuo massiccio, tozzo, incassato su sé stesso, di solito il collo corto al punto che la testa sembra attaccata direttamente alle spalle, schiena larga e ben carenata, a fronte di gambe corte e nettamente più esili rispetto alla possenza del busto. Anche la testa di solito risulta di grosse dimensioni e con lineamenti duri, quasi grezzi, poco differenziati. La voce raramente squillante, poco articolata, monotona e spesso lamentosa, con tonalità non decisa ma sottomessa. Le espressioni facciali poco esplicite, quasi inespressive, con occhi aperti in attesa di ricevere indicazioni e ordini, assai attenti a cogliere tutto ciò che succede nell’ambiente. L’andamento del movimento non risulta né sciolto, né armonico, bensì una sorta di trascinamento nello spazio, con un’incurvatura della schiena che ricorda il peso che porta sulla schiena, in più le gambe esili non riescono a sorreggere il corpo assai più pesante ed impegnativo, per cui non possono condurlo in modo veloce, scattante e lontano.

Questi elementi corporei si trovano in relazione stretta con quanto ha vissuto nell’infanzia e con la struttura di personalità sviluppatasi. Il suo corpo, l’indice di vitalità, di scioltezza, di espressività rappresentano la visione di sé, del mondo e delle persone, ovvero il senso d’incapacità e di mancata autonomia, il senso di vergogna ed il peso sulla schiena, che ne determina l’incedere lento e difficoltoso. E’ carenato proprio per proteggersi dai colpi che l’ambiente potrebbe sferrargli, il collo incassato riduce i punti fragili più facilmente attaccabili, insomma è un po’ come una tartaruga che si rinchiude nel suo guscio, aspettando che la tempesta passi. Resiste anche a forti pressioni, va piano e non esprime mai autonomia e forza, non gli è concesso. Resiste e sopravvive, ma non gioisce, non corre, non decide, non si esprime liberamente ed il corpo si è costruito in detta direzione e mantiene lo stato originario.

Questo è solo uno dei vari tipi di personalità e delle loro espressioni somatiche. Ogni individuo poi risulta da una speciale combinazione di tratti di personalità diverse e in ognuno di esso, il rapporto fra corpo e mondo interno, risulta assai significativo ed esplicativo.

Un altro elemento che ci aiuta a comprendere il legame fra corpo ed emotività e la sua capacità di fornirci informazioni, ci viene dal fatto che i sintomi conseguenti l’astinenza da dipendenza affettiva, sono esattamente gli stessi di quelli evidenziati nei casi di dipendenza da sostanze.

Sperimentalmente, questo processo è stato dimostrato negli studi sui primati, compiuti da Pankepp (in De Zulueta), dove le vocalizzazioni negli animali giovani, dovute alla separazione dalle figure significative, sono inibite con la somministrazione di oppiati (morfina, codeina, metadone, eroina, ecc.), non di meno i sintomi prodotti dalla separazione sono assai simili a quelli osservati durante l’astinenza da narcotici. Questo ci ricorda come il dolore psichico e gli effetti di mancanza psicologica, siano associati e condividano le stesse reti neuronali con i correlati ad essi associati (nervi, muscoli, tendini, ecc.), dei sintomi della mancanza fisica da sostanza. Ci ricorda anche per l’ennesima volta che da qualunque posizione guardiamo la cosa, stiamo sempre guardando la stessa cosa: noi stessi, nella nostra completezza mente-corpo.

Chicchiarelli ci ha mostrato quali siano i maggiori sintomi sviluppati da molti giovani e giovanissimi, in astinenza dal cellulare (una delle nuove dipendenze) anche questi assai simili a quelli determinati dall’astinenza di sostanze psicostimolanti (ansia, nervosismo, tachicardia, sudorazione, sbalzi pressori, ecc.).

Insomma, quello che vediamo bene è che il corpo risponde, creando dei segnali significativi e visivi, sia in caso di variazioni di tipo ambientali, di tipo emotivo - relazionali, che propriamente biologico-chimico.

Nonostante il nostro vissuto, direi che ancora una volta il corpo non ci tradisce affatto, anzi è il nostro migliore amico, il contenitore che ci ospita, ci sostiene e che ci permette di vivere, di gioire, di piangere, di godere, di esprimerci nelle mille sfaccettature possibili. Oltre a ciò, ci manda mille segnali perché lo stato originario venga ripristinato.

Probabilmente è necessaria una particolare attenzione ed educazione al nostro corpo, alla percezione di muscoli, di organi, di sensazioni, umori, ecc., in modo da essere più consapevoli della sua presenza anche nella condizione di sanità, in modo da essere più recettivi ai suoi messaggi, per ottenere sintonia in ogni parte di noi stessi.

Per non avere sorprese e non sentirsi traditi, dovremmo essere abituati a stare in ascolto del corpo e dovremmo essere preparati cognitivamente ed emotivamente agli eventi naturali della vita, come l’invecchiamento ed il deterioramento naturale del corpo, degli organi, delle funzioni.

Lavorare in questo senso, a partire dall’infanzia, costituisce un radicale cambiamento nella visione di sé, apportato in modo leggero e spontaneo, in linea con quanto avverrebbe naturalmente, in un ambiente poco artificiale e controllato. Si può continuare a portare avanti il progetto di sé, nato fin dalla nascita, giocando col corpo e attraverso esso, introducendo la consapevolezza e l’osservazione, come elementi ulteriori e distintivi di crescita.

Può sembrare paradossale dover fare un’opera attiva in questo senso, ma non lo è, soprattutto in un’epoca dove assume sempre più importanza la mente, l’astrazione, i mezzi tecnologici, distanzianti dal corpo e dalla concretezza. In un’epoca dove il corpo è quasi unicamente fonte d’investimento estetico, come fosse un oggetto da esibire narcisisticamente e niente più. E’ necessario ritornare in basso, alla terra e al contatto con essa, attraverso il corpo, il nostro tramite con la natura e la vita.

Non sorprendiamoci dunque e viviamo più vicini alle cose concrete e simboliche del corpo, insegniamoci in modo diretto e indiretto col nostro esempio quotidiano, cosa significa recuperare l’ascolto di ogni parte di noi!

Viviamoci tutti interi, adagiandoci nel nostro letto senso-corporeo.

Buon corpo!

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

Alpa Patel, Cancer Society, www.cancer.org

Caviglia G. (2003). Attaccamento e psicopatologia. Roma, Carocci.

Chicchiarelli D. Tecnologia e minori: è allarme. In: www.ghigliottina.it/ghigliottina1/html/modules.php?name=News&file=article& 

De Zulueta F. (2009). Dal dolore alla violenza. Le origini traumatiche dell’aggressività. Milano, Raffaello Cortina.

Harlow H. (1958). The nature of love. American Psychologist, 13, 673-685.

Lowen A. (1977). Espansione e integrazione del corpo in Bioenergetica. Roma, Astrolabio.

Lowen A. (1983). Bioenergetica. Milano, Feltrinelli.

Lowen A. (1984). Il linguaggio del corpo. Milano, Feltrinelli.

Yerkes R.M., Dodson J.D. (1908). The relation of Strength of stimulus to rapidity of habit formation. Journal of Comparative Neurology and Psychology, 18, 459-482.

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7 febbraio 2011 1 07 /02 /febbraio /2011 13:05

Cancro di vita, cancro di morte

Dott.sa Sabrina Costantini

 

 

Non sapevo perché mi fosse venuto in mente quest’idea prepotente, di scrivere qualcosa su quest’argomento: il cancro.

Continuava a girarmi in testa quest’idea, ma non sapevo cosa volessi comunicare esattamente.

Forse perché il cancro è una condizione molto più universale e diffusa di quanto si pensi. Forse perché ci viviamo fianco a fianco tutti i giorni. Il tumore è un bubbone che ci rimane sul gozzo, un peso che non riusciamo a digerire, un macigno che ci incurva la schiena, una falce che ci taglia le gambe. In definitiva, è un incubo che volteggia sulle nostre teste, che ci sveglia la notte e ci disturba il sonno.

La verità è che ognuno ha il suo cancro da estirpare, il suo nodo da sciogliere, un risanamento essenziale, pena la recisione della propria vita.

Ma tutto questo sentire, era vago, generico, non trovava una sua strada, fino a quando un giorno, ho visto Luisa per caso, in quel negozio.

Quando Luisa mi ha vista, mi ha ignorata come se non mi conoscesse o non mi avesse riconosciuta ed io, ho ricambiato la cortesia.

Aveva la stessa espressione di sempre, ancora più incarognita e truce. L’espressione di chi vive la vita con gravità, estrema serietà e pesantezza, raschiando dal fondo con sforzo, per controllare e mantenere un rigore, necessario e richiesto.

Ma richiesto da chi? Chi lo esige da lei?

In realtà da nessuno, solo da se stessa: il giudice più severo. Eppure ancora così presente, anche dopo la sgradita visita del suo tumore al colon.

Un tumore che rimarca la stitichezza e la ritenzione di Luisa, che concede a gran fatica un saluto e due parole di circostanza. Che evita come il diavolo l’acqua santa, chiunque non rientri nel cerchio delle persone catalogate familiari e accessibili, in base ad un criterio conosciuto da lei sola. Questa donna, si protegge dal mondo, allontanando il mondo stesso, sputandogli ancora addosso con gran rigore e metodo.

Dopo aver colluso con lei, ho avuto il desiderio di differenziarmi, avrei voluto rintracciarla e salutarla, ma si era dileguata al mio sguardo.

Ho pensato a quanto sia facile cadere in un circolo vizioso di rabbia, solitudine, tristezza, pretesa. Sì, la rabbia macerata nel dolore, diventa pretesa sordida e silente, nota solo a chi la vive.

Quanto è facile sfuggire al significato, che il corpo ci manda! Si delega la guarigione al medico, si lascia che il chirurgo tolga via e allontani da sé la parte malata, lasciandoci invadere da radiazioni e farmaci. Siamo bersagli perfetti, una sagoma bombardata, un corpo dilaniato e depauperato.

Ma chi, si ferma veramente a capire, cosa ci sta dicendo il corpo? Perché quelle cellule del nostro corpo sono impazzite?

Le cellule cancerogene improvvisamente smettono di lavorare al progetto comune dell’intero corpo, per andare in una direzione diversa, verso un obiettivo individuale.

Ma se questo gruppo di cellule si prende la briga di invertire la tendenza, di contrastare un ordine prestabilito da anni e generazioni, regolato da binari genetici, impiegando tutta la loro energia e rischiando la propria sopravvivenza, forse ci sarà un fine molto elevato. Forse quel percorso non è più così adattivo come si pensava, o non lo è più per quella persona, in quel momento. Ma tutto questo, viene  ignorato. Ci si affretta ad eliminare i sintomi e i disagi, per poter continuare la vita di sempre. Si fanno i salti mortali, pur di tenere in piedi la baracca: lavoro, abitudini, amici, interessi, ecc. Tutto, esattamente come prima.

Non si sa perché, ma non ci si può fermare, non ci si permette di arrestarsi ad ascoltare il corpo e la sua voce.

Pensate al dolore e ai suoi suoni. Già! Non li conosciamo, perché non gli abbiamo dato modo di farsi sentire. Gli analgesici soffocano la voce, che non può urlare il dolore del corpo, non può far emergere i suoi gemiti. Tutto rimane nascosto, da una condotta civile ed educata.

Si nasconde la propria condizione, si sorride, simulando un’imminente guarigione e dissimulando angosce e dubbi.

Il corpo è sempre più plastificato, artificializzato in organi, arti, posture, condotte e vissuti estranei, non naturali, decisi dall’esterno, da un qualche codice etico, religioso, o semplicemente narcisistico.

Siamo sempre più imbrigliati e prigionieri. Neanche la prigione del cancro, ci apre gli occhi. Siamo pronti ad offrirci come cavie da laboratorio, a demandare all’esterno il nostro potere di guarigione. Scompariamo, di fronte a noi stessi!

Luisa ti ringrazio, perché in un attimo, con il tuo atteggiamento, mi hai ricordato tutto questo. Questa tua durezza impenetrabile e imperturbabile, assolutamente scalfita dal tuo tumore, tanto imperitura da suscitare una pena infinita, mi ha insegnato la vita!

La pena e la tristezza costituiscono la porta d’ingresso per la tua infanzia, schiudono il nascondiglio della piccina, che ancora trema di paura e dolore. Da chi sarà arrivata tanta durezza? Da chi, tanta critica inesorabile?

La paura del rifiuto deve averti fatto battere la ritirata, tutto sotto chiave! Non entra nessuno. Fuori tutti quelli che fanno correre rischi, che richiamano parti nascoste, che potrebbero coinvolgere istinti non controllabili.

Avevo provato ad informarmi sulla tua condizione, attraverso amici comuni, ma non avevo ottenuto che risposte generiche.

Probabilmente, molto tempo fa, avevi deciso, che gli altri non dovessero sapere neanche della tua malattia! Dovevi controllare tutto, compreso quello che gli altri potevano sapere della tua malattia e della guarigione.Tutto doveva tornare come prima, il corpo rimettersi in riga e marciare come un soldatino, esattamente come tutte le cose e le persone della tua vita.

Potrà mai tornare come prima?

In realtà, nulla torna come prima. Non si può nascondere, non si può far finta di niente. La chirurgia taglia ma non elimina, non fa dimenticare, non risana, non fa digerire il boccone amaro, non ripristina la propria stabilità. Per questo occorre la consapevolezza della persona, la sua conoscenza risanatrice. Una conoscenza che liberi da quella rabbia diventata rancore stantio e persistente, che striscia nel fondo della nostra vita, ostinata fino a togliere l’aria ad ogni cellula, per farla perire.

Eppure quanta inconsapevolezza, quanto scetticismo, quanta debolezza!

Tante persone diverse, tanti modi di affrontare la sanità e la malattia, ma una costante ripetizione di negazione e fuga.

Una triste ripetizione!

Che dire di Milli? Anch’essa colpita da un tumore. Un tumore che minava la sua femminilità, la sua capacità di nutrire e guarda caso, spuntato fuori proprio quando la prima e unica figlia, stava cominciando a spiccare il volo.

Ma Milli, dopo tante lacrime disorientate e sperse, ha sconfitto il tumore. Sapete come? Con una nuova gravidanza, rinnovando la sua scelta di vita: il ruolo di mamma! L’unico, che vede congeniale a sé, assunto molto prima di essere effettivamente mamma, un testimone passatole assai precocemente dalla propria madre.

La maternità è un evento meraviglioso, un miracolo della vita, ma non può essere usato per risanare la propria vita, serve per darne alla luce un’altra, che sia libera di essere per come sente, senza debiti o carichi pendenti ancora prima di venire al mondo.

Mi chiedo cosa succederà, quando anche il secondo figlio crescerà e inizierà a spiccare il volo. Quale strategia troverà, questa volta Milli? Il fantasma è stato momentaneamente raggirato, ma l’incontro è solo rinviato.

Il  linguaggio incarnato nel corpo infatti, traduce la mancata comprensione del linguaggio emotivo. Se rispondiamo col corpo, rimaniamo sul piano concreto, creando una caduta del livello evolutivo. Se, non riusciamo ad utilizzare la malattia come momento di riflessione e cambiamento nello stile cognitivo-emotivo, non può verificarsi il salto quantico, che conduce ad una consapevolezza staccata dalla concretezza.

Il corpo, con la sua malattia, deve costituire il simbolo di qualcos’altro, il quadro d’insieme della propria vita, se non siamo in grado di discernerlo e cogliamo solo l’elemento concreto, regrediremo ai livelli precedenti, fino a macerare nella concreta terra

Infatti Emma, si è lasciata sola in una stanza d’ospedale, a piangere lacrime furtive e amare, ha perso la vita nel momento in cui ha smesso di pretendere qualcosa per sé, in cui ha abbandonato ogni sogno di ragazza, per lottare la vita solo nelle necessità concreta. Ha perso di vista ciò che non si vede, la vitalità, la passione, i sogni. E’ già andata, ancor prima che il cancro la porti via.

Quanto buio ci deve essere, nella tua anima, cara Emma! Ormai, non c’è via d’uscita!

Marco e Tiziana, una coppia che aveva ormai cresciuto i propri figli, ha trovato nel cancro di lui, un’occasione di dolore profondo. Marco ha dovuto affrontare la morte, fino ad allora scongiurata dall’onnipotenza e dall’illusione di una forza e di una giovinezza ritenuta eterna. Ha dovuto interrompere quell’attività, che lo faceva sentire maschio e forte, invincibile di fronte al mondo.

Il suo tumore ha dato l’opportunità anche a Tiziana, di riconsiderare sé stessa a trecentosessanta gradi. Per la prima volta s’è vista spersa, sola e incapace. Nel dover pensare la morte del marito, ha finalmente riconosciuto la propria condizione di totale dipendenza. Dove poteva andare, senza di lui? Cosa avrebbe potuto fare? Cosa avrebbe dovuto pensare?

Tiziana ha sviluppato una serie di attacchi di panico, aggiuntisi alle mille paure già esistenti: l’inizio di un viaggio a ritroso nella propria infanzia degli orrori, fatta di abbandoni e violenze.

Ricordo poi Orazio e Dida, con il cancro del 2000: l’HIV. In un continuo giuoco con la vita, ormai attaccata solo ad un filo, saltellavano ancora come adolescenti affamati di curiosità.

Persi in un modo illusorio, convinti più di prima di poter vivere come se niente fosse, con la stessa ingenuità e irresponsabilità dei bambini. Orazio e Dida non avevano più molte chance ormai, il corpo e la psiche aveva subito traumi, fratture, contusioni, incrinature di ogni tipo.

Eppure affrontavano la morte esattamente come avevano affrontato la malattia e la vita. Tutto questo sbattimento, non aveva introdotto nessuna consapevolezza. Continuavano a dormire e sognare momenti migliori, sballi favolosi, in un’altalena fra realtà ed fantasia.

Ma di tumori che consumano, ce ne sono tanti! In un’immagine lontana, emerge Mateo: laureato, colto, intelligente, con una discreta sensibilità. Era ustionato in modo indelebile per la maggior parte del corpo, viso compreso. Si era addormentato ubriaco nel letto, con la sigaretta in mano ed il materasso aveva fatto un gran falò, con lui dentro.

Nel post gruppo del centro alcoologico tentò di avvicinarsi ed io ebbi una reazione di ribrezzo e di ritiro. Non era il corpo ustionato, la faccia deformata che mi crearono disagio, non era la mostruosità esterna che mi inorridì, bensì quella interna. Mi dispiacque immediatamente, ma la mia reazione fu istintiva e piena di vita. L’orrore interno era devastante e orripilante, era una forza inesorabile che spingeva all’annullamento e alla morte. Quell’incidente non era un incidente, non era un caso, ma il prodotto di una forte volontà di morte, già pronunciata con l’alcoolismo di vecchia data.

Eppure, neanche l’abbrutimento e la devastazione del corpo, sembrano muovere realmente un mondo imperturbabile. Al massimo, sembrano lasciare posto alla vergogna.

Ricordo chiaramente Irma al primo colloquio. Portava un cappellino, assai fuori luogo rispetto all’abbigliamento, all’età e alla distinzione dei modi. Emergeva la vergogna di una testa ormai denudata della sua prosperità e dignità. Nonostante venisse a trovare una stabilità, a capire cosa le stava succedendo, nascondeva le parole che il corpo pronunciava! La perdita subita, la terra-testa bruciata dal dolore del corpo e della psiche, dai farmaci illusoriamente risanatori, era occultata dal un cappello, che le impediva di fertilizzarsi.

La vergogna! Era la vergogna aleggiava in primo piano ed aveva la meglio su tutto, compreso sulla volontà di vivere. Un sentimento, che sembra così assurdo e irrazionale, ma tanto potente e devastante la naturalità della persona.

La stessa vergogna, l’ho intravista in un uomo che si vedeva ridotto ad una larva umana dal suo cancro e si rispecchiava negli occhi degli altri, che rimandano la paura e la desolazione di un male che ti prosciuga la vitalità, ritira la carne dalle ossa, spolpandola come un cane rabbioso. Quella vergogna di non riuscire più, neanche ad alzarsi dal letto, che ti fa nascondere, ti fa abbassare lo sguardo, ti fa ignorare dal mondo, che ti rende incomprensibile, incompreso e solo.

Quella vergogna, che ti uccide ancora prima che il cancro ti porti via.

Vergogna che obbedisce alle regole esterne del dover essere, a canoni decisi altrove, che dimentica il centro di noi stessi, per mettere in primo piano l’immagine e la vacuità.

E’ questo il cancro che uccide, il cancro di morte. E’ la mancata comprensione di un messaggio di vita, di un avvertimento che non viene colto e che porta all’estreme conseguenze. Il cancro di vita si trasforma gradualmente, diventando messaggio di morte e distruzione.

Se smettiamo di ascoltare il tremolio delle nostre gambe e il battito dei denti, per ascoltare le parole sepolte nel profondo di noi, il cancro si rivela grande maestro di vita, insegnante colto e generoso. E’ un fulmine che ti sconquassa, un’angoscia perforante che penetra il tuo mondo e lo taglia in due, lasciandoti svuotato, senza parole, ma in attesa di germinazione.

Il cancro è morte! Il corpo si salva solo se ci arrendiamo alla morte della psiche, che perde le antiche sembianze, rinnovandosi, per rinascere ad esistenza nuova, in un corpo rigenerato e risanato.

Il cancro, proprio perché ci toglie i capelli, devasta l’aspetto, affama l’organismo rendendolo irriconoscibile a noi stessi, ci riporta ai minimi termini, ci offre la possibilità di trascendere il corpo stesso con la sua immagine, per ritrovare un corpo vissuto, rappresentato e sentito al suo interno. Un vissuto essenziale non per gli altri o per l’immagine rivolta al mondo, ma per sé e per il proprio “ben-essere”.

Come sostiene il Dott. Hamer, il cancro come altre patologie, costituiscono l’espressione di un conflitto che si esprime su tutti i piani, psicologico, neurologico, organico. Per la guarigione, è essenziale coglierne il senso, dirimerne i termini.

Del resto, ogni parte del nostro corpo, ogni malattia o sintomo trascendono sé stessi, ci parlano del corpo intero, della persona nella sua globalità, di come vive sé stessa, il mondo e le relazioni. Allora, la malattia costituisce una grande opportunità, un’opportunità di vita e cambiamento! Certo non è facile trascendere la disperazione e lo spavento del momento, il disorientamento dato dalla diagnosi, ma per riuscire ad andare oltre la condizione particolare di quell’organo, per trovare una nuova strada a favore dell’individuo tutto, è essenziale provarci e riuscirci.

Finalmente, torniamo in primo piano noi con noi stessi, con il fondo più nascosto, con la propria coscienza, la propria integrità, la propria rabbia e vitalità.

Forse è per questo che mi ha catturato tanto l’idea di immergersi in questo universo e lo capisco proprio ora, che sono arrivata al capolinea. Il cancro è isolamento. Esattamente come le cellule cancerogene ci mostrano nella loro somatizzazione, l’individuo si rinchiude nel proprio rancore, macerato dal tempo e dalla ruminazione del pensieri.

Come le cellule tumorali si distaccano dal resto del corpo e dalla finalità dell’intero organo, la persona si distacca dalle proprie origini, dalle radici familiari e dalla rete relazionale. Un rifiuto ed una chiusura che si trasforma in negazione di sé stessi, deprivazione di vitalità.

In questo senso, il malato di tumore è uguale allo schizofrenico, che si ritira nel proprio mondo di illusioni ed allucinazioni, teso ad evitare le emozioni come fossero peste bubbonica. Allo stesso modo l’alcoolista decide di bruciarsi nelle fiamme della mostruosità umana, il sieropositivo rincorre rapporti “infetti” e paradossali, il tossicodipendente cortocircuita la propria vita in uno stantuffo e così via.

Lo schizofrenico non cerca il brilluccichio negli occhi dell’altro, per rispecchiarvicisi e nutrirvisi, ma produce lui stesso il suo brilluccichio, espresso in una luminosità speciale dei propri occhi, alimentata dall’illusione e dall’autoreferenzialità. Ha rinunciato alla vita e alle speranze, molto tempo fa. Ha smesso di chiedere qualcosa per sé!

L’ha già capito anche la figlia di Milli, che ha raccolto il testimone: è la relazione la chiave di tutto. Il cancro si sconfigge con una proteina, considerata in relazione con le altre proteine correlate.

La relazione, l’apertura all’altro, diventa disponibilità a farsi portare dalla corrente, a cavalcare l’onda del cambiamento, ad aprire sé stessi alla vita, in una scelta rinnovata quotidianamente.

La solitudine autoimposta, orgogliosa e sterile, rappresenta il vero cancro dell’uomo!

Il cancro di vita dunque, rappresenta una condizione che offre un ritorno a casa, esattamente come hanno fatto Häns e Gretel, dopo aver superato la seduzione dell’immagine, dell’offerta golosa, l’offesa subita, subdola, violenta e quel fiume che ha imposto loro la separazione. I due bambini hanno dovuto riconoscere e ricongiungere la madre buona e quella cattiva, il bene ed il male, l’essenza e l’immagine, il cancro di vita ed il cancro di morte.

Hanno dovuto affrontare la solitudine ed il buio del loro bosco interno, per poter ritrovare la gioia del ritorno, le fondamenta dove dimora la psiche!

E’ così che, dopo aver rinunciato all’apparenza, sono tornati a casa, ormai arricchiti e individualizzati.

Nello stesso modo, bruciando la strega nelle fiamme dell’inferno narcisistico, il cancro può riportarci con freschezza da dove siamo originati.

Il tumore è uno choc ed una prova, un’occasione difficile da cogliere, ma assai preziosa!

Può essere tumore di vita o di morte, dipende solo da noi.

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19 gennaio 2011 3 19 /01 /gennaio /2011 12:17

IL CORPO PARLA

Sabrina Costantini

 

 

     Sempre più negli ultimi anni, stiamo assistendo ad un incremento di malattie che riguardano il corpo.

     Da una parte si accrescono i casi relativi a patologie altamente debilitanti, degenerative, che degradano l’integrità della persona, quali tumori, disturbi cardio-vascolari, malattie d’origine genetica, immunodeficienze, ecc.

     Dall’altra, ancora di più assistiamo al proliferare di disagi di minore gravità (rispetto alle conseguenze sull’organismo), ma altamente disturbanti, che alterano l’equilibrio ed il benessere. Si parla d’allergie d’ogni tipo, malattie della pelle, disturbi legati alla colonna vertebrale e ai muscoli ad essa connessi (dolori cervicali, sciatalgie, lombalgie), disturbi dell’udito e della vista (d’origine infettiva, infiammatoria, ecc.).

     Questi sono, soltanto alcuni esempi, di una lunghissima lista di malattie e sintomi.

     Per non parlare poi dei disturbi chiaramente psicosomatici o che comunque presentano un’espressione mista, di disagio psichico e somatico, un esempio fra tutti: l’attacco di panico. In questo disturbo, ormai frequente e ben conosciuto da molte persone, si esprimono una serie di vissuti emotivi, quali ansia e forte paura legata alla propria integrità (paura di morire, di non respirare, d’infarto, di impazzire, ecc.), connessi con dei disagi somatici, quali aumento del battito cardiaco, iperventilazione, sudorazione profusa e così via.

     In realtà, qualunque sia il piano d’espressione e l’origine ultima del disagio, il corpo c’invia un messaggio. Messaggio che non riguarda la specifica area interessata dal disturbo, ma riguarda noi stessi, nella nostra interezza.

     E’ importante renderci conto che noi siamo il nostro corpo. Noi siamo un insieme d’emozioni, fantasie, pensieri, azioni, che si generano nel corpo-psiche e si esprimono attraverso il corpo.

     Ciò che noi siamo e come si traduce all’esterno, è strettamente connesso con l’immagine che abbiamo di noi, ovvero con le idee riguardanti le nostre capacità, risorse, limiti, difficoltà. Queste idee e il sentire connesso, sono esplicate attraverso la specifica modalità con cui c’espandiamo all’esterno, in primis attraverso il nostro “corpo espressivo” (espressione del volto, atteggiamento, postura, tonicità, flessibilità, mobilità, ecc.).

     Di seguito attraverso il “corpo strumentale”: come parliamo, di cosa parliamo, come usiamo il nostro corpo, come trattiamo il nostro corpo, come mangiamo, vestiamo, lavoriamo, amiamo, giochiamo, ecc.

     Alexander Lowen (2004) parla di struttura caratteriale, riferendosi ad uno schema fisso di comportamento, attraverso cui si esprime la ricerca di piacere. Intendendo per piacere, il funzionamento regolare e normale dell’organismo (dal punto di vista corporeo-biologico), unito alla possibilità d’espansione del corpo (aprirsi, protendersi, entrare in contatto), manifestazione della possibilità di esprimere sé stessi, nelle emozioni, idee, progettazioni, fantasie, comportamenti finalizzati, ecc.

     Secondo Lowen (1979), una persona che percepisce dei limiti nell’espressione di sé stessa, in ciò che sente d’essere e di voler comunicare, risulterà congelata rispetto all’espansione esterna, riducendo anche la possibilità di essere a sua volta “toccata” dagli stimoli (emotivi, relazionali, ludici, ecc.). Si produrrà un’omeostasi in cui il contatto e la comunicazione fra interno ed esterno, sono ridotti al minimo indispensabile, a quel livello “ritenuto” non pericoloso, per la propria integrità bio-psichica.

     Questi concetti ci aiutano a comprendere che, ciò che realmente siamo, non coincide con l’immagine che abbiamo di noi e con ciò che traduciamo all’esterno. Più l’idea di noi si avvicina a ciò che siamo e più si verifica un’integrazione (psico-soma), uno stato di benessere e “sanità”, una realizzazione all’esterno, consona con i propri desideri.

     La distanza (nelle svariate misure e sfaccettature) fra l’immagine di sé e “l’essenza” sottostante, origina dalla propria storia passata e attuale. Il rapporto con la famiglia, il primo contatto significativo con l’esterno, ne costituisce il tassello principale. S’inseriscono poi il rapporto con la famiglia allargata, la scuola, gli amici, le attività di vario tipo, le esperienze emotive altre, ecc.

     Espressa nei termini dell’Analisi Transazionale (Berne; Goulding; Wollams e Brown), i genitori (o chi ne fa le vece), nel prendersi cura del bambino, si relazionano su due livelli: quello del Genitore Affettivo, che nutre con amore e protezione e quello del Genitore Normativo o Critico, che nutre con una serie di convinzioni e atteggiamenti nei confronti del mondo, degli altri e di sé stessi.

     Quest’ultime sono traducibili in termini di spinte (indicazioni e aspettative su ciò che dovrà essere, es. sii forte, sii adulto, sii perfetto, sforzati, ecc.), controingiunzioni (i divieti relativi a comportamenti e idee ritenute negative, come: non essere un bambino, non sentire, non crescere) e i programmi (indicazioni sulla modalità di agire, reagire, ovvero indicazioni su “come” fare, es. lavorare con costanza e serietà).

     La famiglia ha come obiettivo quello di proteggere e aiutare il figlio a crescere, nel migliore dei modi. Tutto ciò viene attuato, in base a quanto è ritenuto giusto-sbagliato, quindi filtrato dall’immagine di sé, base per la costruzione dell’immagine dei propri figli. Più l’immagine che i genitori hanno di sé risulta distante dalle reali capacità, più i messaggi inviati alla prole risulteranno limitanti e rigidi.

     Abbiamo già visto che l’immagine di sé è strettamente legata alla capacità di provare piacere. Ciò che limita tale espressione nel presente è rappresentato dalla paura e dal dolore psichico, connessi ad una possibile minaccia della propria integrità, valutata in base ai messaggi ed esperienze del passato.

     Quindi inconsapevolmente, in modo diretto e indiretto, gli adulti trasmettono le proprie paure relative al mondo, a sé, agli altri, proiettandole sul bambino stesso. Se ad esempio, ad un genitore è stato spinto fin dall’infanzia ad essere adulto, questi a sua volta manderà dei messaggi di precoce adultizzazione ai propri figli, limitandone il permesso al gioco, alla dipendenza, al bisogno, ecc., per lui sono solo “una perdita di tempo”.

     Per cui, ciò che l’individuo vive, costituisce una transferimento delle rappresentazioni relative ad “oggetti” e relazioni del là e allora, su “oggetti” e relazioni del qui e ora (G. Lai).

     L’immagine di sé, costituisce comunque una costruzione che può essere modellata nel corso della vita, nelle varie fasi evolutive. Sia nel senso che le esperienze successive possono mitigare, confermare o irrigidire le credenze e il vissuto, sia nel senso che un graduale processo di consapevolezza su sé, può contribuire ad avvicinare l’immagine al nucleo della propria identità.

     Più ci allontaniamo dai bisogni fondamentali, dal proprio sentire, in direzione di un’immagine distante da sé, più si accresce frustrazione, disagio, ansia e paura. Il non ascolto di tale sentire e la con comprensione del significato e dell’origine, produce una tensione emotiva sempre più intensa e cronica, fino a trovare dei canali d’espressione invalidanti.

     Quale canale migliore del corpo? Non possiamo certo ignorarlo.

     Ovvero spesso, come osserva Abraham, noi non siamo abituati a percepire il proprio corpo nel benessere. E’ come se non esistesse, lo ignoriamo e non ne abbiamo percezione. Tale scissione è tanto più potente, quanto più rimaniamo aggrappati all’immagine di sé, ad un’idea e non alla realtà.

     Ignoriamo il corpo nel benessere e nella salute, ma di sicuro non possiamo dimenticarlo nella sofferenza e malattia. Si genera un dolore che non può essere lenito per lungo tempo con palliativi e che invalida l’agire, il sentire e il pensare abituale. Il corpo c’impone di fermarci a sentire.

     Non a caso, le malattie o i disagi che riguardano il corpo, ci riportano prepotentemente alla realtà, alla “nostra realtà”, che richiede un ascolto più attento ed integrato.

     Ritengo che l’aumento di disagi somatici e l’aumento di persone che arrivano in psicoterapia con questo tipo di sintomi, sia determinato da un accresciuta cecità e sordità, rispetto a sé stessi.

     E’ come se avessimo una splendida casa, corredata da un giardino fiorito, ma la usassimo solo per le necessità di sopravvivenza e per motivi estetici e ci rendessimo conto di ciò che abbiamo solo nel momento in cui si rompe un tubo, che allaga la casa. La nostra casa necessita e merita di essere vista, vissuta e curata in ogni sua parte, dalle più visibili a quelle più nascoste.

     L’eccessiva attenzione all’immagine ci porta sempre più “in alto”, nella “testa”, nel pensiero razionale, che autoalimentandosi in accrescimento, perde gradualmente contatto con ciò che lo ha generato. Il corpo, al contrario ci riporta coi “piedi per terra”, contattandoci con la nostra realtà del qui e ora, connessa col sentire. Soltanto il pensiero che si genera, dall’interazione fra percezione del corpo e sentire emotivo, costituisce l’integrazione e l’unità della persona nella sua realtà presente.

     Un’immagine esplicativa è rappresentata dal seme, che rimane quiescente nel terreno (pensiero razionale), a discapito della possibilità di germogliare verso il sole e la luce, sorretto e radicato contemporaneamente alla base (integrazione). Immaginate la bellezza e la forza di un albero, che espande le sue fronde verso il cielo e si ancora prepotentemente al suolo con le radici: ecco questa è la percezione dell’integrazione psiche-corpo.

     Lo stile culturale, sociale, economico-politico, stanno favorendo una qualità di vita caratterizzata da specializzazione, prestazione, velocità, quantità. I modi ed i tempi, sono sempre più distanti dai ritmi naturali e dai bisogni dell’uomo. L’accrescimento culturale e intellettivo, la complessificazione psichica, del resto ci forniscono gli strumenti per far fronte a questi ritmi di vita, sempre più richiedenti.

     Ciò è possibile, a discapito del tempo dedicato all’ascolto di sé, che si perde insieme al corpo, che “deve funzionare come una macchina”, reattiva ai propri comandi.

     L’andamento culturale degli ultimi anni e la nostra adesione ad esso, fa si che ci allontaniamo sempre più dal corpo, per proiettarci nel pensiero, nella progettazione staccata dalla realtà concreta.

     Lowen (1992) definisce la società attuale, narcisistica. Contraddistinta da una perdita dei valori umani, si tratta di una società che sacrifica l’ambiente naturale, la qualità di vita, la relazione umana, al profitto e al potere.

     In questa strutturazione del tempo e delle energie, risulta più improbabile un processo di consapevolezza e crescita riguardo a sé, alle proprie reali risorse, emozioni e bisogni. Anzi il vocabolario emotivo, la consapevolezza che esistano emozioni e la comprensione di ciò che proviamo, risultano sempre più rari.

     Tale distanza da sé, produce un tipo di vita non rispettoso di ciò che siamo e necessitiamo, dal punto di vista emotivo, corporeo, comportamentale, ideativo. E come tale il corpo manda i suoi messaggi, attraverso segnali visibili.

     Il corpo ci riporta alla concretezza e alle piccole cose. Un disagio o malattia del corpo, infatti, ci impone di prestare attenzione a ciò che mangiamo, a come mangiamo e a come ce lo cuciniamo, alle ore di sonno, alla qualità del sonno, ai ritmi di lavoro, ecc. Uno spot televisivo, qualche anno fa mostrava questa condizione in modo chiaro, esprimendo la malattia nei termini d’ore perse a lavoro, a cena con amici, a praticare sport, ecc.

     Il disagio quindi, da una parte ci obbliga a fermarci dai nostri abituali ritmi, interrompe quello che è il nostro circuito d’impegni e attività, dall’altra ci chiede di prestare attenzione in modo diverso a sé stessi.

     La malattia ci impone un contatto con la propria Ombra (come intesa da Jung). Il sintomo è una parte d’Ombra, precipitata nella materia, ovvero ci manifesta ciò che ci manca, che è stato allontanato dalla consapevolezza, che continuiamo ad ignorare (Dethlefsen e Dahlke).

     L’Ombra è ciò che ci ritroviamo alle spalle, la parte meno visibile dietro la facciata o immagine, tutto ciò che è stato rimosso perché spiacevole e non consono alle “idee accettabili”, per noi e per il contesto circostante.

     Ma, essendo l’Ombra la proiezione della luce che ci investe, non possiamo liberarcene, essa ci segue costantemente e continua a rimandarci i retroscena.

     Tralascio volutamente quei disturbi, che originano da traumi o situazioni che creano conflitti o stress acuti. Dove la situazione si articola in una maggiore complessità. Riferendomi qui agli intoppi nel processo evolutivo, che dura tutta la vita e ha a che fare con la progressiva adultizzazione, indipendenza, consapevolezza, con la ricerca di sé, che produce un equilibrio fra ciò che siamo stati e ciò che siamo, ciò che il passato ci ha fornito e ciò che oggi possiamo conquistare, fra luce e ombra, esterno ed interno, involucro e contenuto.

     In questo processo di crescita, che non si limita ad azioni concrete (laurearsi, lavorare, fare figli, ecc.), il corpo ci fornisce sicuramente spunti, segnali e indicazioni. Se ci osserviamo, in relazione a come guardiamo noi stessi, a come ci dirigiamo verso gli altri, a come accarezziamo un bambino, all’utilizzo del nostro spazio, a come mangiamo, alla nostra postura, il corpo non ha bisogno di ammalarsi.

     Non è mia intenzione dare primato al corpo, ma reinserirlo nel campo di consapevolezza e di vicinanza emotiva. Se usiamo la classificazione di Hall (1966) sulla “distanza emotiva”, potremmo dire che è importante recuperare un’adeguata distanza emotiva da sé stessi e dal corpo, ritrovando con sé l’intimità e generosità della relazione madre-bambino, trascesa con la crescita, ad una “distanza pubblica”, ovvero caratterizzata dal guardare il corpo “dall’alto della testa” o razionalità, quasi fosse un elemento “basso” e deprecabile.

     Pensiamo all’enorme difficoltà, con cui svariate persone guardano gli altri negli occhi. Ciò denota una “distanza pubblica” dall’altro e da sé. Infatti, guardare negli occhi è un segno d’autoespressione e autodeterminazione, che traduce l’equilibrio energetico all’esterno (Lowen, 2004). Lo sguardo inoltre, consente un’elevata intimità affettiva con l’altro, che implica consapevolezza emotiva e corporea di sé.

     Immaginiamo per esempio, una persona che per ragioni evolutive, si sia sempre fatta carico di molte responsabilità, più di quelle che gli competono, si sia quindi adultizzata precocemente e abbia smesso presto di ridere e giocare. Questa persona si porta sulle spalle, un carico eccessivo, per quanto gli spetta.

     Se prestiamo attenzione alla semantica, la persona in questione non può che avere le spalle curvate in avanti, la testa china, un atteggiamento stanco, di chi tiene duro e porta da tempo questo carico. In questo caso il dis-agio non può essere trasformato in agio, fino a che non si libera del carico in eccesso, non drizza la testa e le spalle per guardare in faccia gli altri, la vita e sé stessi.

     Certamente, se la situazione perdura oltre modo, non c’è da meravigliarsi che si verifichi un’infiammazione dell’area cervicale, abbassamento delle difese immunitarie, l’urto o scontro con qualcosa che si trova di fronte, tipici di chi continua con quel copione di vita: testa bassa e spalle ricurve.

     Tutto ciò spiega il perché dell’accrescersi di terapie corporee o a mediazione corporea. Da una parte si è verificata una crescente comprensione e sensibilizzazione della relazione fra corpo e psiche, fra agire e sentire (a partire dalle prime ipotesi di Reich, Pierrakos, Lowen, Moreno, Perls, ecc.). Dall’altra diventa sempre più chiaro, per gli addetti ai lavori, che si debba recuperare la persona nella sua interezza, corpo compreso.

     La richiesta d’aiuto poi, s’indirizza sempre più verso tale direzione, portando dei sintomi somatici, con sottostanti disagi emotivi.  E’ evidente la necessità di leggere e tradurre i segni del corpo in disagi emotivi, in conflitti psichici. Il corpo deve essere trasceso, attraverso sé stesso, il corpo cioè rappresenta il cartello indicatore e la via stessa, come tale non può essere ignorato, ma congiunto con la meta stessa.

     Ritengo quindi fondamentale un lavoro integrato mente-corpo, dove nessuno dei due termini sia dimenticato o privato di valore (vedi ad esempio la psicoenergetica di Schellembaum).

     Se, in qualità di terapeuti, teniamo conto delle regole della reciprocità e del linguaggio (Semi), ne consegue l’importanza di ricambiare il paziente o consultante, di quanto ci ha “regalato” attraverso la condivisione, anche in termini di forma, cioè usando lo stesso linguaggio. Ciò implica la capacità di stare nel corpo, per comprenderlo e andare oltre, traducendo il suo linguaggio nel significato sottostante.

     A tal proposito, la risonanza attiva (Schellenbaum, 2002), a fronte della risonanza passiva o empatica, costituisce uno degli strumenti di mediazione corpo-psiche, che permette l’attualizzazione e trasformazione del transfert nel qui e ora di un “agire strumentale”.

     Non possiamo che auspicarci, un ascolto attento del corpo che permetta di vivere nella propria casa, con consapevolezza sensibile e serena.

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

     Abraham G. (1998). I segreti del nostro corpo. Mondatori.

     Berne E. (1967). A che gioco giochiamo. Bompiani.

     Berne E. (1971). Analisi transazionale e psicoterapia. Astrolabio.

     Dethlefsen T., Dahlke R. (1986). Malattia e destino. Edizioni Mediterranee.

     Goulding M.M., Goulding R.L. (1979). Il cambiamento di vita nella terapia ridecisionale. Astrolabio (1983).

     Hall E.T. (1966). The hidden dimension. Garden City, N.Y.

     Jung C.G. (1980). L’uomo e i suoi simboli. Longanesi.

     Jung C.G. (1965). Ricordi, sogni, riflessioni. Rizzoli.

     Lai G. (1980). Le parole del primo colloquio. Boringhieri.

     Lowen A. (1992). Il narcisismo. Feltrinelli.

     Lowen A. (2004). Bioenergetica. Feltrinelli.

     Lowen A., Lowen L. (1979). Espansione e integrazione del corpo in bioenergetica. Astrolabio.

     Moreno J.L. (1988). Manuale di psicodramma. Astrolabio

     Pierrakos J.C. (1969). The voice and feeling in self-expression. Institute for Bioenergetic Analysis, New York.

     Reich W. (1973). Analisi del carattere. Sugarco Edizioni.

     Schellenbaum P. (1995). Alzati dal lettino e cammina! Red Edizioni.

     Schellenbaum P. (2002). Vivi i tuoi sogni. Red Edizioni.

     Semi A.A. (1985). Tecnica del colloquio. Raffaello Cortina.

     Wollams S., Brown M. (1978). Analisi transazionale. Psicoterapia della persona e delle relazioni. Cittadella editrice (1985).

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